Lo sguardo fisso nel mio, Michela non si perde una sillaba delle domande che le rivolgo. Le sue risposte arrivano precise, lievemente incrinate dall’emozione che la prende nel raccontarsi. Mentre io sorseggio il mio caffè prima che si freddi, il suo pirlo attende, paziente, sul tavolino del bar vicino alla ciotola di patatine. Parliamo di montagna, della vita che l’aspetta una volta terminata l’università, e la sua voce è solo una delle tante che accompagnano il mio viaggio.
Sono rientrata a casa in un intervallo tra un progetto lavorativo e l’altro e forse, per la prima volta con una certa consapevolezza, mi sono chiesta: come si vive davvero in Valle Camonica? La bellezza di questo luogo mi è rimasta impigliata nel profondo e mi stritola ogni volta che faccio le valigie verso nuove avventure. Novanta chilometri di vallata alpina, un corridoio di creste e declivi conficcato tra le Alpi Retiche; dai 180 metri sul livello del mare di Pisogne, ci s’inerpica ai 1.883 del Passo del Tonale, dove ancora echeggiano i cannoni della Prima Guerra Mondiale e giacciono, sepolti tra neve e trincee, i reperti di qualche alpino martoriato.
“Il sogno è sempre stato un po’ quello: la montagna”, mi riporta al presente immediato Michela, raccontandomi perché e come, qualche anno fa, si è iscritta proprio all’Università della Montagna. “Una passione che mi ha trasmesso il papà: a otto anni mi ha portata per la prima volta in Adamello”. Ora sono io a sgranare completamente gli occhi, dato che la mia interlocutrice me la ricordo quand’era piccola e un paio di avventure per sentieri le avevamo fatte insieme, ma roba tranquilla. Cima Adamello, invece, sono 3.539 metri sul livello del mare. Deve avere rappresentato per lei un’avventura unica, anche se non stento a credere che il suo legame con vette e percorsi CAI sia stato ugualmente rinsaldato da esperienze più comuni, fatte di notti passate nei rifugi, zaini colmi all’inverosimile e scarponi inzaccherati.
È di fatto un legame affettivo quello che tempo e sforzi creano, un vincolo di fraternizzazione con gli altri alpinisti sul tuo percorso – salutare e quando possibile fermarsi a fare due chiacchiere è inciso nel codice etico dei sentieri – che ti chiede di replicare un’atmosfera di famiglia con perfetti sconosciuti, nelle situazioni più improbabili. Non mi stupisce che il desiderio di lavorare in un rifugio, sbocciato sempre da bambina, la accompagni ancora. Al mare dice di aver sempre percepito un senso di solitudine, di assenza, mentre la persona che arriva in montagna non è mai da sola. La riporto sulla strada dell’università, mentre mi pare buffo che per arrivare tra le vette delle stelle alpine si scelga di passare dai banchi di un’aula. “Chi sono i tuoi compagni, Michela?”
“Da una parte il ragazzo che è cresciuto in mezzo ai boschi con i nonni, che non sa cosa sono i cartoni animati e ha deciso di portare avanti la tradizione familiare contadina, ma con competenze aggiornate. Dall’altra il giovane che ha avuto sempre il sogno di scappare dalla città e di avvicinarsi alla montagna, perché era un mondo sconosciuto, misterioso, un sogno; si è avvicinato tramite l’università e da lì ne ha fatto la sua ragione di vita, diventando guida alpina o maestro di free bike”.
“L’odore che emana il ghiacciaio… senti i resti. Acre di ghiaccio, che sembra quasi dolce”.
Michela ora si deve concentrare sugli esami restanti, ma sta già pensando ad una tesi sull’utilizzo delle aree boschive durante la Prima Guerra Mondiale: “le conseguenze, per le segherie, delle pallottole trovate nei tronchi, come sono cambiati i confini, eccetera”. In queste zone, come in buona parte dell’arco alpino, montagna vuol dire anche questo: conflitti che hanno lasciato tracce, tracce che ogni tanto riaffiorano dal ghiacciaio. “L’odore che emana il ghiacciaio… senti i resti. Acre di ghiaccio, che sembra quasi dolce”.
Archiviata l’esperienza universitaria le piacerebbe seguire l’aspetto culturale e turistico, aprendo un agriturismo. “Non è facile, ci vuole sacrificio. L’aiuto c’è, ma ci sono anche parecchi vincoli.” Mi pare chiaro che la tenacia non le manchi: Michela lavora da quando ha diciassette anni ed è da poco diventata co-titolare di un bar dove lavora di sera. La notte la passa sui libri a preparare gli esami che le restano e quando ha un momento libero sposta piano piano le sue cose nell’appartamento sotto a quello dei suoi genitori: vuole andare a vivere da sola e ci sta riuscendo.
Vuole restare in valle, tra quelle montagne che sente sia doveroso valorizzare più di quanto già non si stia facendo e delle quali conosce nel dettaglio persino le leggende: con gli occhi immensi e lucidi, si addentra nei racconti popolari, talvolta supportati dalle spiegazioni degli esperti che da decenni piegano le teste sui massi istoriati. Montagne ritenute a buon titolo sacre dagli antichi, stregati dal raggio di sole che al tramonto spacca in due la Concarena, e da quell’ombra indomita che a ogni equinozio proietta nel cielo la pala del Pizzo Badile camuno. Mi saluta, ricordandomi che esistono bandi per la concessione delle malghe pensati apposta per i giovani e che tramite l’università c’è la possibilità di partecipare a convegni e di tenersi costantemente aggiornati.
Solo due giorni prima sono uscita dall’Ufficio Agricoltura della Comunità Montana di Valle Camonica con la sensazione che l’azzurro intenso dello sguardo di Alessandro, Istruttore Direttivo Tecnico, mi seguisse ancora. “Come Comunità Montana cerchiamo di sostenere progetti comprensoriali, promozionali, come questo” dice indicando le quattro pubblicazioni che mi pesano in grembo, “d’incentivazione, anche gestendo dei finanziamenti da parte di Regione Lombardia per il sostegno proprio delle aziende agricole della Valle Camonica.” Mette un punto alla frase e io ne approfitto per chiedere cifre e dati. “Come partite IVA sono un migliaio, quindi non sono poche; poi quante di queste aziende facciano solo quello come attività probabilmente saranno il 40% e tutti gli altri sono hobbisti oppure come part time allevano, coltivano, producono…” e a modo loro contribuiscono al presidio e al mantenimento di un territorio tanto vasto quanto diversificato. Colta da una subitanea passione per i numeri, insisto su quante di queste realtà vivono solo di attività agricole. “Penso indicativamente tra le trecento e le trecentocinquanta aziende, quindi famiglie” Perché, di fatto, si parla quasi esclusivamente di aziende a conduzione familiare, salvo qualche rara eccezione dove si registra la presenza di dipendenti.
Abbasso gli occhi verso gli opuscoli e, neanche a farlo apposta, il primo della pila è sulla produzione di vino. Leggendo le pubblicazioni, avrò poi modo di scoprire che la superficie vitata ammonta oggi a circa 150 ettari, i viticoltori sono sui 500 e le aziende vitivinicole con relative cantine si aggirano sulla ventina: “Il risultato finale è rappresentato da oltre trenta etichette prodotte nel raggio di pochi chilometri.” Una vera e propria riscoperta affiancata dallo sviluppo di un approccio imprenditoriale – quasi un piccolo boom, oserei dire – figlia degli anni Duemila, e che, per arrivare a quei 150 ettari, è partita dai soli 85 del 2001.
Da scettica quale sono, mi pare giusto chiedere se il cambiamento sia stato portato da gente che è venuta da fuori. Sentirmi dire che la categoria dei non autoctoni è decisamente ridotta – “pochissimi” – mi porta a guardare con occhio diverso ai giovani locali, anche se, quella che fino a qualche anno fa poteva essere solo una scelta, oggi è una decisione dettata anche dalle circostanze economiche generali. Eppure, vedere prospettive concrete per il proprio presente nelle attività portate avanti dai padri, non implica forse l’avere trovato una risposta alla domanda del come si resta a vivere in montagna?
Tutte queste esperienze hanno dimostrato che quando si produce bene, di qualità, la vendita non è mai un problema.”
Oltre ai vini qui si producono castagne, olio e miele, lumache, frutticultura – piccoli frutti inclusi – piante officinali. “Tutte queste esperienze hanno dimostrato che quando si produce bene, di qualità, la vendita non è mai un problema.” Mi piace parlare con Alessandro, punta l’attenzione sul bisogno di passione che un giovane deve avere per cimentarsi in queste imprese, quasi a sottolineare che è giusto che rimangano delle scelte, mai delle imposizioni, perché uno se la deve sentire, gli deve piacere insomma. Un’altra cosa che ci tiene a sottolineare è che se sussiste l’impegno, si riscontra anche uno sbocco redditizio: non è un’invenzione di qualche sognatore hippie, anche perché esistono dei sostegni economici. C’è però un problema, insito nel DNA di queste terre.
La frammentazione del territorio: non è facile convincere i locali, diffidenti a vendere o a cedere in affitto i propri terreni in modo che sia possibile realizzare un accorpamento; su questo, al contrario di altre zone, come ad esempio la Toscana, l’eventuale presenza di capitale sembra non potere nulla. Nel frattempo, però, i terreni incolti sono la maggior parte, specie per la cosiddetta zona a mezzacosta, profondamente oggetto di abbandono. Gli alpeggi in quota, invece, garantiscono un certo presidio del territorio ed esiste anche un trend di recupero, ma i numeri e le metrature dell’incolto tuttora sono molto ampi.
“La castagna invece come sta?” chiedo, consapevole che qualche anno fa un insetto ha attaccato le piante e azzerato per alcuni anni la produzione locale. Dall’anno scorso c’è stato un recupero grazie all’entrata in azione di alcuni “animaletti”, antagonisti del cinipide nemico: si è trovato un equilibrio. Confesso che è bello sentirsi dire che le piante sono tutte vive e che non c’è bisogno di abbatterle, sia pensando alla bellezza paesaggistica dei boschi, che agli sforzi fatti negli anni. Il Consorzio della Castagna è nato a Paspardo nel 1996, riunisce quasi 200 soci e “ha attuato una serie di interventi di risanamento, conservazione e valorizzazione produttiva dei numerosi castagneti presenti sul territorio attraverso la filiera del bosco, l’attività agrituristica e la filiera della castagna. Inoltre, in collaborazione con i produttori locali, sono state introdotte anche moderne tecnologie di coltivazione e lavorazione.”
Pare evidente che per chi intende vivere in montagna, non sia tutto rose e fiori: certo non lo è mai stato, ma, nel Novecento, la Valle Camonica compì una brusca sterzata dalla civiltà contadina ad una tarda ed imperante industrializzazione. Nel giro di un paio di generazioni si sono perse tradizioni, ma soprattutto competenze, sino ad allora tramandate di bocca in bocca. Mi chiedo come sia possibile recuperare tutto questo e penso soprattutto all’ondata di hobbisti che da qualche anno si stanno cimentando sul territorio, con piccoli progetti. Come aiutare Davide di fronte al Golia della parcellizzazione dei terreni e della mancanza di visione comune (i danni del campanilismo sono sempre stati evidenti per tutti da queste parti)? “Bisognerebbe favorire le cooperative”, suggerisce Alessandro. Le cooperative garantiscono infatti anche ai piccoli agricoltori di produrre tramite macine in comune, frantoi, cantine e via dicendo, di modo che, anche senza grande capitale, possano continuare nel loro piccolo l’opera di salvaguardia del territorio.
È sabato pomeriggio ormai, decido di salire a Borno per fare qualche foto alla XX Festa della Transumanza. Non so bene cosa aspettarmi, perché non ho ricordi personali legati a questa manifestazione e sono appunto circa tre anni che dalle mie parti bazzico ben poco, troppo poco. L’impressione è che per il paese ancora non ci sia nessuno, mentre la gente si è accalcata nello spazio della manifestazione, a detta di alcuni di dimensioni più ridotte rispetto alle passate edizioni. Imposto la macchina, mi riempio di paglia, scatto foto a mucche, asini, capre, pecore, un asino che fa il borioso con le pecore, le pecore nere che se ne stanno in disparte, il campanaccio suonato da una bambina, la mucca lievemente irritata, le oche che starnazzano, i maialini che dormono – non si sa come, data la confusione di adulti, infanti e gente di tutti i tipi che si restringe in pochi metri a fare selfie e ammirare un mondo che per molti non c’è più. Qualche viso rubizzo, da pastore abituato a stare all’aria aperta, stand di prodotti tipici reinventati in ricette ancora più sfiziose per l’occasione. Torno a riflettere: come si vive in montagna?
mi ero ripromessa che una volta diventata grande non mi sarei più tenuta neanche l’orto, perché non volevo più avere a che fare né con la terra, né con questo stile di vita
È sera, rivedo brevemente gli opuscoli accumulati in questi giorni e scappo da Caterina, che mi aspetta nel suo appartamento, giusto accanto al Bed and Breakfast. Appoggio il registratore sul tavolo, lo accendo e mi lascio cullare dalla sua voce, decisa e melodiosa. “Faccio una piccola premessa: siccome sono nata e cresciuta in una famiglia di contadini che hanno sempre lavorato la terra e la terra è stata l’unico sostentamento che abbiamo avuto in famiglia, quando ero piccola e passavamo le domeniche nei campi, io ho sempre sognato di vivere all’ultimo piano di un condominio, senza neanche un pezzo di prato fuori. Mi ero ripromessa che una volta diventata grande non mi sarei più tenuta neanche l’orto, perché non volevo avere a che fare né con la terra, né con questo stile di vita.” Resto ammutolita e non nascondo lo stupore di fronte a questa piccola dichiarazione d’intenti: conosco Caterina da tempo e ho deciso d’inserire la sua voce in questo reportage perché, seppur facendo altro nella vita, l’anno scorso ha deciso di seminare a mais un campo di cinquemila metri quadri. Una hobbista insomma, ma pur sempre fortemente legata al territorio, come più volte è emerso dalle nostre precedenti chiacchierate. “Perché poi, quando sono diventata grande, ho capito che l’essere contadini non era proprio un lavoro o una scelta, ma è proprio una condizione nella quale tu ti ritrovi. Il mensile non esiste, il salario non esiste. Esiste invece questo modo di economia circolare che ai miei genitori ha permesso di allevare sette figli, a i quali, peraltro, non è mai mancato assolutamente nulla.”
Cosa è cambiato nella sua visione tanto da indurla a tornare alla terra? “Una volta cresciuta e fatte le mie scelte, sia in ambito scolastico che lavorativo, ho capito che comunque la terra fa parte di me. Anche se non l’ho vissuta così come i miei genitori, ho sempre creduto che da lì tu hai la possibilità di cogliere tutto quello che ti serve per vivere. E potresti anche non avere bisogno di altro. Perché quella che avevano i miei genitori era un’economia basata anche sullo scambio; per cui c’era il signore che veniva a dare una mano a mio papà per fieno e mio papà gli dava il mezzo chilo di burro, senza contare le ore. Oppure veniva quello che gl’innestava le piante – abbiamo sempre coltivato tutto a livello familiare, vino compreso – oppure chi veniva a darci una mano a vendemmiare. Non è che aveva la pretesa di essere pagato, ma andava a casa con i suoi due grappoli di uva.
Oltre ai campi avevano il bestiame, sempre su piccola scala: al massimo dodici mucche, tenute sotto casa. La scarto del formaggio e del burro che ricavavano dal loro latte veniva dato al maiale, dal quale avrebbero poi, a loro volta, fatto i salami. Il tutto pienamente inserito nel ciclo delle stagioni, con i campi da preparare in primavera, il fieno in estate, un autunno di pascolo delle mucche in cascina, inverno di legna e pulitura dei boschi. Autunno ed inverno venivano dedicati anche alla raccolta delle foglie, da usare poi per il fondo delle stalle: alcuni pezzi di bosco venivano addirittura rastrellati. “Se lo guardo adesso, io non lo riconosco più il bosco, non riconosco più neanche i prati dove sono nata e cresciuta, perché mio papà li teneva come un giardino, falciando a mano la parte verso la siepe dove non si arrivava con la macchina.” Oggi invece conta la metratura per le aziende agricole, in base alla quale si ottengono i contributi. “L’estate non si vedono più carri di fieno girare.”
Sempre d’estate, le mucche andavano in malga. La famiglia di Caterina le affidava ai malghesi che oltre alle proprie, raccoglievano anche quelle dei contadini più a valle. L’estate si saliva a piedi, l’autunno si scendeva e le loro mucche di solito erano contrassegnate con della vernice rossa su un corno. In base ai litri di latte prodotti, il malghese dava al contadino un tot di forme di formaggio. “A me è capitato con mia mamma di partire con le mucche, lei davanti, io dietro, in questi viaggi lunghissimi. Partivamo magari alle quattro la mattina e arrivavamo su verso mezzogiorno.” Viaggi che ora sembrano impossibili, appartenenti ad un altro mondo anche solo nel raccontarli. Ritorno con la mente all’oggi e agli opuscoli: “15.000 ettari […] vengono destinati a pascolo in alpeggio; gli allevamenti bovini, ovini e caprini superano il migliaio.”
Quando si appartiene a una cosa, prima o poi si riprende e così si riprende un po’ anche il proprio equilibrio, perché se sei nato lì non c’è niente da fare.
Come a dire che certe cose mutano forse nella forma, ma di fatto non cambiano: sembra una canzone di Venditti. “Quando si appartiene a una cosa, prima o poi si riprende e così si riprende un po’ anche il proprio equilibrio, perché se sei nato lì non c’è niente da fare. A me piace anche il mare, mi piace la città, ma mi sarebbe impossibile vivere senza toccare la terra o vedermela proprio sotto i piedi.”
E il campo? In origine apparteneva a suo nonno e quando suo padre ha fatto le divisioni tra i figli, ha deciso di tenerlo per sé, pensando che in caso di bisogno un campo ce l’avrebbe pur sempre avuto. L’anno scorso, il fratello di Caterina è rimasto senza lavoro, c’era tempo da dedicare a un nuovo progetto e la voglia e il bisogno di rigenerare i pensieri. Hanno valutato le varie possibilità su come valorizzare questi cinquemila metri di terreno, in una buona posizione, soleggiata, ricca di acqua (zona un tempo sede di un santuario romano dedicato alla dea Minerva). Sono partiti dai ricordi di quando erano piccoli e i bambini in fila venivano inviati a spargere i semi, ricoperti di una sostanza rossa – probabilmente i primi pesticidi – con l’ordine perentorio di non mettersi la mani in bocca. Ponderando le varie opzioni, hanno deciso per il mais, in concomitanza con il rilancio della qualità locale dello “spinato”, quando non si sapeva ancora con certezza quanta resa avrebbe avuto. Si sono fatti dare una mano da dei ragazzi per estirpare l’erba, in modo da non usare diserbanti, e alla fine la soddisfazione è stata grande, soprattutto per la qualità del prodotto, oltre che per l’avventura in sé.
“È stato un lavoro che ha coinvolto tutto il resto della famiglia, con nostra mamma che ci spiegava come dovevamo fare le cose e ci sgridava quando non aspettavamo i tempi della natura. È stato bello e questa cosa ci ha riportato un po’ alla dimensione originale nella quale eravamo. Cioè che è davvero più buono quello che produci in un certo modo, ma soprattutto quello che produci in piccole quantità. Sono riuscita a seguirlo, a raccoglierlo, ho avuto tutto il tempo per togliere le foglie a mano, per sgranarlo e portarlo al mulino, ed è proprio stato bello”.
Il campo l’anno scorso è stato piantato per metà a spinato e per metà a marano, ottenendo dai 15 ai 18 quintali di mais. Quest’anno metà a spinato e metà a grano saraceno e la raccolta avverrà a fine ottobre. “Non è che questa cosa ci permette di campare, è chiaro. Però intanto ci ha permesso di riprenderci la terra che era nostra e anche di tirarci fuori delle cose buone. Perché poi questa cosa ci ha anche aperto gli occhi su un mondo che sta tornando, quindi se io domani volessi mettermi ad allevare delle galline, sono sicura che troverei chi me le acquisterebbe, perché hanno già assaggiato la mia farina. E a me piacerebbe davvero che nelle famiglie si ritornasse a fare polenta.” Un invito a riscoprire un cibo semplice dal quale nei secoli sono dipese le nostre abitudini alimentari e spesso anche la nostra sopravvivenza di gente di montagna.
Metto punti, tolgo virgole, snellisco e tento di spiegare i passaggi meno chiari, tornando sempre all’interrogativo iniziale: come si vive in montagna? Come si vive davvero sulle montagne, ma anche in collina e nel fondovalle di questa Valle Camonica, dove il sole spacca cime millenarie e bacia i pomeriggi di fine settembre? Si vive un po’ come allora, quando istoriavano le rocce con utensili ormai scomparsi: all’ombra di vette prodigiose, riscoprendo stili di vita che sembravano perduti e riadattandoli agli anni che sono e a quelli che verranno. Terreni incolti, boschi lasciati all’incuria, insetti che attaccano piante talvolta centenarie. A scriverle così sono cose che fanno un po’ paura, ma nessuno ha mai detto che vivere in montagna fosse cosa semplice, anzi! Se mai, è proprio il luogo, ma anche il tempo della sfida, del ritrovare la bellezza di questa valle dei segni.
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