Amstelveen, a due passi dall’aeroporto di Schipol, nel pieno della periferia meridionale di Amsterdam. Il sole degli ultimi giorni ha lasciato spazio ad un cielo nuvoloso, ma il clima è ancora quello appiccicoso dell’umida tarda primavera del 2018. Sul campo due squadre di quindici uomini si affrontano ormai da ben oltre gli 80 minuti regolamentari. I giocatori sono stanchi, ma non hanno intenzione di mollare; nessuno di loro lo ha fatto per tutta la partita. Il punteggio – caso raro nel rugby – è ancora inchiodato sullo 0-0. Il primo tempo supplementare sta già volgendo al termine, e la tensione continua ad aumentare. Il rischio di giocarsi il passaggio del turno al lancio della monetina si fa concreto, ma lasciar segnare gli avversari sarebbe destino anche peggiore. Dopo i tempi regolamentari si gioca al sudden death: il primo che segna, vince.
Sul finire del tempo la squadra in viola recupera la palla da una rimessa laterale. È l’ultima occasione per chiudere qui il match. I ragazzi lo sanno, e si muovono all’unisono per raggiungere la meta avversaria. Quasi subito si forma una maul: il portatore di palla viene bloccato dagli avversari, ma senza essere placcato. Allora i compagni di squadra si legano a lui da dietro, cercando di dargli il supporto e la spinta necessari per continuare a muoversi in avanti. Con questa tattica è possibile guadagnare metri preziosi, ed eventualmente prepararsi per liberare la palla e avviare un’azione più repentina. E questo è proprio quello che accade, con la palla che passa indietro di giocatore in giocatore, fino ad uscire dalla maul e arrivare ad un compagno di squadra che, di corsa, si avvicina ancora alla linea di meta prima di essere atterrato con un fallo.
L’occasione è ghiottissima: si può tirare un calcio di punizione. Se viene trasformato, calciando la palla in mezzo ai bracci della porta a forma di “H”, sarà vittoria. Ma la porta è ancora lontana, ed il rischio di perdere di colpo i tanti metri faticosamente guadagnati è alto. Con una decisione improvvisa il capitano riprende il gioco, raccoglie la palla e si scaglia in avanti in solitaria. Altri metri guadagnati, altro fallo. Altra ghiottissima occasione per un calcio di punizione. Stavolta si decide di calciare. Ed il calciatore in squadra è Richard.
Richard è arrivato in squadra solo quest’anno. È un giocatore di esperienza, ma in questo torneo non è andata granché bene con i calci piazzati. Anzi, è andata proprio male: nemmeno uno è andato a segno. È la sua grande occasione di cambiare l’inerzia di queste giornate. I secondi che passano tra la decisione di calciare la punizione e la sua esecuzione sono sempre un po’ lunghi. Si decide di calciare, si attende che qualcuno da bordo campo porti il kicking tee, il supporto per l’ovale, e si posiziona la palla. Poi, di colpo, il silenzio. È il momento di calciare, e a quel punto non c’è più niente a cui dover pensare. La corsa, il calcio, tutto va in automatico. La palla s’impenna, guadagna velocità, poi passa equidistante dai due pali. Il guardalinee alza la bandierina: è dentro! Rick è sommerso dai compagni di squadra, i supporter entrano in campo senza capire più niente. Tutti gridano e si abbracciano, la fatica fatta fino a qualche secondo prima è spazzata via da questa ennesima scarica di adrenalina. I Berlin Bruisers hanno vinto, raggiungendo per la prima volta la semifinale di un torneo internazionale.
Tutto sommato una storia qualunque, ma che vale la pena raccontare. I Berlin Bruisers, e le altre squadre partecipanti alla Bingham Cup 2018 ad Amsterdam, sono squadre associate sotto l’egida dell’International Gay Rugby. Questa associazione, attiva ormai dal 1995, si propone di promuovere l’accoglienza della diversità – principalmente, ma non esclusivamente, per quanto riguarda sessualità e orientamento sessuale – negli sport di squadra, e specificatamente nel rugby. La Bingham Cup è la massima espressione tra le attività dell’associazione. Con più di 2.300 giocatori registrati e 74 squadre da tutto il mondo, l’edizione del 2018 della Coppa è stato il più grande evento del genere dalla sua fondazione.
E personalmente, sono entusiasta di avervi partecipato.
Il mio primo tentativo di giocare a rugby risale all’autunno dei tardi anni ’90. Vivevo ancora ad Arezzo, la mia città natale, e raggiunsi il campo da rugby per scambiare due chiacchiere con i ragazzi che spesso vedevo là. Purtroppo quel giorno c’era soltanto il custode, che mi informò che la squadra di rugby si era trasferita presso un nuovo campo dall’altra parte della città. Sono stati necessari due traslochi in due differenti città e venti anni per dare al rugby un’altra possibilità. Perché ho atteso così a lungo prima di riprovarci? Mi sono posto questa domanda più di una volta, senza mai arrivare ad una risposta. Sicuramente una certa mancanza di fiducia in me stesso ha giocato un ruolo importante. Ed essere un adolescente omosessuale un po’ grassoccio e un po’ nerd in una piccola città di provincia negli anni ‘90 non rendeva il tutto più semplice. Anche se, devo ammetterlo, le difficoltà stavano soprattutto nella mia testa.
Poi è successo che nell’autunno del 2016, dopo averci pensato su per qualche mese, mi sono finalmente deciso a lasciare un messaggio sul sito dei Berlin Bruisers. Nel sito si parlava di rugby inclusivo, della possibilità per chiunque – indipendentemente da età, forma fisica o esperienza di gioco – di unirsi alla squadra, giocare e divertirsi. Al tempo avevo 34 anni, e il tutto suonava un po’ come l’ultima occasione per provare questa esperienza.
Sul sito della squadra era indicato come campo di allenamento il parco pubblico di Friedrichshain. Il parco era sulla strada di casa dal lavoro, quindi sembrava la soluzione ideale per chi, come me, cercava un’attività sportiva da svolgere al pomeriggio e che offrisse anche una dimensione sociale un po’ più vasta di quella possibile in palestra.
Il mio primo contatto con i Bruisers è avvenuto tramite Fred. Era il “fratello maggiore” designato, la persona a cui i nuovi arrivati potevano fare riferimento, ed effettivamente averlo al mio fianco nei primi tempi è stato molto importante. Certo, scoprire grazie a lui che proprio da quel mese il campo di allenamento non era più il parco pubblico, ma un vero e proprio centro sportivo a Grünewald, dall’altra parte della città, mi aveva un po’ impensierito. Tra andata e ritorno, significava dover spendere quasi due ore sui mezzi pubblici per partecipare ad ogni singolo allenamento. Sono poi venuto a sapere che i Bruisers si allenavano con la squadra proprietaria del campo, i ragazzi del BSC (Berliner Sport Club). Il centro sportivo, dove ancora ci alleniamo, ospita squadre di molte altre specialità, oltre che una club house dove ci ritroviamo per bere una birra dopo quasi ogni allenamento.
Dal 2012 moltissimi giocatori diversi hanno vestito la maglia dei Bruisers. Del resto Berlino, come ogni grande metropoli, è una città di arrivi e partenze, e non è raro che l’esperienza di alcuni giocatori si apra e si chiuda nell’arco di una stagione. Del nucleo originale di componenti, oggi sono i fondatori Adam e Colin, un inglese ed uno scozzese, a fare ancora parte del team. Adam è stato fino a quest’anno presidente della squadra, mentre Colin, che della squadra è stato capitano, sta preparando – dicono i rumors – il suo rientro in grande stile, per riprendersi la sua maglia numero 9, quella del giocatore che più di ogni altro deve saper tenere insieme la squadra durante le partite.
La natura della squadra, accogliente ed inclusiva, finisce per attrarre una gran varietà di giocatori. Ad oggi vi sono circa 60 membri, di cui 30 sono giocatori attivi. Ma non vi è un vero e proprio profilo ricorrente: il Bruiser standard non esiste. Giocatori esperti o principianti, eterosessuali od omosessuali, berlinesi di nascita od expats. La lingua principalmente usata è l’inglese, ma il tedesco, lo spagnolo, l’italiano o il francese risuonano spesso tra le mura dello spogliatoio e in campo. Forse l’elemento in comune un po’ a tutti è quello di saper essere ironici e autoironici. Prendersi troppo sul serio raramente porta a qualcosa di buono, e quando tanta diversità convive nella stessa squadra, saper ridere di quelle diversità e soprattutto dei pregiudizi che esse si portano dietro è forse la chiave per poter vivere insieme questa avventura.
Da quando sono stati fondati, i Bruisers hanno partecipato a quattro campionati nel raggruppamento Nord-Est della Regionalliga, la terza ed ultima serie tedesca. Finora la squadra ha chiuso spesso il campionato in fondo alla classifica, con un certo miglioramento nell’ultima stagione, quando ha raggiunto l’ottavo posto su dieci partecipanti.
Quando sei un dilettante, e giochi in una squadra del genere, sei lì soprattutto per portare un messaggio con la tua presenza. Ma nessuno gioca una partita con lo scopo di perderla. E se vuoi migliorare, hai bisogno di strutture tecniche e organizzative. E di spogliatoi e docce. Perché allenarsi in un parco nel freddo e nell’oscurità dell’inverno berlinese non è il modo migliore per tirare fuori il meglio dai tuoi giocatori.
È con questa ratio che i Bruisers hanno deciso di associarsi ai BSC. Da un lato questo ci permette di vivere la nostra vocazione inclusiva anche nella quotidianità degli allenamenti di ogni giorno. Ma per offrire un ambiente protetto dove poter muovere i primi passi nel mondo del rugby, abbiamo anche deciso di affiancare altre sessioni di allenamento, al mercoledì e alla domenica, riservate a chi si avvicina per la prima volta ai Bruisers o al Rugby. Con questi allenamenti i nuovi arrivati hanno la possibilità di entrare in contatto con la squadra, e di conoscersi reciprocamente con gli altri giocatori. Quando i nuovi arrivati si sentono pronti per il passo successivo, potranno decidere di allenarsi durante la settimana con la prima squadra. Oppure potranno decidere di continuare con gli allenamenti non competitivi, senza necessariamente giocare le partite di lega.
Io sono arrivato esattamente nel momento in cui tutto questo veniva organizzato, e probabilmente la parte degli allenamenti per i principianti me la sono proprio persa. Mi sono trovato a mollo nell’acqua ghiacciata, cercando di imparare a nuotare senza saper ancora restare a galla. Non solo era nuovo il rugby, ma era nuovo anche l’essere parte di una squadra. O meglio, l’essere parte di una squadra nella quale ero considerato un pari. Perché in passato ho giocato in altre squadre di altri sport. Ma le mie scarse capacità tecniche, oltre all’indole non proprio espansiva, mi hanno sempre fatto percepire, prima di tutto a me stesso, come un reietto.
Il primo allenamento è stato una falsa partenza: semplicemente, non sono riuscito a incontrare gli altri ragazzi. La seconda volta sono riuscito a partecipare, e la situazione è andata migliorando, soprattutto perché sentivo i compagni di squadra come un autentico supporto. Ho deciso di non mollare, anche se sessione dopo sessione mi rendevo conto di quanto scarso fosse il mio stato di forma. Già da tempo avevo cominciato a correre durante il weekend, ma evidentemente non era ancora abbastanza. Mi sono messo in testa di raggiungere subito il livello di preparazione degli altri, e stupidamente ho cominciato a strafare. Ricordo nitidamente che un giorno, invece di limitarmi ai miei classici 12-15 km, di colpo ne corsi 25. Ad un ritmo forsennato. L’unico risultato che raggiunsi fu l’infiammazione del nervo sciatico, con conseguenti due mesi di stop, e tanta fisioterapia. Quando sono tornato al campo, ero molto incerto. Sentivo quasi come se dovessi ricominciare tutto da capo. “Se stasera non mi trovo bene, me ne vado”, ricordo di aver pensato. Per mia fortuna, quella serata mi sono trovato veramente bene.
Nel tempo indossare questa maglia è diventato per me un motivo di orgoglio. Viola come il colore dei lividi, che è poi la traduzione diretta del termine inglese “bruise”, è un tratto distintivo anche piuttosto appariscente, ma mai ingombrante. Indossare quella maglia ha significato emanciparmi dalla convinzione di essere inadeguato ad avere una vita sportiva, ed emanciparmi dalla convinzione di non essere all’altezza di far parte di una squadra. Ho cominciato a giocare come ala, in quella che nella nostra squadra era la posizione riservata ai principianti. Dell’ala non ho niente: non l’accelerazione, non la velocità. Ma è stata una buona palestra per entrare in contatto con il campo, per testare cosa significa fidarsi dei tuoi compagni di squadra, ma soprattutto per sentire la necessità di essere affidabile per loro. È stata anche una buona palestra per provare i primi placcaggi.
Il rugby è uno sport di contatto, duro. Credo ci sia un momento ben preciso in cui puoi capire se vuoi essere un giocatore di rugby. Quando proverai il tuo primo placcaggio in gara, avrai paura di farti male e sarai frustrato per averlo mancato (perché sì, molto probabilmente lo mancherai). Se la frustrazione per averlo mancato e per aver incasinato la tua squadra sarà maggiore della tua paura di farti male, allora sì, allora significa che tu a rugby ci vuoi giocare davvero. Per me almeno è stato così. E forse non a caso con il tempo, e conoscendo un po’ meglio i ruoli in campo, ho “deciso” di voler giocare come flanker, la terza linea degli avanti.
In estrema sintesi, gli avanti nel rugby sono quegli otto giocatori incaricati di recuperare il possesso della palla, in modo da creare nuove occasioni di gioco per Mediani e Trequarti. Tra questi il flanker è quello che più di tutti deve saper atterrare i giocatori avversari, e stroncare sul nascere le loro azioni offensive. Mi è difficile dire perché io volessi giocare proprio in quel ruolo, a mente fredda non saprei dirlo. Ma se lascio scorrere la fantasia, l’idea del placcare gli avversari, di bloccarli e permettere alla mia squadra di ripartire, facendo tanto lavoro “sporco”, mi sembra uno dei modi più romantici di prendere parte a questo gioco.
Quasi due anni dopo il mio primo allenamento, alla fine della mia seconda stagione con i Bruisers, mi sentivo un po’ amareggiato. La prima parte della stagione era andata piuttosto bene. Avevamo giocato del buon rugby, vincendo alcune partite e ottenendo una buona posizione in classifica. Sentivo anche di aver trovato finalmente il mio posto in campo e nel team. Le aspettative per la seconda parte della stagione erano alte, ma anche a causa di alcuni infortuni e degli impegni della vita di ogni giorno, non siamo riusciti ad ottenere gli stessi risultati della prima parte della stagione.
Ciononostante, c’era ancora il gran finale di stagione a venire: la Bingham Cup 2018. Non avevo mai partecipato prima ad un torneo internazionale, e per me l’idea di partecipare ad una coppa del mondo era allo stesso tempo incredibile, eccitante e anche un po’ ridicola.
Dal primo momento in cui la squadra si è trovata alla stazione centrale di Berlino lo spirito era molto buono. Molte facce conosciute e sorridenti, con indosso magliette e felpe con i colori della nostra squadra, tutti pronti per partire per una nuova avventura. Ed essere insieme, uniti e riconoscibili come una squadra, non faceva altro che alimentare una certa euforia.
Questa meravigliosa sensazione di essere parte di una squadra ci ha accompagnato per tutto il tempo. Il primo, giorno quando abbiamo attraversato la città per presentarci alla registrazione dei giocatori, e ogni giorno successivo quando ci muovevamo per giocare le partite. E visto che per muoverci utilizzavamo i mezzi pubblici, le differenti reazioni degli altri viaggiatori al nostro gruppo, così vario e colorato, erano parte del divertimento.
Ma certo, il punto centrale del partecipare ad un torneo di rugby è giocare a rugby. Ed è difficile spiegare le sensazioni che ti attraverso mente e corpo nei minuti precedenti e durante una partita. E quando segni più punti dei tuoi avversari, provi emozioni uniche. Ad Amsterdam il miglior momento di questo tipo è stato proprio quando abbiamo vinto i quarti di finale alla sudden death durante i tempi supplementari. Credetemi, la tensione che respiravamo era la stessa di una finale mondiale. Potete avere un assaggio di quella tensione guardando il video che segue, ma viverla dal vivo, e viverla sul campo, è qualcosa che non si è in grado di descrivere a parole.
Poi c’è un altro tipo di successi, quelli che sono un po’ più personali. Quando ho avuto a che fare con lo sport, e soprattutto se si parla di sport di squadra, mi sono sempre sentito fuori luogo. Ma ad Amsterdam, dopo una partita, un compagno di squadra mi si è avvicinato, ringraziandomi per aver placcato un avversario che gli era scappato. In quel momento ho sentito come uno scatto nella mia anima. Anche se non sono uno dei migliori giocatori, poter essere presente durante un torneo internazionale senza sentirsi ridicolo, ma anzi sentendosi orgoglioso di essere lì, è stata la miglior ricompensa per gli sforzi che ho fatto per diventare un giocatore vero.
E ora, all’alba dei 37 anni, sono qui a scalpitare per la mia terza stagione con i Bruisers. Con un entusiasmo che raramente ho provato per qualunque altra cosa nella mia vita, e con nel cuore il sogno di segnare un giorno la mia prima meta. Per la mia squadra, per la mia famiglia a Berlino, e in ultima istanza per me.
P.S.: tre settimane dopo la prima stesura di questo pezzo l’autore, durante la consueta riunione di fine anno dei Berlin Bruisers, ha ricevuto da board e staff tecnico della squadra il premio “Most Improved Player 2018”, riservato al giocatore della squadra che più di tutti ha migliorato le proprie qualità tecniche.
Daniele Magnani ha anche un blog. Seguitelo.
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