Ho la tosse. Non è il massimo, andare al cinema con la tosse, soprattutto se ad ogni colpo le persone attorno a te, nel buio della sala, ti guardano terrorizzate, convinte che tu le stia contagiando con il terribile coronavirus. Ebbene, io ho la tosse, ma non ho il coronavirus. Però ho la tosse. Cosa dovrei fare? Smetterla di andare al cinema? Che poi, siamo chiari: non è che mi metto a tossire dall’inizio alla fine del film, al massimo emetto una cinquina di suoni in due ore. Ma il panico serpeggia, anche fra gli spettatori della settantesima edizione della Berlinale (le cui locandine, a mio parere, sono brutte).
Io vorrei spiegarglielo, uno per uno, che no, il coronavirus non mi vuole, perché io sono siciliano e lui, Covid-19, dice che da noi non c’è lavoro, e poi si spaventa della mafia: non viene.
Ma non ne ho il tempo, sta cominciando il film.
Pinocchio, di Matteo Garrone – Berlinale Special Gala
Proiezione della domenica mattina, ore 9. L’enorme Berlinale Palast sonnecchia, svuotato, di giornalisti incerti. Il film non mi convince. Mi sembra un esercizio tecnico bellissimo, ma vuoto. Perché rifare Pinocchio, e rifarlo in questo modo? Non ci si emoziona, l’azione scorre sullo schermo, eppure pare non succeda niente di davvero rilevante. Qualcosa, comunque, resta. La donna lumaca, ad esempio, che quando si muove sbava il pavimento, e poi si scusa timida. Proietti nel ruolo di Mangiafuoco, forse il più dentro le righe del cast, pochi minuti, ma che restano bene impressi.
Gli attori, gli altri, sembra che recitino osservandosi, orgogliosi di far parte di un prodotto cinematografico italiano pensato per l’esportazione, e girato dal più esportabile, insieme a Sorrentino, dei registi nazionali. Garrone compie una lezione di bellezza. Ma la bellezza, a volte, è vuota.
Chico ventana también quisiera tener un submarino, di Alex Piperno – Forum
Una casupola di cemento armato nel mezzo delle campagne filippine. Assi di legno ne bloccano la porta e una piccola finestra. Ogni tanto la struttura vibra, come se dentro qualcuno sbattesse la testa sulla parete. Gli abitanti del luogo la sorvegliano, preoccupati, ma non osano entrarci. Si spegne la luce e un ragazzo in tuta da lavoro sgattaiola in un appartamento, da una porta segreta. Osserva una donna dormire, poi torna indietro, e lo ritroviamo su una nave da crociera. Adesso si parla in uno spagnolo latino-americano: siamo un po’ a Montevideo, e un poco in mezzo al mare. Un film morbido, lo guardi con calma e rifletti sulle distanze costruite dagli essere umani, su quanto è importante guardarsi con curiosità, per capirsi. E poi, soprattutto, sulla necessità di ricordarsi sempre il “prima”, di ciò accade, quando si è nel “dopo”.
El tango del viudo y su espejo deformante, di Raul Ruiz e Valeria Sarmiento – Forum
Probabilmente è una grande opera d’arte, ma io sono di grana grossissima e non me ne sono reso conto.
Succede che per 32 minuti vediamo un film in bianco e nero, ambientato nella Santiago del Cile di inizio anni ’70; un film interessante. Racconta la storia di un uomo, il professor Iriarte, che vive una crisi umana, una confusione emotiva, dopo la morte della moglie. Riempie delle bottiglie con un liquido che non si capisce bene cosa sia. Vede piedi che escono da sotto il letto e parrucche muoversi sul pavimento di casa. Poi, dal minuto 33, la pellicola comincia a tornare indietro, e rivediamo tutto, ma a ritroso. Anche le parole sono al contrario. Non succede nient’altro, solo le azioni già viste, ma in sequenza invertita. Probabilmente è un grande colpo di genio, ma io non lo capisco.
Undine, di Christian Petzold – Competizione
Undine, nel mito, è la figlia del Re del Mare, alla ricerca di un’anima umana. Nel film di Petzold la ritroviamo una Berlino che è quasi uno scenario da fumetto, a lavorare in un museo nel quale racconta con dovizia di particolari le peripezie architettoniche di una città in perenne ricostruzione. E’ bella, Undine, bellissima, ma di una bellezza distratta. Un giorno il suo fidanzato la lascia. Lei, secondo la leggenda, dovrebbe ucciderlo e tornare al mare. Ma ecco che arriva Christoph, e per un attimo tutto sembra perfetto.
Nel film ritornano gli avvenimenti inattesi che rovesciano il corso delle cose, tipici del cinema di Petzold. E poi una coppia di attori impetuosa, Paula Beer che riempie lo schermo ad ogni singola inquadratura: vale la pena, anche solo per lei, andare al cinema e guardarlo, questo film. Che non è perfetto, che nel suo tentativo di mischiare mito e iperrealismo a volte scivola, ma che è sincero, dal primo all’ultimo minuto. E non è poco.
El profugo, di Natalia Meta – Competizione
In questo film ci sono Almodovar, Polanski, i B-movies giapponesi, il Berberian Sound Studio di Peter Strickland, e un po’ di sano cliché argentino. Erica Rivas, la protagonista, racconta la genesi di un incubo, che poi osserviamo svilupparsi e dentro il quale ci troviamo a combattere persino noi, semplici spettatori, nel tentativo di comprenderne le origini e la direzione. Il film è compatto, pulito, ritmico. Erica Rivas è splendida e bravissima. Gli attori di contorno, Cecilia Roth (altra almodovoriana doc) su tutti, fanno bene il loro sporco lavoro. Alla fine, però, sembra tutto fine a se stesso. Un film per fare un film. Una storia un po’ psicologica, un po’ horror, che manca di un finale all’altezza.
Io, ad ogni modo, l’ho guardato con piacere. Non vincerà la Berlinale, certo, ma è importante, a volte, riconciliarsi con l’essenza superficiale di una storia.
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