Iniziò tutto così. Con una mela.
La vita e la morte, le idee del bene e del male, il nostro sapere, quindi le nostre miserie, l’ambizione, l’abnegazione, la passione e il godere carnale, il decadimento fisico e quello mentale.
In verità, che il frutto proibito raccolto da Eva fosse una mela, è una tradizione occidentale. La Genesi riporta solo che “al centro del giardino irrigato dai quattro fiumi Fison, Gihon, Tigri ed Eufrate troneggiano l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male.” Ma quale frutto dia l’albero della conoscenza, non viene mai menzionato. Ad esempio, nella tradizione ebraica, a seconda dell’interpretazione, si parla dl fico, cedro, grano o uva.
Quindi perché invece nel nostro immaginario vediamo una mela nella mano di Eva?
I responsabili furono gli esegeti medievali, i quali, leggendo la Genesi con un approccio allegorico, sovrapposero i termini “male” e “melo”, in latino entrambi traducibili con “malum”.
Questo simbolismo ambivalente della mela, da un lato fertilità, dall’altro perdizione, da un lato salute, dall’altro decadimento, faceva già quindi parte del patrimonio culturale del mondo occidentale. La stessa morfologia della mela si presta a tale simbolismo: frutto succoso, dalla forma armoniosa come quella del corpo femminile, che incoraggia la presa quando, maturo, curva il ramo dell’albero con il suo peso. Da una parte caldo e dal colore vivido dove viene baciato dal sole, dall’altra freddo, pallido e ombroso dove si rivolge al tronco dell’albero.
I pittori medievali e rinascimentali sfruttarono appieno questo potere iconico: tantissimi sono i dipinti del peccato originale, dove il frutto ricopre il suo ruolo tentatore. Ad esempio quelli di Jacopo Negretti, di Lucas Cranach, di Peter Rubens, di Tiziano, di Tintoretto, di Hendrick Goltzius e di William Blake, solo per citarne alcuni. Dall’altro lato della simbologia, è Gesù bambino a tenere in mano la mela, una rappresentazione della sua missione futura come redentore che espia i peccati dell’umanità. Il frutto qui diventa salvezza e ne sono esempi la Madonna Trivulzio e la Madonna Greca di Giovanni Bellini. A volte, come sostituto del frutto, il bambino tiene il globus cruciger, la “Mela imperiale”, un simbolo di potere.
C’è un altro motivo per cui fu così facile creare tutta questa allegoria, e viene dal patrimonio lasciato dalla Grecia antica.
Nelle Nuvole, Aristofane descrive come al suo tempo lanciare una mela equivalesse ad una dichiarazione d’amore o ad un invito per un convegno amoroso. E che dire di Platone, che nel Simposio – nella sua visione androgina dell’umanità che a dovere andrebbe riletta oggi – paragona gli esseri umani a delle mele a metà, destinate a girovagare il mondo per trovare la propria parte mancante? A voler essere precisi, Platone accenna solo fugacemente al frutto, è una metafora effimera, ma basta perché essa forgi il nostro linguaggio romantico per sempre.
La mitologia greca, poi, è una giocoliera con le mele, le fa rimbalzare da una leggenda all’altra, rendendole iniziatrici prima di disgrazie, poi di lieti eventi.
Forse il mito del giardino delle Esperidi lo conoscete già: su di un’isola idilliaca ai confini della terra, dove il giorno e la notte s’incontrano, vi è un giardino dove le Esperidi dall’amabile canto custodiscono, assieme ad un drago che mai dorme, un albero di mele d’oro che donano l’immortalità. Suona un po’famigliare, vero? Le mele di quell’albero diventano le protagoniste dell’undicesima fatica di Eracle, che ingannò Atlante costringendolo a tenere il cielo sulle proprie spalle, e scatenano la disputa sulla più bella fra le dee, che finì in guerra, la Guerra di Troia. La mela entra così di nuovo nel nostro vocabolario con il modo di dire “Il pomo della discordia”, per riferirci ad un oggetto che crea scontro e dissenso.
Eccola di nuovo l’ambiguità della mela, che conferisce vita eterna, regala l’amore, ma allo stesso tempo mette in guardia da quei doni liberando un potere distruttivo, un karma violento, che presenta il prezzo del troppo volere.
Queste due facce della mela io le conosco bene.
Sono cresciuta in Val di Non, in Trentino, dove i meleti si estendono in ogni direzione. Per tutto il campo visivo i meleti rosicchiano ogni spazio, si insediano nei boschi, si arrampicano sui pendii, arrivano sulle sponde dei laghi, quasi ti bussano alla porta con quei rami lunghi, butterati, invadenti.
Sono nata in ottobre, nel periodo della raccolta, quando mia madre era sola in casa e il resto della famiglia era nei campi. Sotto ai meli ho dato il primo bacio da bambina, ho fumato la mia prima sigaretta, ho perso la verginità in una notte di agosto stesa su una coperta. Sopra ai meli ho costruito casette di rametti e di paglia, mi sono arrampicata per leggere, per mettere la faccia al sole. Fra i meli ho corso un migliaio di volte fino a perdere il fiato, ho camminato quando ero triste, ho confidato da adolescente alle amiche segreti che mi parevano sconcertanti, sono andata a piangere quando mia madre era a letto e stava esalando al mondo i suoi ultimi respiri.
Chi vive in Val di Non ha l’esistenza legata alle mele da un doppio canale, uno che nutre perché l’agricoltura è l’oro dell’economia, la prima risorsa che sfama e dà lavoro, l’altro che strozza come un cordone ombelicale annodato, perché oltre alle mele sembra non ci possa essere vita: i discorsi ruotano incessantemente attorno ad esse, i soldi che l’agricoltura porta fanno gli uomini chiusi ed avari, i pesticidi penetrano nel suolo, nelle falde e nelle acque avvelenando ciò che prospera e respira.
Ma facciamo un po’di ordine. È il momento di partire, un’altra volta, dal principio.
La coltivazione della mela ha una lunga storia in Val di Non, su per giù inizia nella seconda parte del 1800. Allora la valle è una terra disperata che manda via i suoi figli, l’emigrazione è parzialmente dovuta al fallimento della coltivazione del gelso e della vite, divorati dai parassiti. Si tenta così la via della mela.
In fondo, la mela è entrata nell’immaginario universale così facilmente anche perché è un frutto pazzo, che si adatta e cresce senza difficoltà negli ambienti più diversi. Le mele sono in balia della loro genialità creativa, una caratteristica nota ai botanici come estrema eterozigosi. Essa assicura che una mela cresciuta dal seme non assomigli geneticamente ai suoi genitori, un ottimo asset evolutivo, perché produce migliaia di diverse varietà di specie, le quali si adattano ad ogni ambiente, dal Trentino alla Nuova Zelanda, e assumono ogni colore, forma, gusto e dimensione.
Per i coltivatori questa caratteristica però è più un fastidio che un talento: come fare ad essere certi che la pianta che nascerà dal seme sia resistente e che i suoi frutti siano commestibili? La soluzione al problema, sia per i contadini della Val di Non che per quelli del resto del mondo, arrivò con la tecnica dell’innesto, l’unica che garantisce la riproducibilità del frutto: in un ramo della pianta madre viene innestata una parte di un’altra pianta simile o affine, in questo modo si ottenere una varietà più resistente a parassiti e malattie e con frutti migliori. L’innesto è una pratica di moltiplicazione delle piante del tipo agamico, cioè consente di clonare la pianta madre.
Ci pensate? Tutte le mele che vedete al supermercato appartenenti ad una varietà derivano da innesti ed innesti ed innesti di un unico albero madre.
Prendiamo, ad esempio, la mela per eccellenza della Val di Non: la Golden Delicious, del cui albero madre sappiamo tutto.
Siamo in Virginia, nella fattoria dei Mullins, è il 1891. Il più piccolo dei figli, allora quindicenne, una mattina viene mandato a falciare i campi e lì si accorge di un piccolo melo, alto circa un metro. È una pianta strana, i meleti là intorno sono rari e il giovane Mullins decide di lasciarla crescere.
La fattoria passa poi di proprietà allo zio Anderson, a questo punto è il 1913 e l’albero è diventato maturo e rigoglioso. Anderson e il cognato sono incuriositi dal frutto e ne mandano tre esemplari agli Stark Brothers, grandi imprenditori nel ramo agro alimentare, la cui azienda è tutt’oggi un colosso nel settore. Avete presente le mele Stark?
Secondo la storia, Paul Stark è talmente entusiasta della mela che si mette subito a cavallo e percorre più di 30 km per acquistare la pianta. La cifra di 5 mila dollari che offre ai Mullins è esorbitante al tempo.
Stark inizia subito a commerciare quella che egli stesso rinomina Stark Golden Delicious per il suo colore dorato e il suo sapore dolce e succoso. La Golden diventa il perno di un’industria milionaria, motivo per cui la pianta madre ha un valore incalcolabile per Stark: nessuno può prenderne i rami e praticare degli innesti.
Così, per più di un secolo la preziosa pianta vivrà protetta in una gabbia di metallo, con Mullins a farle da guardia e un allarme elettrico che avrebbe mandato un segnale in caso di effrazione. Un sistema altamente tecnologico per l’epoca. Stark tenta anche di assicurare l’albero per 50.000 dollari, ma le grandi compagnie assicurative di Chicago e St. Louis rifiutano.
La pianta madre morirà il 6 di novembre del 1958, già vecchia e malconcia, a seguito di un forte temporale. Ma noi, come fosse una persona, ora ne sappiamo la storia intera.
La mela Golden diventa, nella seconda metà del 900, la varietà più coltivata sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. In Val di non questo è possibile soprattutto perché i sistemi di coltivazione cambiano: da un’agricoltura di sostentamento familiare si passa alla monocoltura intensiva, che prevede la coltivazione di una sola specie vegetale al fine di assicurare una produzione costante e standardizzata.
Oggi, la produzione annuale di mele in Trentino è compresa tra i 4 e i 4,5 milioni di quintali all’anno – i 2/3 della produzione nazionale – che vengono esportati sui maggiori mercati internazionali. Oltre 9.500 sono gli ettari del territorio provinciale coltivati a meleto, di questi, 7.000 circa sono in Valle di Non. La maggior parte dei contadini è riunita in organizzazioni di produttori e fanno riferimento ad un grande consorzio che svolge funzioni di coordinamento, vendita e marketing: Melinda.
La Melinda è un colosso, è un consorzio con caratteristiche simili, alla fin fine, a quelle di una multinazionale; gestisce ben il 98% della produzione stabilendo i protocolli, le varietà ammesse, i veleni da utilizzare. Le piccole aziende autonome ai margini restano così escluse, perché non riescono a tenere il passo, oppure non vogliono omologarsi alle regole stabilite dall’alto.
La Melinda dalle mie parti è anche un’istituzione intoccabile perché porta soldi, tanti soldi. Inoltre, parlarne conduce sempre ad un paradosso: se lo fai male sei un complottista, vieni accusato di non capire bene come funziona; se lo fai bene, sei cieco, davvero non vedi il lato malvagio della storia?
In poco più di un secolo in Val di Non sono mutati il territorio, i mestieri, la comunità. Il paesaggio agrario non ha nulla di esclusivamente naturale, è antropico, completamente costruito, trasformato dall’attività dell’uomo. Frutticoltura intensiva, meleti, pali di cemento, magazzini e capannoni per la raccolta e lo stoccaggio della frutta, teli antigrandine, acquedotti caratterizzano il panorama e lo rendono piatto, monotono. Segno di una pratica che, invece di sostenere la valle e di amalgamarsi ai suoi tratti naturali, la tiranneggia.
Monocoltura intensiva significa anche qualcos’altro: massiccio uso di fitofarmaci. I fitofarmaci fanno parte della categoria dei pesticidi, sono prodotti di sintesi o naturali che vengono usati per combattere le malattie delle piante. Essi si sono imposti negli anni come parte insostituibile dell’agricoltura in seguito alla sua standardizzazione. L’uso di pesticidi, infatti, garantisce una elevata resa produttiva e una buona qualità commerciale, i prodotti si presentano omogenei, “più belli”, ergo meglio pubblicizzabili, poiché non presentano i segni tipici e naturali degli attacchi parassitari.
Siamo tutti un po’ Biancaneve in Val di Non, ci viene offerta questa mela grossa, lucida e polposa, pubblicizzata come un toccasana, ma invece, in qualche misura, ci ritroviamo con l’organismo avvelenato.
Da bambina, quando andavo a giocare all’aperto, mia madre spesso mi urlava, prima uscissi dalla porta: ‘Speta valà, che adès i è dré a dar el verén! – che in italiano più o meno vuol dire: Aspetta, che adesso stanno spargendo il veleno! Ricordo le biciclettate in queste nuvole tossiche, nelle quali tentavo di trattenere il respiro fino a quando riemergevo. Apparteneva alla normalità delle cose vivere in un paese dove i contadini girano con gli atomizzatori accesi a due passi delle case. Perché, indipendentemente da ciò che le norme a riguardo dicono, è impossibile rispettare sempre le distanze di sicurezza dalle scuole e dai centri abitati ed evitare la deriva, ovvero lo spargimento delle sostanze al di fuori dell’ambito in cui devono agire.
Gli stessi contadini lo ammettono, sottovoce.
Ho fatto fatica a trovare dati attuali che confermino o smentiscano la pericolosità per l’uomo dell’uso che si fa in Val di Non dei fitofarmaci. Dimostrare che l’esposizione a un determinato pesticida è la causa di una malattia presenta varie difficoltà, anzitutto perché non esistono fasce di popolazione totalmente non esposte ad essi e in secondo luogo perché la maggior parte delle malattie non è causata da un singolo fattore, ma da una molteplicità di fattori che rendono molto complessa l’analisi.
Da noi l’incidenza di tumori è elevata. Diversi miei coetanei si sono ammalati di cancro, due anni fa un ragazzo di 26 anni è morto per un tumore cerebrale, se n’è andato lieve, nella notte, e così come a lui è successo ad altri, con altri tipi di malattie. Quello che è sempre passato nelle nostre teste, che ci siamo sempre detti l’un l’altro è: L’è colpa del verèn! – in italiano: è colpa del veleno! Il padre del ragazzo deceduto, Simone si chiamava, ha scritto una lettera ad un quotidiano locale l’anno scorso, i commenti che la comunità ha lasciato su Facebook danno un’idea di quale sia il sentimento che prevale:
Ma è davvero così?
È facile trarre semplici conseguenze quando si vuole dare una ragione al male, l’importante è dargli senso in qualche modo, afferrare la prima spiegazione plausibile che salta agli occhi e stiparla in una risposta, cosicché quel male diventi più piccolo, forse causi meno dolore.
Una grande mano nella ricerca di informazioni me l’ha data Andrea Tomasi, regista trentino che un paio di anni fa ha autoprodotto un documentario di denuncia intitolato Pesticidi, siamo alla frutta. Lo scenario che emerge dal documentario e dai dati che successivamente sono riuscita a raccogliere è interessante.
Ad esempio, sapete cos’è l’effetto cocktail dei fitofarmaci?
Ad oggi, le norme di legge regolamentano l’uso dei singoli pesticidi, ma purtroppo assistiamo ad un grande vuoto normativo e conoscitivo se prendiamo in considerazione il loro mix. In generale siamo tutti esposti a un cocktail di pesticidi attraverso il cibo che consumiamo ogni giorno. Nelle aree agricole, dove queste sostanze chimiche circolano nell’aria quando sono irrorate sui coltivi, esse inquinano il terreno e le acque circostanti. È l’effetto deriva, di cui abbiamo già parlato.
Secondo il Rapporto nazionale pesticidi nelle acque, edizione 2018, rilasciato dall’istituto Ispra, in Trentino sono stati rilevati 9,3 chilogrammi di pesticidi per ettaro di superficie agricola utilizzata, quasi il doppio della media nazionale, pari a 4,9 chilogrammi a ettaro.
In Val di Non alcuni test hanno dimostrato la presenza di fitofarmaci in un campione di donne in gravidanza, aspetto particolarmente preoccupante data la nocività delle sostanze per il feto in via di sviluppo: secondo uno studio del WWF del 2015, gli effetti sulla salute registrati nei bambini esposti ad alti livelli di pesticidi durante la gestazione includono ritardi dello sviluppo cognitivo, problemi comportamentali e difetti alla nascita.
Persino nelle feci degli orsi e nella cera delle api si possono rinvenire pesticidi, a testimoniare la capillarità della loro diffusione nel territorio trentino.
L’anno scorso l’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) ha finalmente messo a punto un metodo per valutare l’effetto cocktail. Secondo le conclusioni preliminari, il rischio per i consumatori dall’esposizione a residui di più pesticidi per via alimentare è inferiore ai limiti di sicurezza che farebbero scattare la revisione delle norme UE. Si tratta comunque di un parere non definitivo, perché basato su due valutazioni pilota, una sugli effetti cronici sul sistema tiroideo e l’altra gli effetti acuti sul sistema nervoso. Inoltre qui stiamo parlando di consumatori, non di soggetti esposti cronicamente ad alti livelli di residui. Efsa prevede di continuare il lavoro con analisi sugli effetti su sistema riproduttivo, fegato, occhio e surrene. La questione è quindi lontana dall’essere chiusa.
Un altro allarme è stato lanciato recentemente da dall’Ail (Associazione Italiana contro le Leucemie) del Trentino Alto Adige, che negli ultimi 15 anni ha condotto una ricerca sull’incidenza dei casi di leucemia in regione. Secondo i dati raccolti, in Val di Non l’incidenza sarebbe significativamente superiore alla media. Il presidente dell’Ail Roberto Valcanover in un’intervista afferma che si tratta di “…dati certi del reparto di ematologia dell’ospedale di Bolzano, sui trentini trapiantati che hanno eseguito le cure nell’ospedale di Bolzano”.
In realtà, oggi la situazione è molto migliorata rispetto ad una decina di anni fa. Melinda sostiene un’agricoltura integrata, che significa eliminare i fitofarmaci più dannosi per l’uomo e l’ambiente, secondo i dettami dell’UE. Sono stati fatti inoltre sforzi in direzione del biologico, che nei prossimi anni dovrebbe raggiungere il 10% della produzione.
È sufficiente? Molti – associazioni dei consumatori, comitati per la salute, associazioni ambientali – sostengono che si tratti di svolte solo apparenti, in fondo il 10% non pare un obiettivo così ambizioso e gli studi riguardo la dannosità dei fitofarmaci rimangono troppo pochi, trascurati, accantonati come di secondaria importanza. Sembra che, da qualunque parte la si veda, la preoccupazione rimanga il mercato, non il cittadino.
Per quel che mi riguarda, la pena più grande la sento quando guardo questo territorio esausto, esasperato dal continuo sfruttamento, che a malapena ricorda com’era quando la monotonia di un’agricoltura intensiva non l’aveva abbrutito.
Ci sono così tante altre cose che potrei dire ancora riguardo alle mele e alla mia valle. Potrei cercare di spiegare, ad esempio, il periodo della raccolta, quando una mattina ci si raduna, è l’alba, e per due o tre mesi non si lascia il prato se non per dormire. Allora il frutto, il ramo, la foglia, diventano un’appendice del tuo essere, e tu ti fai tutt’uno con i ritmi del sole e impari a resistere agli agenti atmosferici come fossi una pianta. Quanto li odi quei mesi, fatti di ripetizioni che si ripetono e di minuti che non passano mai, ma alla fine hai i muscoli indolenziti e la faccia rossa dal sole o dal freddo, e non puoi fare a meno di pensare che c’è qualcosa di estremamente giusto in tutto questo.
Potrei parlare dei diversi tipi di mele che si coltivano, dell’odore diverso che emanano, del crunch specifico che fanno quando le fai schioccare sotto ai denti. Potrei dire di come le donne sono sapienti nell’usarle in cucina, di come nello strudel e nella torta ci vada la Renetta e di quel detto che recita: gli uomini in Val di Non piangono due volte all’anno, la prima a primavera, quando ghiaccia e sembra che il raccolto sia compromesso; la seconda in autunno, quando invece si accorgono che le piante sono troppo cariche di mele.
Ma è difficile dire e capire tutto questo. Quando si parla di uomo e di territorio si parla di una relazione intima, a tratti incomprensibile, istintiva e affettiva; uomo e territorio non andrebbero nemmeno mai intesi separatamente, poiché noi dipendiamo dalla terra e dai suoi frutti, siamo fatti della loro stessa essenza.
Così non posso far a meno di pensare a mio padre, che oggi è anziano e ha passato tutta la vita in mezzo ai campi. Quando torno a casa, quasi sempre ad un certo punto butta in una conversazione: Ma, e a Berlino gin’hai pomi?*
*Ma, e a Berlino ne hanno mele?
Segui Margherita Seppi su Yanez | Facebook
Foto di copertina: © Francesca Padovan
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin