Mentre lungo le strade delle città tedesche del dopoguerra si afferma la Repubblica di Weimar e di conseguenza quelli che sembravano essere i primi accenni del nazional socialismo, dentro gli studi cinematografici Lixie-Atelier di Berlino, in sole tre settimane, vede la luce il primo “cattivissimo” della storia del cinema.
“Das Cabinet des Dr. Caligari” venne fin da subito considerato come il capolavoro, la nota finale della cinematografia espressionista, se non dell’intera corrente artistica. Senza questo film muto, datato 1920, e quindi padre primo di film come “Nosferatus” di Murnau o l’intramontabile “Metropolis” di Lang, probabilmente ora il cinema contemporaneo mancherebbe di tante sottili sfumature che hanno permesso alla “settima arte” di meritare questo elegante soprannome, dopo le lunghe battaglie per affermarsi agli occhi dei nostalgici. In questo film-enigma dai toni cupi, infatti, ogni caratteristica è così singolare da renderlo unico nel suo genere. Un mix perfetto di spunti: il teatro di Bertolt Brecht, il cabaret, le opere angoscianti di Ernst Ludwig Kirchner, e la voce tetra di Edgar Allan Poe hanno insaporito di follia, perno primo della narrazione, l’occhio visionario di Robert Wiene, il quale è stato poi capace di servire il tutto su di un piatto di forme strane chiamato appunto: Caligari.
La pellicola si apre con il suono tagliente di un violino in sottofondo. I titoli d’ingresso sembrano essere scritti dalla mano di un esaltato. I disegni sullo sfondo esplodono senza colori in forme squadrate, angolari, spigoli che mostrano le ferite di un mondo devastato.
Due uomini siedono su di una panchina immersa in un bosco. Il più vecchio dei due, un uomo deformato in viso dal terrore, spiega la sua condizione; è un uomo mangiato dall’angoscia, che parla al suo interlocutore osservando allucinato il vuoto davanti a sé. Gli occhi cerchiati dalle occhiaie. “Ci sono spiriti da ogni parte. Sono attorno a noi” dice.
In lontananza una donna raccolta come un fantasma, appare vestita nel lutto d’un vestito bianco, in contrasto con il grigiore livido della scena. Anche lei guarda il vuoto. Osserva il cielo senza contemplarlo. Si fa strada tra i rami degli alberi con le mani, con movimenti lenti, come se quegli stessi rami possano ferirla se mossi con forza.
È quindi il turno del secondo uomo che ci racconta la propria storia, di lui e di quella donna austera che gli passa davanti senza osservarlo. “Ciò che io e lei abbiamo vissuto è ancora più strano di quello che avete vissuto voi” dice rivolgendosi al vecchio. La musica cala come un sipario di suoni, l’inquadratura si stringe sui volti. “Lasciate che ve lo racconti…”
Tutto è teatro in questo film: dai movimenti, al trucco, alle inquadrature fisse, alle scenografie spezzate. Persino le parole che non possiamo sentire, ma leggere, sono scritte per il teatro e non per il cinema.
Come in tantissimi dipinti espressionisti, le ombre giocano un ruolo fondamentale per riuscire ad evocare lo smarrimento introspettivo tipico della corrente artistica. Il buio contro la luce, il bianco ed il nero, la follia che a volte oscura la capacità critica, mostrandoci anche nello sguardo di un bambino, le ombre sadiche del demonio. Il luccichio d’un occhio tormentato.
A noi, figli del ventunesimo secolo, questa teatralità quasi insensata ci obbliga a porci delle domande. Non possiamo ignorare quello specchio disegnato del nostro mondo: i nostri palazzi sono sempre più squadrati, ed i colori ormai sostituiti dal ferro, dal vetro, dagli spigoli minimalisti.
Il racconto ha luogo nella piccola cittadina di Hostenwall, la città natale di Francis, il narratore.
Come un sogno allucinato si apre il palcoscenico della storia che stiamo per ascoltare. Le case sono disegnate su fogli di carta, senza prospettiva e bidimensionali. Il paesino visto da lontano sembra un ammasso di punte strette una sull’altra.
Poi un uomo entra nella scena vuota. Un uomo con il cappello a cilindro e un lungo mantello nero. Cammina curvo sorretto dal proprio bastone. Ha il viso disegnato con linee scure come fossero una smorfia tragica e maligna. Ancora non ci è dato sapere il suo nome, sappiamo però che tutto ciò che sta per accadere, accadrà per colpa sua, per colpa del suo arrivo alla fiera paesana.
Durante la fiera il paesino diventa un mirabolante spettacolo di bizzarrie. Gli abitanti stessi sono così strani da sembrare tutti delle attrazioni mobili, che deridono e vengono derisi a loro volta. Tutto volteggia senza misura. La musica incalza un ritmo frenetico. Le persone camminano lungo le strade labirintiche, guidate come un gregge di pecore dalle urla degli imbonitori. Ci sembra quasi ti poter sentire l’odore d’una tanto vivace giornata. Il profumo di dolciumi si mischia agli escrementi delle bestie. È tutto un parco giochi sregolato e senza limiti, proprio come la fantasia degli artisti espressionisti.
Proprio in questa cornice allucinata, Caligari, l’uomo ombroso arrivato nel paesino, presenta la sua opera. Come un venditore di carabattole suona la sua campana davanti ad un capannone sgangherato. “Avvicinatevi gente!” urla . “Qui, per la prima volta, potrete vedere Cesare. Il sonnambulo.”
La primissima cosa che colpisce di tutto il film sono le architetture della scenografia. I fondali disegnati da Hermann Warm, Walter Reimann e Walter Röhrig, affondano nell’occhio come una lama arrugginita. Le forme non hanno nulla a che vedere con il mondo reale. Tutto è finzione. La prospettiva non esiste, le linee da verticali diventano orizzontali senza un preciso ragionamento logico. Persino le persone sembrano fatte di spigoli. Le scenografie sono disfatte secondo un eccentricità capace di sconvolgere ancor prima della narrazione, come una sorta di “sottotesto non verbale” che va a colmare il vuoto imposto dall’assenza dei toni di voce. In questo caso è quindi l’occhio e non l’orecchio a mostrarci i nascondigli della psiche umana. Quelle disegnate sono finestre sbilenche che non hanno bisogno di mostrarci cosa ci sia fuori, perché l’importante è ciò che sta dentro all’inquadratura, dentro le smorfie accentuate delle persone.
Finché scrivo questa breve descrizione, una voce femminile attira la mia attenzione. Sono in un piccolo bar dove solitamente mi rifugio per non essere disturbato. In controluce entra la sagoma di una signora magrissima, coperta da un lungo abito a righe bianche e nere , e con le occhiaie scavate in viso. Impassibile resta davanti al bancone, aspettando di essere servita.
Per un istante ho l’impressione che uno dei personaggi del film sia scappato alle regole della ragione, saltando da una parte all’altra dello schermo. Lei è lì, come a volermi mostrare la vittoria del distopico mondo raccontato da Wiene, come a volermi dire: “Guarda stupido. Guarda il declino specchiarsi negli occhi delle persone logore. Questo è ciò che avete fatto. Ci avete trasformati in spettri che camminano.”
Quella nostra prima notte nel paese, si compie il primo assassinio. Le autorità informano che qualcuno ha ucciso il segretario comunale.
Tutto ci appare già fin troppo chiaro, Caligari dev’essere il colpevole. Ma nella cittadina di Hostenwall l’omicidio sembra passare in sordina. La fiera continua ad alimentare il furore degli abitanti. Il ritmo aumenta di frenesia, le giostre girano più veloci, e Caligari , sbracciandosi ed urlando come un ossesso, non smette di incitare la gente ad entrare a vedere Cesare, il sonnambulo.
Francis e il suo amico Alan, dunque, assieme ad un’ondata impetuosa di gente affamata di fantasticherie, si lanciano nella tenda dell’uomo per vedere lo spettacolo del “ragazzo che dormì 23 anni” e che solo davanti a loro aprirà gli occhi e racconterà la verità.
Questo è forse uno dei momenti più forti di tutto il film. In questa scena l’inquadratura si stringe sul viso di Caligari, mostrandoci per la prima volta tutti i peccati dell’uomo. Caligari è truccato in volto, con gli occhiali tondi e lo sguardo tanto folle quanto spaventato; è una sorta di mago talmente terrificante da spaventarsi lui stesso per le proprie azioni. È un dominatore intransigente delle menti delle persone, rancoroso e folle.
Mi chiedo se per tutti esistano quei momenti, quando ci si ritrova soli davanti ad uno specchio, in cui, avvicinandosi con il naso a pochi centimetri dal naso riflesso, ci si accorge di osservarsi, davvero, per la prima volta. A me in certe occasioni capita di restare in silenzio e guardare dritto negli occhi di quell’uomo che mi sta davanti. Ci osserviamo come se entrambi cercassimo qualcosa dentro lo sguardo dell’altro. Ci assomigliamo, eppure c’è qualcosa di diverso tra noi due. Nessuno batte ciglio. Ci guardiamo a lungo finché uno dei due (sicuramente io) non si spaventa. Così mi allontano, di scatto, e per un attimo ho quasi l’impressione che, invece, lui resti ancora lì, a guardarmi mentre me ne vado senza più voltarmi.
Lo spettacolo inizia. In questa scena, assieme a tutti gli spettatori presenti all’interno del “Cabinet des Dr. Caligari”, anche noi vediamo per la prima volta Cesare.
Il sonnambulo è una figura alta, filiforme, completamente vestita di nero che viene tenuta dentro ad una bara di legno.
Si capisce subito come il personaggio di Cesare sia stato preso da spunto per creare decine di personaggi di pellicole più moderne. Con Cesare nasce il vampiro vestito di nero, magro e con il viso bianco, gli occhi cerchiati dalle occhiaie ed un’espressione asettica come quella di un morto vivente. La figura di quest’uomo che si sveglia dal sonno eterno è così radicata nella nostra memoria che non appena viene inquadrato, abbiamo l’impressione di conoscerlo da sempre, di averlo già visto così tante volte da provare una sorta di empatia nei suoi confronti. Non credo che questo fosse un effetto voluto al tempo, ma ora il risultato è quello di vedere in Cesare qualcosa di molto vicino a noi . Nell’inquadratura frontale, strettissima sul viso del sonnambulo con gli occhi serrati, noi come lui, restiamo paralizzati, fermi come statue condannate nel tempo, e ci sentiamo mossi ad ogni piccolo scatto del suo viso.
Lentamente, a piccoli impulsi, Cesare apre gli occhi; prima con fatica, un millimetro alla volta, per poi spalancarli sul mondo respirando attraverso quelle sfere bianche l’aria di una vita nuova. E con lui forse anche noi per la prima volta apriamo gli occhi su ciò che abbiamo davanti. Noi improvvisamente diventiamo Cesare che osserva un mondo folle.
Guardate allora. Guardatevi attorno, fuori dalle vostre finestre, guardate oltre i muri, dentro le case altrui. Guardate gli oggetti che vi circondano. Guardate le persone che vi passano davanti quando camminate per strada. Guardate le vostre famiglie, gli amici, i colleghi di lavoro. Guardate la televisione ed i social network. Cosa vedete? Il caos totale, non è così? Questo è ciò che anche Caligari vuole mostrarci. Ma noi, nel caos, ci viviamo dentro da quando siamo nati. Noi stessi, in questo mondo frenetico, siamo il caos; dentro e fuori di noi.
Solo in questo momento prende forma l’enigma del film, ossia quel filo drammaturgico che ci tiene attaccati allo schermo nel tentativo di rispondere alla domanda principale: chi è l’assassino?
Dopo il primo ed ultimo contatto tra Alan e Cesare, durante il quale Alan viene informato della propria morte imminente, la storia esploderà in un continuo intrecciarsi nevrotico di immagini, strade, scatti, suoni.
Le musiche, scritte dal Vicentino Giuseppe Becce, sono il sale di questo film. I violini sembrano rasoi affilati capaci di tagliare la pellicola. Ci guidano, passo dopo passo, in una storia macabra della quale ancora non immaginiamo la fine.
Ci rendiamo sempre più conto di come tutto ciò che stiamo osservando sia un continuo delirare e mostrare per non mostrare, nascondere davanti alle evidenze. Chi è l’assassino? Noi come Francis, il quale vive una vita regolata dalla ragione, siamo convinti sia Caligari o meglio Cesare che, intrappolato nel suo sonnambulismo, viene condizionato dallo stesso Caligari per compiere atti disumani.
Caligari diventa la metafora del potere sulle menti delle persone. Al tempo in cui uscì il film, si trattava sicuramente di una critica nei confronti della repubblica di Weimar, ma possiamo considerarla tutt’ora valida per la società contemporanea in cui viviamo. Oggi più che mai abbiamo la consapevolezza che molte nostre azioni, molti nostri atteggiamenti sono condizionati da qualcosa: possano essere gli insegnamenti genitoriali, come i media o i social media, le amicizie o, più semplicemente, i libri che leggiamo.
Ogni cosa ci condiziona inevitabilmente, e non resta che porsi la domanda: chi vogliamo essere noi? Preferiamo essere Caligari? Cesare? Oppure Francis?
Le strade strette della cittadina di Hostenwall diventano quindi la metafora della trappola mortale della follia. Quel dedalo di vicoli sembrano una prigione per gli abitanti che non riescono a nascondersi dall’assassino sconosciuto, che come un fantasma miete vittime svanendo nell’ombra.
Il vero momento di svolta arriva però solo a tre quarti del film, quando, dopo essere stato accusato ed imprigionato un abitante del posto, credendo di aver archiviato il caso, noi, attraverso gli occhi di Francis, ci ritroviamo fuori dalla roulotte del mostruoso Caligari a spiare attraverso la finestra. Tutto appare normale. La roulotte è una piccola stanza con una sedia sulla quale dorme il dottore, mentre al suo fianco, disteso nella bara di legno, Cesare continua il suo sonno, imprigionato costantemente all’interno della propria mente.
Eppure, nello stesso momento, un’ombra nera, longilinea di un uomo con il volto bianco ed una calzamaglia, striscia lungo le mura delle case fino ad affacciarsi alla finestra di Jane, l’amata di Francis. L’ombra si muove come una bambola rotta o meglio un burattino mosso da fili invisibili.
È Cesare. Lo stesso Cesare che abbiamo visto qualche secondo prima immerso in un sonno profondo.
Due enormi vetrate filtrano la luce blu della luna illuminando la stanza in cui dorme la ragazza. Appena fuori appare Cesare che si muove lentamente, per poi entrare e andare verso la ragazza in primo piano. Vediamo un Cesare diverso dal solito, quasi cosciente di ciò che sta facendo.
Una volta arrivato al confine del letto, lentamente il sonnambulo alza una mano scoprendo un coltello reso ancor più affilato dalla luce bianca della luna che lo illumina nella notte. Cesare guarda la donna con serietà e desiderio mortifero. Eppure esita per un attimo. Vuole prima sfiorarle il viso; abbandona il coltello e si allunga senza muovere un suono. La mano di lui è un artiglio che si avvicina sempre di più verso il viso di lei, come se l’uomo volesse graffiarla e accarezzarla al tempo stesso. Ma non appena viene sfiorata, lei si sveglia.
La rabbia di Cesare e la sua follia si scatenano in una smorfia demoniaca. Ora vediamo il lato più cupo della morte. Non vediamo più un uomo ma un mostro assetato. Il sonnambulo sembra un invasato capace di tutto. Tra i due viene ingaggiata una lotta per la sopravvivenza. Ci sembra quasi di sentire le urla strazianti della ragazza che cerca aiuto mentre si dimena per liberarsi dalla presa. Carico di eccitamento Cesare però riesce ad afferrarla e sparisce lungo le strade della città con la donna sulle proprie spalle.
Mi rendo conto che abituati come siamo a guardare film dove ci viene mostrata ogni cosa e dove nulla è lasciato all’interpretazione del pubblico, trovarsi davanti ad un film muto ed in bianco e nero, dove gli uomini recitano enfatizzando ogni movimento ed esaltando ogni espressione facciale, possa risultare una forzatura, a tratti ridicola. Eppure se pensiamo all’arte teatrale, dalla quale il cinema prende spunto, l’immaginazione del pubblico è sempre stata la forza stessa, necessaria per la riuscita della rappresentazione. L’arte, d’altronde, per funzionare ha una sola necessità: essere esposta ad un pubblico che ne ammiri le forme. Il teatro, come il cinema o la letteratura (ma specialmente il teatro), sono quelle arti che più necessitano di un pubblico, attento, capace di un forte coinvolgimento. Senza l’immaginazione del pubblico la rappresentazione non funziona. Con rammarico mi accorgo di come noi spettatori contemporanei stiamo perdendo sempre più tale capacità. Siamo diventati dei realisti intransigenti che tendono a ricercare la credibilità più di ogni altra cosa. Una volta nel cinema, le tonalità di bianco e di nero prendevano importanze diverse in base ai diversi occhi che le osservavano. Il silenzio vibrava più forte di un urlo. Tutto era finzione. Una finzione palese. Nonostante ogni evidenza portasse a credere che nulla di ciò che si vedeva fosse possibile, si decideva comunque di credere ad ogni menzogna, ed ancor più importante, la si caricava di significati.
Questo non vuol dire che ora non esistano più opere d’arte capaci di evocare tali emozioni, ma è altresì vero che ora si sta perdendo la capacità di fantasticare e di lasciarsi guidare nella finzione senza porsi delle barriere. Nell’arte, come nella vita quotidiana, come nei sentimenti che sempre più spesso vengono mascherati per paura di diventarne vittime.
Cesare, inseguito da alcuni abitanti, muore nella notte cadendo in un dirupo durante la fuga. La ragazza di Francis viene portata in salvo. Caligari è in trappola; ma noi come Francis ancora non ci capacitiamo di come tutto ciò sia possibile. Abbiamo visto tutti il corpo di Cesare sdraiato nella propria bara.
Il narratore, sconvolto, convinto di ciò che ha visto, si dirige dalla polizia per assicurarsi se, per caso, non fosse fuggito il prigioniero precedentemente incolpato degli omicidi. Ma l’uomo è ancora lì, dentro ad una prigione di ombre, seduto a terra, legato ai polsi da due enormi catene, fissate a loro volta ad un masso d’acciaio inamovibile.
L’inquadratura si sposta sul viso di Francis, affiancato da due gendarmi tanto immobili da diventare quasi della stessa materia dello sfondo alle loro spalle. Il ragazzo non riesce a capire cosa stia succedendo. Per un attimo tutto si ferma. Francis, voltando lo sguardo verso i propri pensieri, trema dal terrore, ingoiando con fatica quella ragione che fino ad allora lo caratterizzava. E con lui anche noi.
Eppure noi sappiamo che Francis non sta impazzendo, noi, a differenza sua, abbiamo visto in viso Cesare mentre attaccava la ragazza.
Come prova definitiva viene organizzata un’ulteriore ispezione alla roulotte di Caligari. Tutti attendiamo con ansia di scoprire il trucco del malefico mago. Gli uomini entrano con forza nella roulotte ed estraggono la bara, posandola in primo piano in modo che tutti possano vedere. La bara viene scoperchiata. Nel frattempo Caligari, conscio delle proprie colpe, fugge.
Dentro quelle tavole di legno c’era un manichino. Nessuna magia, nessuno strano trucco malefico o ultraterreno.
La furia di Francis si scatena per l’offesa ricevuta. Inizia così l’inseguimento che ci porterà verso la risoluzione del film.
Improvvisamente, seguendo le tracce di Caligari, finiamo all’interno di un manicomio.
Anche se inizialmente siamo convinti di guardare un film dalla trama semplice ed intuitiva, in questo momento finale della storia, il regista scopre tutte le carte nascoste, mostrandoci un film dalla forte complessità e completezza.
Solo ora, quindi, ci accorgiamo di tutti i meccanismi (mai casuali) che inconsciamente ci portano a credere a qualcosa, mentre nel frattempo ne sta avvenendo un’altra, in un altro luogo della storia alla quale noi non abbiamo accesso.
Assieme a Francis, anche noi veniamo catapultati in una realtà diversa. Il manicomio è l’opposto della città. Non ci sono persone ed il cortile principale non è tetro e spigoloso, anzi, è uno spazio mistico, un tempio che infonde tranquillità.
Francis cercando spiegazioni, incredulo, scopre che il mostruoso sconosciuto che qualche giorno prima era apparso nella sua cittadina, è in realtà il direttore del manicomio.
Sopraffatto dalla schiacciante verità con la quale si è appena scontrato il ragazzo prova a cercare aiuto nei medici dell’ospedale. Più volte perde i sensi nel tentativo di spiegare ai medici che il direttore è un assassino.
Deciso a risolvere il caso, Francis, accompagnato da tre medici, inizia una ricerca nello studio del professore. Grazie ad un libro sul sonnambulismo e al diario segreto del professore, nascosti entrambi in una porticina nel muro dello studio, si viene a conoscenza della storia di un uomo (un “mistico” lo chiamano) il quale nel 1703 girava per le fiere dei paesetti del nord Italia, mietendo vittime grazie alla capacità di condizionare la mente di un sonnambulo. Il suo nome era ovviamente: Caligari.
Scopriamo quindi che la follia del direttore deriva dal desiderio di questo, di conoscere tutti i trucchi usati da quel mistico Caligari, per riuscire anche lui a muovere le menti delle persone a suo piacimento.
“DEVI DIVENTARE CALIGARI. DEVI DIVENTARE CALIGARI. DEVI DIVENTARE CALIGARI. DEVI DIVENTARE CALIGARI. DEVI DIVENTARE CALIGARI.” È la frase a lettere cubitali che viene ripetuta sui muri di una stradina, nel momento di delirio raccontato nel diario del professore, quando quest’ultimo si rende conto che per scoprire i segreti del “Mistico” Dr. Caligari, non ha altro modo, se non quello di immedesimarsi lui stesso nel folle italiano.
Caligari diventa così il sacrificio della ragione in virtù di uno scopo più ampio. La vittoria dell’ombra sulla luce.
Snocciolando questo film ci accorgiamo sempre più che “Das Cabinet des Dr. Caligari”, nato quasi cento anni fa, tratta tematiche così attuali da obbligarci inevitabilmente a porci delle domande riguardanti la nostra società attuale.
Ciò che afferma il regista, è che “per l’artista espressionista ciò che è esterno è apparente. Egli intende piuttosto rappresentare ciò che è interiore. […] Attraverso l’espressionismo noi comprendiamo come la realtà sia irrilevante e come l’irreale sia potente: ciò che non è mai esistito, ciò che è stato solo percepito, la proiezione di uno stato d’animo verso l’esterno”.
Questo ci fa capire come, al tempo, lo scopo espressionista puntasse alla critica della realtà e della verità, del concetto di normalità, concetti che al tempo furono messi in dubbio già da diversi psicologi e filosofi, da Freud al tardo Nietzsche.
Eppure, riguardando questo film nel nostro presente, ci rendiamo conto di come in questo nostro momento storico si viva una sorta di retrocessione. Anche se circondati da persone libere di sfogare il proprio estro, nel pieno di un’epoca di libera espressione, dove i luoghi comuni dovrebbero essere ormai parte del passato, persiste comunque la tendenza comune a categorizzare di continuo, senza rendersi conto che ognuno di noi vive un mondo diverso in base alle proprie esperienze, ed alle proprie conoscenze.
Così mi chiedo quanto possa essere difficile riuscire ad entrare in sintonia con “l’altro”.
Finché non sapremo comprendere la sofferenza di una persona, o le problematiche di qualcuno, non saremo mai capaci di vedere il mondo con i suoi occhi, ma ci limiteremo ed osservare come spettatori esterni e inesperti, più tendenti alla critica che alla comprensione.
Come per un film in bianco e nero, in cui siamo costretti ad inventarci i colori e le intonazioni di voce, anche nelle relazioni umane siamo costretti a fare uno sforzo per riuscire a identificarci nella vita di chi ci sta davanti. Ma non avendo vissuto le stesse identiche esperienze di tutte le persone che incontriamo, dunque, non ci resta che ascoltare, raccogliere con attenzione, per poi provare ad immaginare, proprio come fanno gli artisti quando creano mondi mai esistiti.
Cos’è empatia se non la capacità di immedesimazione, la quale prende forma dall’immaginazione?
Noi tutti siamo come spettatori di un teatro reale. Dunque mi chiedo, se dovessimo perdere sempre più questa nostra capacità di immaginare, come potremmo pretendere di capire, e quindi di giudicare, chi ci sta affianco?
Ma lo spettacolo d’un film così malsano non cessa mai di aprire nuove ferite alle nostre convinzioni. Quando la storia di Francis si conclude, la scena si sposta di nuovo sulla panchina su cui siedono i due uomini.
L’inquadratura si muove verso l’esterno del bosco. Siamo ancora dentro il cortile del manicomio. Il cortile è pieno di gente. C’è Jane e persino Cesare che in realtà non è un sonnambulo.
Quella che per tutto il film ci è apparsa come l’evocazione memoriale di Francis, in realtà non è che la delirante visione di un folle.
Ciò che fino a quel momento abbiamo imparato ad accettare per vero, ci viene demolito davanti agli occhi. Scopriamo che Francis, sul quale avevamo riposto tutta la nostra fiducia, è in realtà lui stesso un degente del manicomio.
Tutto succede con isterica velocità. Il direttore che ha le sembianze di Caligari. Francis che ha le sembianze del sonnambulo. Cesare che stringe un mazzo di fiori nascosto in un angolo del cortile. Jane convinta di essere una regina. Un uomo barbuto urla all’impazzata.
Nell’ultima scena sentiamo ancora una volta la musica mortifera del violino in sottofondo. Francis ha una camicia di forza ed è sdraiato sul letto di una cella. In primo piano il direttore si toglie gli occhiali. L’occhio si stringe sullo sguardo severo ed enigmatico del dottore.
Cosa di tutto quello che abbiamo visto è vero? Chi è il folle e chi il sano di mente?
Il film, senza rispondere alla domanda, ci lascia in balia dell’incertezza. Non abbiamo risposte da darci. Siamo improvvisamente naufraghi tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori.
Ma forse ciò che voleva dirci Robert Wiene, è che, proprio nel dubbio, dovremmo cercare una risposta. Dubitando affermiamo a noi stessi che, se non possiamo distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, probabilmente, tutti noi siamo potenzialmente folli.
La follia, dunque, non è che quel piccolo pasto ferroso, che senza mostrarsi, nutre di strani sogni la nostra psiche, come un lieve sentore amaro, fermo in un punto del palato che non riusciamo mai a leccare via.
A tutti noi, d’altronde, è capitato almeno una volta di sentir riaffiorare qualcosa da un profondo pieno di schifezze. Qualcosa che non capiamo se vero o finto, come un germe sfuggito al controllo della nostra coscienza: lo vediamo, lo viviamo per un istante, ma poi lo ingoiamo di nuovo, per paura di lasciarlo libero.
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