Una Sibilla, interrogata sul destino di Marozia, disse:
“Vedo due città: una del topo, una della rondine” […]
entrambe cambiano nel tempo; ma non cambia il loro rapporto:
la seconda è quella che sta per sprigionarsi dalla prima
Italo Calvino – Le città invisibili
Siedo a terra e, fatta eccezione per il logoro pezzo di stoffa che mi cinge i fianchi, sono completamente nudo. Pelle brunita dal sole, capelli e barba lunghi: sembro uscito dal vecchio testamento, dice qualcuno, o da una giungla in India. Sul litorale non sono l’unico scalzo e senza vestiti eppure, a giudicare dagli sguardi che mi lanciano, devo dare nell’occhio. Non appena accenno un sorriso o saluto, comunque, tutti contraccambiano volentieri. Da qualcosa si deve intuire che non faccio parte della fauna dei locali albergoni con piscina – e qui è tutto esclusivamente, albergoni, ville, piscine, shopping center e golf club.
In effetti sto vivendo senza un soldo in una grotta, una caletta hippie a 3 km verso ponente, cui tornerò tra poco. Stasera, intanto, sono venuto a fare un giro “in babilonia”, o in Matrix, come direbbe qualcuno della schiera di strambi freak e nipoti dei fiori di cui sono ormai entrato a fare parte:
Nel mio vagabondaggio serale sono approdato su questa spiaggia il cui nome, come per quello dei protagonisti di certi romanzi russi, viene storpiato dalla mia mente ogni volta che lo rileggo e ormai non riesce a suonare altro che Playa Fabergé. La città, che chiamerò col fittizio nome di Marozia, si trova su una delle Isole Canarie e il numero, sempre in crescita, dei suoi turisti (quasi 6.000.000 l’anno, contro una popolazione residente di 40.000) la rende uno dei municipi più ricchi di tutta la Spagna.
Sono i primi di Novembre, la passeggiata è già illuminata da festoni natalizi ma, anche di notte e anche senza vestiti, fa ancora caldo. E’ seconda serata, attorno alle dieci: l’atmosfera è mite e anche gli ultimi avventori cominciano a lasciare i tavoli dei ristoranti. Dietro di me il mare buio scroscia il suo incessante richiamo nel porticciolo di barche a vela e catamarani. Davanti, in lontananza, si intravedono le montagne di rocce vulcaniche e cactus su cui, dagli anni ’50 ad oggi, è stata creata dal nulla questa immensa e chilometrica colata di cemento, asfalto e prato finto. I primi ad investire furono svedesi e belgi: ancora oggi ad alcuni resort si accede solo con pacchetti all-inclusive pensati esclusivamente per chi vola da quei paesi.
Ovunque sembra di essere nell’irreale e asettico set cartonato di un immenso parco divertimenti per adulti votato al consumo. Scatto una polaroid col pensiero. In primo piano, sfocati, camminano una madre 100% cockney, della Londra popolare, con figlio sovrappeso in fase pre-adolescenziale. Lei ne ha parlato, fumando avidamente sigarette economiche, durante la pausa caffè in fabbrica con le colleghe e sì, alla fine ha deciso di spendere un po’ di più, ma di passare qui alle Canarie le sue ferie, per godersi con un bel ricordo gli ultimi momenti in cui lui si lascia ancora trattare da bambino. Per 11euro possono concedersi una tenera serata madre-figlio tra le spiritose buche del minigolf.
In secondo piano, sulla destra, una coppia di ragazze non giovanissime, una andina, l’altra bengalese, parlano di stipendi e straordinari da aggiungere a turni di lavoro lunghi già 12 ore. Dai netturbini alla security, qui tutto rientra nella logistica del benessere del cliente, con aerei simili a navi piene di container, che ogni giorno portano sull’isola tutto ciò che occorre a far sentire il cliente come e meglio che a casa propria.
Perché qui si viene in vacanza, ma in realtà non si vuole affatto staccare dalla routine. Solo, si vuole essere serviti, mentre si ripetono esattamente gli stessi appuntamenti cui si è abituati a casa propria. Le televisioni trasmettono i programmi cui siamo affezionati; le radio e le pubblicità sugli sconti nei supermercati parlano nella nostra lingua, qualunque essa sia. L’agenda ci segue con le stesse sveglie: yoga e corsa al mattino, aperitivo la sera e giro da ikea nel weekend: si è sempre in tempo a comprare un bagaglio supplementare da aggiungere in stiva per il rientro.
Una famiglia di biondi olandesi dai pastellati abiti estivi è tutta riversa sugli smartphone: il piccolo gioca, la figlia chatta, la mamma fa shopping on-line e lui è al telefono con i colleghi per assicurare che se non riuscirà a terminare il lavoro da qui farà una scappata in ufficio lunedì. Tra poco si dirigeranno verso il loro albergo di media taratura, dove la stanza base senza colazione costa 300 euro a notte.
Ma non ci facciamo mancare nessuno: ci sono i gruppi organizzati, le giovani coppiette dell’offerta lastminute, i crisi di mezza età in cerca di avventure e gli immancabili anziani sul triciclo elettrico che qui, in ogni stagione, costituiscono la più grande fetta di mercato.
I due seduti ai tavolini di “Mediterraneo pasta pizza paella fast food”, in particolare, hanno preso una proprietà in timesharing (casa di vacanza condivisa); la gestione cinese del ristorante è invece tradita dai vistosi alberi di mandorlo in plastica e luci rosa a led che abbelliscono la terrazza. Nel locale accanto un tristissimo pubblico annoiato viene malamente intrattenuto da un improbabile cantante folk settantenne che sta cantando, lo giuro, “I’m still young”. In mezzo alla diapositiva, anche lui seduto per terra, c’è Juan con il suo cucciolo di cane, Miky. Da trent’anni, mi dice con orgoglio, vive per strada su quest’isola, ma non è felice. “Perché? cosa ti manca?” Mi guarda di traverso e poi, dopo una lunga pausa, lattina di birra in una mano e sigaretta nell’altra, sbiascica con voce roca: “oggi è un brutto giorno”. Mi spiega, con una saggezza tutta isolana, che i turisti appena atterrati se ne stanno in albergo e “poca gente pochi soldi”. Accenna al misero piattino delle offerte che ha davanti.
In un angolo buio del riquadro, infine, un giovanissimo venditore prova, in un russo basico e sdentato, a vendere un pacchetto escursioni al malcapitato di turno: c’è il giro del vulcano in deltaplano, la minicrociera sulla nave vichinga con personale di bordo vestito alla vichinga [sic!], la pista di kart e il parco acquatico a tema Thailandia (i proprietari, gli stessi dello zoosafari, sono del Siam).
Le persone che amano il proprio lavoro di solito si riconoscono dall’apertura solare che emanano. Paula, genitori argentini, lavora per una di queste agenzie “intrattieni turista”, ma a lei non piace assalire i clienti: le piace accoglierli e servirli con dedizione. Il proprietario non c’è mai e lei può gestire il business a modo suo. “Alcuni tornano per raccontarmi come si sono trovati e, ogni tanto, ci abbracciamo anche”. Guadagna solo su commissione e, mi spiega, essendo i prezzi fissi, ogni euro che sconta lo detrae dal suo stipendio, “ma magari così riesco a vendere qualcos’altro e…il gioco è tutto lì”. Alcuni, con una media di 600 euro a testa, si programmano tutta una settimana di diversioni. Qualcuno entra e le dice “non voglio sconti, dammi il più caro che hai”, ma lei crede che la felicità non dipenda da quanto paghi il giro in barca: devi avercela dentro. “E’ come se venissero qui per dimostrare che sono qualcuno, quando in realtà fa tristezza pensare che nella vita non hanno altro, se non i loro soldi”.
E poi ci siamo noi. Se acquisti, ad esempio, il giro sulle moto ad acqua, ti portano anche a vedere la nostra spiaggia degli hippie con i culi al vento. La guida dice “eccoci, questa è la caletta X, potete fare le foto” e poi si riparte rombando. Perché in fondo, in qualche modo, anche noi rientriamo nel pacchetto marketing dell’isola. Ma sì, per i più alternativi, da incastrare il martedì tra le altre cose da fare comprare e vedere, c’è anche il giro in quel posto dove vivono nelle grotte, perché no.
Lì, su quelle tre calette lasciate (per ora) libere da costruzioni, circondate a destra e sinistra dalle luci degli alberghi e, in alto, dalle palme del golf club, ci siamo noi. Qui intorno una parcella di terreno edificabile vale oro, ma si sa: le cose migliori non hanno prezzo. fino a due anni fa ci vivevano più di 300 persone; poi la polizia ha ridimensionato le cose e ora, fuori stagione, fissi ci restano, sì e no, una ventina di duri e puri. Alcuni svernano con i soldi del welfare di paesi come la Germania, altri racimolano spicci sulle passeggiate turistiche, sommandosi alle africane che fanno treccine e agli italiani che vendono droghe più o meno leggere. Venditori di braccialetti e amuleti, cartomanti, ritrattisti, giocolieri, musicisti, intrattenitori di bambini con bolle di sapone o palloncini e dispensatori di allegria. Anche noi, insomma, ad oliare il macchinario del divertimento.
Per prendere l’acqua dolce bisogna andare su fino al campo da golf e per muoversi bisogna salire e scendere dai barranchi per una mezz’ora, magari con i pesi, ma ci si abitua facile. Qualcuno poi, negli anni, ha costruito vere e proprie case, con pannelli solari, orti pensili, stanze da letto multiple e zone giorno con vista sull’oceano e tutti i comfort. Quasi tutti, in realtà, pur stando qui, non rinunciano al cappuccino al bar, e ogni giorno vanno a mischiarsi ai turisti per i loro bisogni, chi più e chi meno attento a fare acquisti consapevoli. Per il cibo, qualcosa si raccoglie dai bananeti e dalle palme da dattero in giro per l’isola, ma la maggior parte di chi vive qui fa la spesa al supermercato, usa la guagua (come qui chiamano gli autobus) e non rinuncia ad internet o al computer per vedersi un film. Insomma, anche fra gli hippie, ci si porta sempre dietro la propria routine.
Lo stare immersi nel suono del mare, senza tempo, specchi o costrizioni, modifica anche le nostre menti. Balliamo più spesso alla luna e alle stelle e ci sentiamo un po’ più parte della natura. Chiunque arriva è il benvenuto e si accoglie con un abbraccio, come parte di una stessa famiglia di cui siamo tutti fratelli e sorelle. Prima del sorgere del sole e dopo il tramonto, è bello ritrovarsi noi soli sulla spiaggia, tra vicini di casa e qualche turista che viene in giornata lo sente, in fondo, che qui si è ospiti di un microcosmo in cui valgono regole differenti.
Qualcuno ci vede un po’ come i Robin Hood delle foreste di frodo del XXI secolo, tra l’egualitarismo non violento dei Rainbow Gatherings e gli ecovillaggi. Ci definiscono l’alternativa possibile o l’avanguardia del pensiero libero. Ma in fondo, credo, tutto alla fine, col tempo rientra nel sistema. Come i caffè bohemien degli anni ’20, presto si diventa di moda e, gentrification, gli artisti e i vagabondi migrano altrove a cercare la loro libertà in nuove utopie.
Qualcuno, nel camminare per questi deserti di sassi e polvere, pensa ai profeti di Galilea. Io, andando a prendere l’acqua e rovistando tra i resti delle capanne abbandonate, mi sento più come tra i sassi di Matera o come tra le baracche del Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola.
La differenza non è fuori, e il mondo di uomini nuovi che deve venire non è altrove nel tempo. La profezia Hopi recita “quando la terra sarà devastata e gli animali inizieranno a morire, una nuova tribù di persone verrà sulla terra dai molti colori, classi, credi e con le loro azioni renderà di nuovo verde la terra”. Ma l’oracolo della Sibilla può essere interpretato ancora in un altro modo: c’è sempre, dentro ognuno, una spinta al volo della rondine verso la luce, e ogni giorno è il giorno nuovo che deve venire. Per questo Marco Polo così termina il suo racconto al Gran Kan:
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin