Un estratto da “Bravissima”, il romanzo edito da 66thand2nd
nel quale Paola Moretti, collaboratrice di Yanez qui al suo esordio,
racconta un legame d’amore in tutta la sua ricchezza e complessità.
In “Bravissima” ci si confronta con una riflessione sulla volontà e sull’autonomia
dei bambini e si osserva il rapporto fra una madre e una figlia
secondo una prospettiva inedita e affascinante.
La storia di una ragazzina prodigio suggestiona per sempre, inevitabilmente,
anche quella dei suoi genitori.
Il 10 ottobre era la festa della santa patrona, i vicini però ci avevano avvisato che non era la ricorrenza più sentita della città, quella era tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, quando si festeggiava il protettore dei pescatori. Il primo anno le avevamo perse entrambe. Quella volta il 10 cadeva di venerdì per cui i festeggiamenti sarebbero continuati fino alla domenica. Noi tre andammo il sabato. Per santa Filomena si organizzavano giostre, stand di cibo e la riffa nel piazzale davanti alla chiesa di via del Santuario, nella parte antica della città. Le luminarie erano quelle tipiche delle sagre, ghirlande di led bianchi che decoravano i lampioni, fiocchi e campane di luci sospese al centro delle viuzze. C’era tanta gente e tanto baccano. Gli altoparlanti dei giostrai che intimavano di salire per l’ultimo giro, il tifo registrato del punching ball e le urla dei ragazzetti radunatisi in gruppi. Gli strilli delle bambine con i vestiti bianchi e le scarpe con il cinturino che si rincorrevano intorno ai tavoli mentre i genitori mangiavano pannocchie alla griglia e bevevano vino rosso in piccoli bicchieri bianchi. Da un palco lontano si sentiva arrivare anche la voce di un presentatore che annunciava l’orario dell’estrazione. Il ronzio dei generatori accanto ai furgoni dello zucchero filato faceva da sottofondo. Le luci calde, le luci fredde, le noccioline tiepide nelle buste di plastica rosse. I camion dei paninari con le lattine allineate dietro al vetro: Coca, Fanta, Sprite, Pepsi e Seven-Up. Il fumo che si alzava dalle griglie sotto al baldacchino del cibo si confondeva con quello dei petardi lanciati da un gruppo di ragazzini troppo piccoli per giocare con gli accendini, mentre i cuochi stressati gli urlavano di andare a far casino altrove. La musica cafona del tagadà, le trombe degli autoscontri, bambini che piangevano perché avevano finito i gettoni, altri che strepitavano per un gelato.
Teo mi stringeva la mano e guardava tutto con interesse: l’unica fiera che conosceva era quella a Forte dei Marmi. Lì il massimo dell’avventura era prendere un cigno di plastica con un calappio. Il premio, invariabilmente, era uno sfortunato pesce rosso in un sacchetto che di rado sopravviveva fino al viaggio di ritorno. Raggiungemmo il tiro a segno, ce n’erano due tipi diversi. In uno, con una palla grossa come un pompelmo, si dovevano far franare piramidi di lattine, l’altro invece aveva confezioni di succhi di frutta accartocciate e ancora lattine, in fila su degli scaffali di legno lunghi e strettissimi, che bisognava centrare con i fucili ad aria compressa. Scegliemmo il secondo in base ai premi che offriva: puntavamo a un peluche di Snoopy formato gigante. Io non avevo tante speranze, mi mancavano sia la mira che la voglia di vincere, presi una lattina su dieci tentativi. Claudio, nonostante fosse agguerrito, non andò molto meglio, quattro. Teodora, con grande stupore di tutti gli astanti, ne centrò nove.
La giostraia su incitazione degli altri clienti, uomini del paese con cui aveva un’evidente confidenza, regalò un altro giro a Teo che tentava di rimanere composta e non gongolare. Lo sguardo tagliente e gli occhi che controllavano le reazioni degli altri, il sorriso che cercava di scappare dagli angoli della bocca, la schiena leggermente curva e il fucile ancora imbracciato, la facevano sembrare un sicario in miniatura. A seguito dei solleciti che esplodevano in risate roche provenienti dagli uomini che ci si erano radunati intorno, Teodora sollevò il fucile e strizzò l’occhio per prendere la mira, mosse un po’ la canna in alto e in basso come se lo avesse fatto già milioni di volte, guardò nel mirino con l’altro occhio, giusto per sicurezza, sistemò meglio i piedi, rimase immobile alcuni secondi, poi tese le labbra in una smorfia di concentrazione e tirò il grilletto. Centro. Da lì in avanti fece di volta in volta un breve passo laterale, puntò, sparò e centrò per i successivi nove tentativi, mentre il pubblico applaudiva e commentava ad alta voce. Guardai Claudio che aveva sul volto un’espressione stupita e orgogliosa. Guardai la giostraia che sembrava quella che si divertiva di più. Guardai un uomo con la pancia grossa e tesa che si asciugava le mani sudate sulla camicia all’altezza del petto e poi tirava gomitate all’amico di fianco. C’era un gran sghignazzare intorno, anche quando Teo abbracciò Snoopy ostentando innocenza, come se quella che aveva buttato giù tutti i bersagli fosse stata un’altra bambina.
Mentre ci allontanavamo ci raggiunse di nuovo la voce del presentatore che invitava ad avvicinarsi al palco per assistere all’estrazione. Claudio, con un paio di finti colpi di tosse, attirò la nostra attenzione e sventolò i cartoncini rosa della lotteria come una dama timida dietro a un ventaglio cinese. Teodora saltò per l’entusiasmo e con voce squillante lo ringraziò, gli si aggrappò al braccio e insieme si lanciarono nella folla. Trovammo posto alla destra del palco, intorno a noi lo spiazzo era colmo di gente, chi a braccia conserte, chi con i figli in spalla, aspettavano tutti le parole del presentatore, bigliettino rosa alla mano. Una ragazza giovane, con i capelli neri lisci e lunghissimi raccolti in una coda alta, estraeva dei foglietti ripiegati in quattro e con meticolosità li apriva prima di passarli, sorridendo, al presentatore. Lui ringraziava, guardava il pubblico con un’espressione ammiccante, leggeva e poi attaccava con qualche aneddoto relativo al premio in palio. Parlava e parlava, inventando storie che avevano come protagonisti una volta il trapano Bosch, una volta un set di asciugamani in puro cotone, un’altra un viaggio per due a Spoleto. Ciarlava finché il pubblico non cominciava a spazientirsi, finché non partivano i fischi e le intimazioni. Allora, e solo allora, il presentatore annunciava la combinazione di numeri fortunati. In quel momento, mentre tutti erano intenti a controllare sui propri pezzetti di carta, per alcuni secondi calava il silenzio, poi cominciava il chiacchiericcio, il borbottio, il torcersi di colli e di schiene per vedere se qualcuno alzava un braccio vittorioso. Finché non si sentiva «io! io!», e si scorgeva qualcuno che esultante sbandierava il talloncino rosa. Claudio e Teodora erano concentratissimi, stavano entrambi ingobbiti con i talloncini dispiegati tra le mani come fossero carte da gioco, e controllavano febbrili se i numeri annunciati combaciavano con i loro, poi si guardavano speranzosi prima di stirare le labbra in segno di diniego e riabbassare la testa sui biglietti.
Osservandoli pensai a quanto si divertivano durante i viaggi in autostrada a scommettere su tutto: quanti camion avrebbero incontrato fino al prossimo autogrill, se il casellante sarebbe stato uomo o donna, nei pressi di quale città mi sarei addormentata. Qualsiasi argomento era valido, purché ci fosse qualcosa da vincere, fosse stata anche solo la gloria.
La lotteria stava per finire, quindi pensai che era meglio dileguarsi prima che si spostasse tutta la massa. Mi offrii di andare a mettere il peluche in macchina per non doverlo portare in giro tutta la sera, tanto sapevo che presto o tardi l’avrebbero rifilato a me. Dissi a Claudio di vederci davanti allo stand delle bibite alla spina e mi incamminai verso il parcheggio. Le scarpe affondavano leggermente nel terriccio e l’umidità saliva dalla terra raffreddandomi i piedi e le caviglie. Trovai lunotto e parabrezza coperti di rugiada, abbandonai Snoopy sul sedile posteriore e tornai indietro, al luogo dell’appuntamento. Aspettai dieci minuti, un quarto d’ora, ma non arrivò nessuno. Cercai di telefonare a Claudio, ma il mio cellulare non aveva campo. Andai verso i gelati. Niente. Passai davanti alla casa stregata, il vascello volante e il brucomela. Lì incontrai Claudio, solo.
«Teo?» gli chiesi, ancora calma.
Mi fissava inebetito e tardava a darmi una risposta. «Dov’è Teo?» domandai di nuovo. Claudio si strinse nelle spalle e poi, in un sussurro che riuscii a udire solo perché sapevo già cosa stava per dirmi, ammise che l’aveva persa.
«Come persa?» dissi sperando che fosse uno dei suoi scherzi, ma Claudio mi fissò smarrito e non disse niente.
Mi guardai intorno con movimenti rapidi mentre pensavo a una strategia, serrai la mascella e tornai sui miei passi. Slanciando le gambe in avanti a gran velocità, raggiunsi il parcheggio per vedere se Teo ci stesse aspettando lì vicino all’auto, sentivo Claudio e il suo senso di colpa venirmi dietro. Corremmo al camioncino dei dolciumi, facendoci largo tra la gente che camminava strisciando i piedi, mangiando zucchero filato e occhieggiando estasiata i neon intermittenti. Quando neanche lì la trovammo, snocciolai d’un fiato tutti i posti in cui ero già stata. Claudio stava immobile a fissarmi, avrei voluto cavargli gli occhi. Poi tornò presente e disse: «Al tiro a segno». Sembrava la scena di un thriller scadente, ma io ormai ero preda di una smisurata angoscia. Arrivammo ansimanti e stravolti al furgone della donna. Chiedemmo alla giostraia se avesse visto nostra figlia e quella scosse la testa senza mostrarsi però preoccupata. Mi veniva da piangere, di rabbia e di panico. Claudio mi mise una mano pesante sulla spalla, stavo per scacciargliela via in malo modo, stavo per insultarlo.
Mi voltai e vidi che chi mi toccava non era mio marito, ma un signore con gli occhiali rettangolari e i capelli brizzolati. Disse qualcosa, ma non riuscii a capirlo, tese il braccio indicando un punto alla mia sinistra. Mi voltai e vidi una Volkswagen caddy pick-up color ciliegia con i fari accesi e dei fanali tondi montati sul portapacchi. Ero confusa, pensai al peggio per un istante, poi tornai a rivolgere lo sguardo verso l’uomo che annuì con la testa come a convincermi e tese di nuovo il braccio nella stessa direzione. Claudio mi prese per mano e mi trascinò dove ci era stato indicato, ci lasciammo il pick-up di lato e continuammo a camminare. Lì, seduti ai piedi di una giostra per autoscontri spenta, c’era Teodora con due ragazzini alti e magri che si somigliavano.
Tiravano i gusci dei pistacchi dentro a un cerchio scavato nel terreno molle. Quando ci avvicinammo, trafelati e con le facce scomposte, Teodora alzò gli occhi su di noi e il suo volto da sereno si incupì, imitando il nostro. Ci guardava senza capire, con voce stridula le chiesi se si divertiva. Titubante rispose di sì, «non trovavo più papà, poi ho incontrato loro» disse come per giustificarsi, «vivono al piano di sopra» aggiunse guardando prima i ragazzini poi noi. Abbozzai un sorriso verso i bambini per smorzare la tensione, e verso Teo per rassicurarla. «Ci siamo presi un bello spavento» ammisi poi con un tono che voleva essere leggero. Guardai Claudio, ancora bianco e imbambolato. Arrivò l’uomo che finalmente riconobbi come il vicino del primo piano, ci chiese se l’avessimo trovata prima di posare lo sguardo sulla bambina e dire: «Eccallà, la fuggitiva». Indicò poi un tavolo di plastica poco lontano a cui stavano seduti sua moglie e altri del condominio. «Venite a bervi una cosa con noi» disse.
Quando li raggiungemmo le donne stavano parlando della prima volta che avevano perso di vista i figli, chi al mare, chi al supermercato, chi addirittura si era dimenticata di andarli a prendere a scuola. «Capita a tutti,» rassicurava bonaria la mamma dei due ragazzi. «Certo in mezzo alle giostre è brutto, sta pieno di zingari, ma per fortuna ci conosciamo tutti qua» disse la signora del primo piano dandomi un colpetto sulla mano come a comunicarmi che ero già considerata parte del clan. Ci presentammo tutti con nomi e relativo piano, più che altro per noi che facevamo ancora fatica a memorizzare, poi versarono due bicchieri di vino, uno per me e uno per Claudio, e ci chiesero da dove, di preciso, venivamo.
Mentre loro parlavano io mi voltai a guardare Teo. Con la lingua che le usciva da un lato della bocca in una smorfia di concentrazione, dondolò il braccio prima di lasciar andare il guscio, centrò il cerchio e sorrise. Tra le labbra spuntarono gli incisivi leggermente separati, quello destro con l’angolo scheggiato che si era rotta giocando con il cugino più grande. Dopo il secondo bicchiere di vino dissi che avevo freddo e volevo tornare. Claudio propose una passeggiata, tanto casa non era lontana e muovendomi mi sarei riscaldata. Raggiungemmo la bambina che gesticolò per farsi issare sulle spalle del padre. Le chiesi se non voleva andare a prendere Snoopy. Mi guardò dall’alto della sua nuova posizione mentre mi stringevo nel cappotto e infilavo le mani sotto le ascelle. «È uguale» disse.
© 66thand2nd
Il libro “Bravissima”, di Paola Moretti, è edito da 66thand2nd e può essere acquistato qui.
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