Nel giugno 1518 un’insolita calamità si abbatté sulla città di Strasburgo. Fu causata da una donna che danzava febbrilmente in mezzo alla strada. Andò avanti per giorni, infettando altre persone. Nel giro di un mese, quattrocento individui ballavano frenetici insieme a lei. Articoli storici descrivono il fenomeno come qualcosa di simile ad un’isteria di massa o ad una possessione diabolica. Le persone contagiate sembravano essere in uno stato di semi incoscienza, non si accorgevano dei loro piedi sanguinanti, non sentivano stanchezza fisica, al punto che, alcuni di loro, morirono per la fatica. Mi domando che tipo di musica stessero sentendo.
Ho visto qualcosa di simile ad un’epidemia di danza anche io, in effetti, l’ho provata in prima persona.
Una dei miei primi ricordi di bambina risale a quando avevo cinque anni. Stavo pestando i piedi selvaggiamente sul tavolo davanti ai divani della sala. Avevo indosso un body di pizzo bianco che era perfetto per fare attività fisica, ma molto scomodo quando dovevo fare la pipì. Lo stereo suonava il Greatest Hits II dei Queen. Io facevo vorticare le braccia e saltavo lasciando impronte appiccicose sulla superficie lucida del tavolo. Giravo su me stessa più velocemente possibile, sfidando il mio stesso senso di equilibrio. Mi ricordo la sensazione di stanchezza e soddisfazione quando l’ultima traccia finì, così come ricordo il sudore che incollava i miei capelli neri e ricci alla base del collo. Sono sempre stata una bambina tranquilla. Era difficile per gli altri indovinare come mi sentissi, perché, anche se non intenzionalmente, non lasciavo trasparire nulla di cosa provassi dentro, tranne quando ballavo. Ho questa immagine in mente di mia mamma che mi guarda attraverso le porte di vetro del salone e sorride. La musica sulla quale ballavo variava. Quando c’era anche mio fratello era lui a sceglierla. A volte addirittura la suonava direttamente, picchiando a caso con i mestoli su pentole e coperchi. A me non interessava, fintanto che il tavolino era tutto per me e io ci potevo saltare sopra e fare tutte le giravolte che volevo.
Nel libro The Element Ken Robinson definisce la passione come un’occupazione che ci fa perdere il senso del tempo e dello spazio, che ci permette di raggiungere una specie di beatitudine, di dimenticare ogni altra cosa, anche te stesso. Questo era quello che sentivo quando danzavo.
Ho provato innumerevoli tipi di ballo e sport relazionati ad esso. Ho iniziato con pattinaggio sul ghiaccio, poi danza classica. Ginnastica artistica e poi ritmica. Più in là ho sperimentato con danza del ventre e danza contemporanea. A vent’anni sono passata per una fase di balli di coppia: samba de gafiera, forrò, per poi arrivare al più conosciuto tango. Danza afro-brasiliana è forse la mia preferita, ma dopo tutti questi tentativi ho capito che non mi piace seguire regole quando si tratta di muovermi.
Il posto in cui potevo sguinzagliare la ballerina dentro di me nella maniera in cui lo desideravo era il dancefloor. Ho cominciato da adolescente, frequentando rave più o meno legali, in cui la musica era spesso drum and bass o techno frenchcore. Successivamente, ho iniziato a frequentare cantine gocciolanti e teatri abbandonati di Berlino. In quei luoghi la musica era più rapida, più scura, speedcore, breakcore, gabber. Solo recentemente ho fatto il mio ingresso nella scena techno istituzionalizzata. Ed è in un club che ho avuto la mia prima esperienza di epidemia danzereccia collettiva.
Due del mattino: mancava ancora molto prima che il sole sorgesse, eppure dentro il locale era più buio che fuori. I miei occhi hanno avuto bisogno di un paio di minuti per adeguarsi all’oscurità. I muri erano coperti da una patina, come se anche loro, oltre alle persone che mi passavano affianco, sudassero perle. Seguii il suono ovattato delle casse attraverso l’entrata. Luci mi abbagliavano ad intermittenza, provenendo da un posto che non riuscivo ad individuare. Uomini pallidi saltavano fuori da angoli sudici come fantasmi in Pacman. Mi guardavo intorno impazientemente, stupita da luccichii inaspettati, bramando il riuscire a vedere un po’ di più. Mi sarebbe piaciuto esplorare quel labirinto di cemento, ma la musica mi aveva catturata e mi tirava verso di lei. Sulle gradinate delle scale di metallo il suono dei miei piedi era affogato dall’onnipotente bass,. pochi metri più su. Raggiunsi il primo piano, ero arrivata nel fulcro, in mezzo a quello che sembrava uno sciame di scarafaggi neri ed epilettici. Mi feci largo tra loro per trovare il mio posto, passando davanti a bulbi oculari lucidi e mascelle fuori asse. Ogni cosa illuminata dai riflettori sembrava coperta da un’umidità artificiale. Mi fece pensare ai precogs di Minority Report. Le vibrazioni parlavano ai miei organi, comandandogli di muoversi. E così essi fecero. La musica continuava a chiamarmi più vicina alla sua fonte e io la seguivo ciecamente, sfiorando corpi che non sembravano fatti di carne. Capelli come morbide antenne mi solleticavano le spalle mentre passavo tra la folla. L’aria era spessa di decibel, mi inchiodava al pavimento. Le luci stroboscopiche ingannavano le mie pupille, facendole contrarre ed espandere, rivelavano spasmodicamente altri angoli, altre scale, altri occhi bianchi. Non potevo fare nient’altro se non seguire il comando che la padrona di casa imponeva: balla, balla, balla.
Così facevano anche tutti quanti gli altri. Niente chiacchiere, niente flirt, solo arti che si muovevano rigidamente, piedi che pestavano veloci, teste che annuivano, su e giù. Tutti insieme scoordinatamente. Avrei voluto poter vedere noi stessi dal soffitto, scommetto che sembravamo un’onda elettrica, l’elettrocardiogramma di un tachicardico. Divenni improvvisamente consapevole che ‘io’ era diventato ‘noi’.
Ho ballato per otto ore senza mai fermarmi. Piedi, ginocchia, cosce, glutei si muovevano senza che io scegliessi come. Fianchi, pancia e petto li seguivano morbidamente. Spalle che ruotavano alternate, braccia che mulinavano, mani che modellavano sculture invisibili. Che i miei occhi fossero aperti o chiusi, non importava. Niente importava.
La musica ipnotica è associata con rituali umani sin dall’alba dei tempi. Tamburi venivano suonati seguendo pattern ritmici prevedibili e veloci prima che i cacciatori andassero ad assolvere il loro compito, per alterare il loro stato mentale, per aumentare la loro soglia del dolore, per indurre una risposta emotiva. Funzionava perché la musica influisce sulla biochimica del cervello. Studi sull’attività celebrale durante l’ascolto di musica hanno dimostrato, tra le tante cose che succedono, come le onde celebrali cambiano e quali ormoni vengono rilasciati nel sistema sanguigno.
In relazione alla musica techno è stato osservato che il livello di svariati ormoni si alza.
Sia l’ormone adrenocorticotropo, un neurotrasmettitore oppioide, che il cortisolo, conosciuto anche come l’ormone dello stress, aumentano quando viene ascoltata musica techno. Anche la concentrazione di noradrenalina si innalza. Questo neurotrasmettitore attiva il sistema nervoso simpatico, e, insieme all’epinefrina, innesca la reazione ‘fuggi o combatti’ (anche se i livelli di epinefrina non sembrano aumentare in conseguenza all’ascolto di musica techno). Una concentrazione maggiore di queste sostanze nel corpo porta ad un maggiore stato di allerta e ad una maggiore psicomobilità. Anche i livelli di ormone della crescita e beta-endorfine sono più elevati e sono responsabili per un miglioramento dello stato d’animo e del tono energetico. La musica techno aumenta la frequenza cardiaca e la pressione sistolica, allo stesso tempo concentrazione e capacità mnemoniche diminuiscono. I cambiamenti osservati nelle onde celebrali mostrano che le onde beta, associate allo stress, e le onde q, associate all’ipnosi, sostituiscono parzialmente le onde alfa, associate ad uno stato di relax. Le reazioni emotive a questi cambi ormonali variano a seconda della personalità e temperamento dell’ascoltatore. Uno studio condotto da G.Gerra, A Zaimov, G. Santoro e G. Moi rivela che persone categorizzate secondo la scala di Cloniger come ‘ harm- avoidant’ ( che evitano il pericolo) tendono a valutare l’esperienza di ascolto della musica techno negativamente, mentre invece quelle categorizzate come ‘novelty-seeking’ (alla ricerca di novità) la valutano positivamente.
Alla luce di questi fatti l’epidemia di danza del 1518 sembra molto meno mistica. Lo storico John Weller spiega nel suo libro A Time to Dance, A Time to Die: The Extraordinary Story of the Dancing Plague of 1518 che l’evento non solo è veramente accaduto, ma anche da cosa è stato originato. Weller sostiene che il cosiddetto folle danzare sia stata la conseguenza di una psicosi collettiva indotta da stress. La regione infatti in quel periodo accusava i colpi di epidemie di sifilide e vaiolo. Così come carestie frequenti decimavano famiglie: la popolazione viveva costantemente in uno stato di crisi. Le condizioni erano probabilmente aggravate da religione e superstizione. Una tra le tante superstizioni, afferma Weller, proveniente dalla chiesa cattolica, sosteneva che se qualcuno avesse provocato l’ira di San Vito, un martire del 303 a.C., questi avrebbe punito la popolazione con un’epidemia di danza compulsiva. I livelli di stress nella Strasburgo dell’epoca erano talmente alti da trasformarsi in un episodio psicotico di massa.
Qualcosa di simile accade anche ai giorni nostri, ma con una relazione di causa ed effetto differente. Forse il motivo per cui alcune persone impazziscono sulla pista da ballo è per non impazzire nella vita reale. Molti di noi vivono sotto costante pressione: scadenze, aspettative, ambizioni, modelli e regole ci perseguitano giorno per giorno. ‘Lavora!’ ‘Abbi successo!’, ‘Sistemati!’ sono imperativi che echeggiano costantemente nelle nostre teste. E gli sforzi che facciamo per raggiungere obiettivi che la società ha imposto per noi sono spesso feroci e divoranti. Dobbiamo realizzarci, non possiamo fallire. Questo è un masso appoggiato sulle nostre spalle e noi siamo tanti piccoli Atlante. Come fai a non rimanere schiacciato dal peso? Come te lo scrolli di dosso?
Balla. Balla. Balla.
Probabilmente la spiegazione scientifica toglie un po’ del romanticismo sul quale avevo costruito la teoria che l’amalgama di atmosfera, persone e musica mi portava vicino ad uno stato di trance dove non sentivo nessun dolore, nessuna stanchezza, dove l’energia che sentivo sembrava scaturire senza sforzo dalla perfetta commistione di posto, stato d’animo e suoni, dandomi superpoteri. Ma anche così, conoscendone la causa, mi sento nello stesso modo: quando sono a ballare cancello me stessa ed il mondo. Non esiste niente al di là di quello che posso percepire con i sensi. Non riesco a ricordare il passato, non posso pianificare il futuro. Le mie speranze e preoccupazioni si disintegrano sotto lo spietato tonfo del basso. Pensieri non acquisiscono forme né linguaggio, sono puro istinto: muoviti, balla, idratati, balla, sorridi. Non sono più io, non sono più un essere umano civilizzato, ma un’entità indefinita costretta a seguire il ritmo. Privata di ogni scelta la mia mente finalmente si spegne e il corpo prende il comando. Non ci sono richieste dal mio ego, non c’é rimuginare, solo un’intuitiva risposta allo stimolo primordiale di tonalità profonde e suoni ripetitivi. Ogni riluttanza razionale perspira fuori da me. L’io non è più soggetto, ma una particella di un organismo più grande. E noi non siamo afflitti dalla danza, ma guariti attraverso essa.
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In copertina: Whiskey Funeral
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