A questo concerto ci dovevo andare con la mia ragazza Dina.
Però Dina non c’è.
Sta a Stoccarda, per un colloquio che probabilmente non funzionerà.
Così ho un biglietto in più per la serata d’apertura del Musikfest Berlin, uno dei più importanti festival di musica classica d’Europa, che dal 31 agosto e sino al prossimo 18 settembre apre la nuova stagione musicale berlinese.
Ventisette eventi, quaranta compositori, venti orchestre, omaggiano quest’anno la figura di Claudio Monteverdi, uno dei padri dell’Opera lirica italiana, per molti una figura di riferimento assoluta per la transizione dal Rinascimento al Barocco di tutta la musica occidentale.
E io ho un biglietto in più per il concerto d’inaugurazione.
Non una notte qualsiasi. Daniel Barenboim, probabilmente il più grande direttore d’orchestra vivente, dirige la Staatskapelle Berlin, uno degli ensemble più antichi al mondo, fondato nel lontano 1570 dal principe Gioacchino II di Brandeburgo. Quest’orchestra, durante 450 anni, è stata diretta da Felix Mendelssohn Bartholdy, da Richard Strauss, da Herbert von Karajan, da Otmar Suitner.
Stasera suonano qui, di fronte a me, alla Berliner Philarmoniker, la sinfonia numero 8 di Anton Bruckner. Anche detta L’Apocalittica.
Chi dovrei portare con me, per una serata tanto speciale?
Un intenditore?
No, voglio ascoltare la musica, non i commenti tecnici di chi ne sa più di me.
Un intellettuale?
Peggio ancora, poi devo ascoltare comunque un sacco di parole, ma a caso.
Ce l’ho: chiedo a Lafferty. Sì, lui è perfetto, penso. Non ne capisce tanto, però è sveglio e colto.
Soprattutto non si prende troppo sul serio, che è sempre il rischio più grande per situazioni di questo genere.
Aspetto Lafferty di fronte all’entrata della Philarmoniker. Ovviamente è in ritardo. Ho già ritirato i biglietti al desk stampa e mentre attendo, paziente, aspiro rapide boccate dalla mia sigaretta elettronica. È un 31 agosto berlinese sormontato da un cielo grigio e tenue. C’è pure vento. Quando sto quasi per perdere le speranze intravedo Lafferty sbucare dal parcheggio. Ha litigato con il parcheggiatore turco, dice. Indossa una giacca scura di materiale sintetico, una t-shirt nera, dei jeans blue: sembra un fotografo newyorkese. Mi aveva promesso sarebbe arrivato con la maglia del suo calciatore preferito: un po’ci speravo. Io invece ho messo una camicia casual, ma elegante, blu, e dei pantaloni scuri.
Beviamo due birre alla velocità della luce, facciamo ancora due tiri tecnologici dal nostro boccaglio di ultima generazione e ci lanciamo verso i nostri posti.
Intorno a noi un pubblico sobrio, composto per buona parte da coppie eleganti sopra la sessantina, un po’ di hipster fintamente raffinati, qualche postadolescente figlio-nipote delle coppie eleganti appena sopra citate. E poi tanti uomini e tante donne di origine asiatica.
I nostri posti sono fantastici, abbiamo persino una piccola mensola su cui appoggiare i taccuini ed il programma della serata. Accanto due anziane signore, avranno 75, forse anche 80 anni, ci guardano con insistenza. Penso si siano innamorate di Lafferty, e questo è strano, non perché Lafferty non piaccia, anzi, ma perché io sono decisamente più bello e poi stasera ci scambiano tutti per una coppia gay. Probabilmente per le signore non fa differenza, ed è anche molto bello sia così.
L’orchestra prende posto, sale una tensione dolce dentro il teatro, un senso di attesa pastoso, che si dissoglie lento, tumido, mentre i musicisti suonano le ultime note di accordo, prima di iniziare.
Silenzio.
Si apre la porticina che sta alla destra del palco. Ne esce un signore compunto, vestito (ovviamente…) con un completo scuro. I pochi capelli bianchi gli arruffano la testa rotonda. Si scatena un applauso riguardoso in platea. Quel signore è Daniel Barenboim.
Inizia il concerto.
Bruckner ci mise 8 anni a scrivere questa sinfonia in quattro movimenti. La dedicò all’allora imperatore Francesco Giuseppe, ma all’inizio non ebbe grande fortuna. Venne considerata strana, complessa, troppo difficile: le due prime esecuzioni furono un disastro e Bruckner non visse abbastanza per assistere a una terza.
L’attacco è subito potente. Baremboim si muove con precisione, mentre avanza un tremolio degli archi che si ripete, includendo pian piano tutto il gruppo strumentale, sino all’estremo musicale dei tromboni, per un’imponenza che ci lascia, entrambi, a bocca aperta.
Poi si rallenta. Stavamo trattenendo il respiro, mentre adesso tutto scorre. Ma si capisce subito che siamo, un’altra volta, in mezzo a un’attesa. Baremboim aumenta il ritmo, ritornano i violini e una contrapposizione stolida di oboe e clarinetto ci riporta, di nuovo, alla potenza di tutta l’orchestra.
Finiamo piano, con calma, quasi in silenzio.
Lafferty adesso comincia a capire dove l’ho portato. Le signore accanto a noi invece si stanno quasi addormentando. Comincia il secondo movimento, sono già passati venti minuti. Stavolta restiamo meno coinvolti. Il tema gira su stesso, ma ci si risveglia tutti in fondo, quando un Barenboim, di colpo nuovamente vivace, riporta l’orchestra sui volumi alti del fortissimo finale.
Penso per un attimo ai momenti prima di entrare nel teatro. Passeggiamo per il foyer scrutando gli abiti finti degli altri spettatori. Lafferty mi fa notare che forse non era il caso di svuotare il contenuto della mia sigaretta nei lavandini eleganti del bagno elegante pieno di signori eleganti della Philarmonie. Però ormai è andata così. Ci sono degli specchi enormi nei bagni e un uomo che apre e chiude la porta a tutti quelli che passano. Accanto lui un piattino per le mance con delle caramelle. Noi non abbiamo monete, tiriamo dritto.
Rientriamo in sala. Le signore stanno sempre lì, inchiodate, imperterrite. Non perdono di vista Lafferty, che prima era quasi intimidito, mentre adesso, a tratti, temo quasi voglia cercare un contatto. Smetto di pensarci, in fondo non mi riguarda, e mi concentro sull’orchestra, che è già tornata al suo posto.
Si ricomincia da dove avevamo finito, con un terzo movimento duro, gli archi a punteggiare amari sopra il tocco delle arpe. È un’elaborazione gigantesca dei temi, che si attorciglia su se stessa e piano piano s’incanala in un enorme passaggio ascensoriale, lunghissimo e concluso da una liberatoria esplosione. Adesso sì, che siamo dentro la musica.
Il quarto ed ultimo movimento è forse quello in cui mi sento più avvolto dal momento. La sinfonia finalmente tira fuori la sua natura tecnica, diluita in raffinate acciaccature dei violini e in una chiusura durante cui si avverte, forte, un sentimento di combinazione di tutti e quattro i movimenti sin qui ascoltati. È un crescendo furioso, brutale, durante cui Barenboim non si risparmia, e che lascia sfinitamente sazia tutta la platea.
Si sveglia persino Lafferty, che aveva chiuso per un istante gli occhi. Forse era giubilo.
Per me stava dormendo.
REDAZIONE
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