Illustrazioni di Giada Negri
Cassinetta di Biandronno, sul Lago di Varese, oggi paese di circa tremila abitanti, è la sede della fabbrica dove il Condottiero ha passato la sua giovinezza: la Ignis.
Fondata nel 1944 dall’imprenditore milanese Guido Borghi e dai tre figli, nel 1949 produce i primi frigoriferi, arrivando a metà anni Sessanta, con Giovanni Borghi, a diventare fra i maggiori produttori mondiali, sfornandone ottomila al giorno, il 40% della produzione italiana, di cui un terzo destinato all’esportazione. Nell’Italia del boom, fra il 1957 e il 1963, i frigoriferi passano da 370mila unità a un milione e mezzo. Dal 1991 Ignis diventa Whirlpool, dal nome dell’azienda americana che ha rilevato l’impianto varesotto: l’inglese sostituisce il latino, ma la ditta continua a produrre grandi e piccoli elettrodomestici.
Nato in Sardegna nel 1952, dopo una breve carriera come pastore bambino fra le colline dell’Ogliastra nuorese, il Condottiero scappa di casa a quattordici anni. Entra così a far parte di quel 19% di giovani delle aree rurali sarde che, in particolare dal 1961, si muove verso la Lombardia. Parte di un flusso migratorio che fra il 1953 ed il 1971 coinvolge circa duecentomila persone.
Una notte d’estate del 1966 s’imbarca su una nave a Cagliari ed arriva a Genova. Poi a Milano e infine alla provincia di Varese. In poco tempo diventa uno dei settemila dipendenti della Ignis, sparsi in tutta Europa. Nel suo immaginario e in quello di molti coetanei, sono anni di furore produttivo, gestione aziendale paternalistica e incrollabile ottimismo della rinascita, che coincidono con la fine della loro infanzia: tutto resta impresso come paradigma interpretativo delle aspettative per il futuro, per un’intera generazione. Tra la metà degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta quasi nove milioni di italiani si spostano dal Sud verso le industrie del Centro-Nord. E’ il tempo in cui non si usa la parola migrante.
Il Condottiero si è sempre definito con orgoglio un emigrato sardo. Se esiste un qualcosa inteso come il “complesso dell’emigrante”, in lui si è cristallizzato in un categorico rifiuto di viaggiare, di spostarsi, in generale, di muoversi. Per molti di loro, l’unico ulteriore grande trasferimento pensabile configurava il ritorno definitivo ai luoghi d’origine. Per lui no: è rimasto nella sua terra d’accoglienza, la Lombardia. Non che sia pigro in senso stretto. Ballava il rock ‘n’ roll con la Fata, da giovane, sulle balere delle feste dell’Unità. Questo prima di essere operato alla schiena, sciagurati interventi che gli hanno lasciato dolorose conseguenze. Ma gli hanno inoculato anche la fissazione, per tutti gli anni Ottanta, delle isole tropicali, Mauritius soprattutto, nelle quali fantasticava, più che progettare, di trasferirsi. Forse l’unico tratto vagamente yuppie di quegli anni della Milano da bere craxiana che abbia attecchito nella sua mente.
La Whirpool oggi di certo è irriconoscibile rispetto a quella che il Condottiero identificava come la sua fabbrica. Lo stabilimento, diceva lui. Già la parola stessa si conficca nella terra, è destinata a durare, come gli ulivi secolari del territorio di Nuoro a lui familiari.
Indistruttibile, come il conflitto di classe.
Lui non lo chiamava così però. Per lui gli anni Settanta sono soprattutto bloccare la catena, far valere i diritti dei lavoratori, dove l’accento sta sull’epica dello scontro. Che ruota attorno al picchetto operaio: un’altra parola di metallo che si pianta, per restare. Non sono le assemblee sindacali il ricordo principale di quegli anni turbolenti. Lo è invece la stretta di mano, durante un comizio al Circolo Culturale Sardo di Saronno a fine anni Settanta, al segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, un simbolo in cui si saldano, si amplificano e si potenziano, per il giovane operaio, la sardità, declinata come aspirazione indipendentista, e la politica, interpretata come lotta. La politica giusta, quella contenuta ed espressa da una mano sorprendentemente soave, tanto che aveva avuto paura di stringerla nella sua. Perché il Baffo – come lo chiamano le persone che lo conoscono da quando era giovane – ha una stretta granitica. Se alza e chiude il pugno sinistro, si forma un blocco di pietra. Non trema, perché sa da che parte sta. E sa che è la parte giusta.
Ho sempre avuto il terrore di avere i baffi. Cioè, che infine si vedessero i baffi che avevo. Sapevo che era soltanto questione di tempo. Sapevo di essere una bambina maschio, e avevo i baffi, come lui. Ho passato troppo tempo guardandolo, e come un Narciso alternativo sono sprofondata nella sua immagine.
Quella con i Baffi. Spettacolo sensoriale multiforme.
Mentre lui beveva la birra Nastro Azzurro, quella che secondo il fortunato spot degli anni Ottanta ti porta lontano lontano, io amavo guardare la barca a vela della pubblicità, ripresa dall’alto, che sfrecciava su un mare scintillante. Non so se il Condottiero provasse lo stesso senso d’avventura. Ma l’incontro baffi-birra è tuttora un’esperienza notevole. I baffi affondano nella schiuma, come se in loro consistesse il vero organo di assorbimento del liquido; dopo un lungo sorso, posa il bicchiere sul bancone del bar con la lentezza compiaciuta di chi è sovrano interiore del tempo, voluttuosamente appoggia il polposo dito indice della mano destra su tutta la lunghezza di quel lumacone schiumoso, appiattisce e piega la massa folta all’indentro e con un risucchio, che sento qui e ora, fa sparire ogni traccia di bianco.
Il risucchio andrebbe precisato. Perché i suoi baffi, coltivati ininterrottamente almeno dal 1974, non sono fatti di peli. Non scherziamo. Li ho studiati. Sono robusti bastoncelli di cheratina, setole di spessori diversi, che tendono ad arricciarsi e a sfuggire verso l’alto. L’aria viene filtrata da un bosco di alghe e la risacca con un lungo gorgoglio cupo si porta via la spuma. Abitualmente, dopo, sorride, a occhi socchiusi, ma come a se stesso. Mai a un altro. Ora comprendo a chi sorride. Sorride a Baffi.
Ho visto il labbro superiore del Condottiero soltanto nelle sue foto di ragazzo, nelle quali somiglia al Lucio Battisti che canta “Acqua azzurra, acqua chiara” al Cantagiro nel luglio del ’69: stessi capelli gonfi e ricciuti, un’esplosione perenne malamente domata da un tentativo di stiratura, foulard al collo, stesse camicie attillate con colletto a punta, pantaloni stretti sul fianco. Intorno ai baffi, una rasatura, ogni giorno, impeccabile, con la schiuma da barba Palmolive, il dopobarba Denim, i cui profumi costituiscono il basso profondo della mia infanzia. Baffi hanno resistito a rivolgimenti portentosi, cui nessun altro ha fatto fronte: alla Caduta del Muro nel 1989, alla disgregazione della classe operaia. Oggi sono grigi, Baffi. Ancora più indomiti, tentacoli che si protendono alla cieca, cercando ostinati ciascuno per sé la propria risposta. Senza una direzione collettiva, un piano comune, nemmeno un colore condiviso.
Ancora operaio, negli anni Ottanta aveva una ZAZ, Zaporiz’kyj avtomobilebudivel’nyj zavod 968M, auto prodotta nell’attuale Ucraina: come fosse arrivata in Lombardia, un mistero. Rosa fragola. Dal suono di un trattore, sovietico. Gliel’aveva spacciata l’elettrauto di fiducia, un altro Baffo, ma meno impressionante. Lasciata sotto la nevicata del gennaio 1985, più di un metro di neve sulle Prealpi Varesine, nella frazione di campagna dove abitavamo fino al 1989, era partita istantaneamente, appena girata la chiave. La guidava con il finestrino abbassato da aprile a ottobre, gomito fuori, cantando le tre B: Battisti, Beatles, Bob Marley. Mentre intonava nel naso e piuttosto bene Motocicletta 10 HP, guardavano la macchina, guardavano lui, e soltanto la sua compiaciuta disinvoltura leniva il mio imbarazzo.
Nel 1995, quando il Condottiero girava con un’Opel Astra blu, con il telefono della cooperativa turistica di cui faceva parte, abbiamo incontrato la ZAZ. Era in un dirupo di campagna del suo villaggio nuorese, gettata lì dall’ultimo proprietario dopo una corsa di rally improvvisata fra gli sterrati. Sbiadita dal sole sardo. Non era arrugginita.
Nella prima metà degli anni Ottanta, l’infanzia di chi come me è nato nel 1978, le trasmissioni del Cavaliere cominciavano a colonizzare le menti di adulti e bambini. Qui i ricordi mi si fanno confusi, perché io avevo ricevuto la proibizione solenne di ‘farmi fare il lavaggio del cervello da Silvio Berlusconi’. Da dove gli arrivasse questa sospettosa, allarmata preveggenza, non so. Forse è la provincia dell’Impero, quella Sardegna colonizzata, intimamente ribelle – fermento di indipendentismo negli anni Ottanta, quando il Partito Sardo d’Azione, che il Condottiero ha sostenuto per anni, coniugava rivendicazioni autonomiste, riconoscimento della diversità isolana, difesa dei lavoratori – a formare antenne ultrasensibili al pericolo. D’altra parte ribadisce, senza incrinature e con assoluta coerenza di decennio in decennio, che i bambini sono una tabula rasa, e che quello che ci metti dentro con l’educazione – altissimo compito morale del genitore che per posizione sociale svantaggiata non ha molto altro da offrire – è quello che ritrovi alla fine del processo. Se la tabula è rasa, se non sono previste interferenze preesistenti, gli elementi estranei che dovessero comparire sono da estirpare: con l’interrogazione diretta e implacabile. Con la ripetizione dei principi educativi famigliari, e l’assenso finale. Se sussista una somiglianza con il lavaggio del cervello non sta a me dirlo. Io so che a dodici anni ho cominciato a impuntarmi nel vegetarianesimo in una famiglia di carnivori. A desiderare la danza classica quando era previsto un corso di difesa personale. Il Condottiero sta ancora cercando i portatori di spore e di contagio.
Il televisore si accendeva per guardare i telegiornali, uno dopo l’altro, nei tre canali Rai. Tre per cena. Dieta spartana, strettamente informativa. Grigia.
La censura a mia protezione era forte, non onnipotente. Quello che so di fatato di quegli anni – la trasmissione per bambini Bim bum bam, i cartoni animati: quello giapponese con l’incantevole Creamy che si sdoppiava con un medaglione magico e quello americano con la fascinosa cantante Jem, l’orfana Pollyanna con il suo bovino ottimismo sacrificale – l’ho assorbito di straforo e avidamente. La mia enciclopedia televisiva è mutilata: lo noto quando mi confronto con quei bambini, ora adulti, che il Condottiero non voleva replicare in casa propria. Aboliti i colori dai miei vestiti, assimilato il grigio in un’uniforme di seriosità preadolescenziale.
Spesso sono stata tentata di indossarla, vedendola appesa nel suo armadio, la sua cravatta rossa di cotone. Sottile, vessillo ridotto, surrogato di uniforme. Ma la carica che si sprigiona da quel rosso mi ha ogni volta fatto retrocedere.
Il Condottiero ha sempre avuto i baffi. Ed è sempre stato comunista. Non so se fra i baffi e il comunismo ci sia un legame. Guardate Karl Marx. Che tuttavia non è mai stato il suo riferimento. Era a disagio su questo terreno. Non era fra gli operai che hanno connesso la fabbrica a un’evoluzione culturale di sé. Un lato troppo lontano e filosofico, per uno che si è conquistato la terza media con le 150 ore. Istituite a livello nazionale nel 1972, inizialmente per gli operai metalmeccanici che non avevano la licenza di terza media, questi permessi per ore di studio retribuite hanno consentito a molti di avere un primo gradino per un’ulteriore formazione, o anche soltanto una specie di risarcimento sociale per la disuguaglianza di partenza.
Non è un essere di teoria, il Condottiero. Non è mai mutata la sua predilezione per i kolossal ambientati nell’antica Roma. Adora su tutti Quo vadis? e Ben Hur, usciti in Italia nel 1953 e nel 1960: migliaia di comparse, chilometri di pellicola. È convinto di esser stato a capo di legioni nella sua vita precedente. Crede di esserlo ancora – di doverlo essere. Sono nata donna, e sono sfuggita all’imposizione dei suoi nomi preferiti: Giovanni Battista e Marcantonio. Possibilmente insieme. Gli piacciono i nomi altisonanti, roboanti; le cifre imponenti, ciclopiche.
Si insedia nelle sue abitudini non con radici, ma con fondamenta: tutti i giorni ha letto ogni singola pagina de l’Unità – che negli anni Ottanta era ancora, per gli operai, “il significato”, come indicato da Antonio Gramsci al momento della fondazione del giornale, nel 1924, e come percepito fino al 1991, quando cessa di essere l’organo del Partito Comunista Italiano. Sino ad allora, continuava ad avere la riga rossa sotto il titolo, poi, il rosso, solo nell’apostrofo. Allora ha capito. E ha smesso di comprarla.
Un pomeriggio primaverile del 1994 il Condottiero e la Fata tornano a casa dal loro primo comizio leghista con un’aria energizzata. Ma a guardare da vicino, non l’aria vitalizzante della giovinezza, quella delle balere popolari, quanto quella di chi ha avuto il permesso di lamentarsi in pubblico. Cominciano a far tracimare le parole, accavallandosi in un discorso incongruo, inebriati di riscossa e di appoggio degli altri: frammenti dei deliri del Senatùr. Mentre lui continua a inveire, lei tira fuori dalla borsa un involto. Dal pacchetto esce una cravatta. Di seta lilla. Con dipinto a mano, stilizzato e inconfondibile, l’Alberto da Giussano, guerriero della battaglia di Legnano del 1176: le città unite nella Lega Lombarda, schierate a difesa della propria autonomia, contro l’esercito imperiale di Federico Barbarossa. Sotto la sagoma, l’autografo di Umberto Bossi, allora segretario in piena salute e che ringhiava ‘la Lega ce l’ha duro’, rauco e apocalittico, cavalcando l’indignazione sollevata dalle indagini di Mani Pulite e i successi elettorali del suo partito.
Da adolescente, non capivo come il Condottiero potesse passare dalla sinistra dei lavoratori, dall’eredità togliattiana, dall’ipermorale gramsciana, dall’eroismo dei padri comunisti, attraverso le lacrime di Achille Occhetto che nel 1991 cambiava il nome e la storia del PCI, alla sbracata, volgare Lega Nord dell’uomo in camicia verde.
Eppure lo scivolamento dal comunismo dell’operaio al leghismo dell’immigrato assimilato non era così innaturale. Neanche in una stessa persona. La rabbia convertita in lotta collettiva si è ripiegata in risentimento, e anche questo materiale incandescente è servito a Bossi per costruire la sua mostruosa creatura secessionista.
Il Condottiero cammina lentamente. Mangia lentamente. Parla lentamente. A frenare tutto sono soprattutto le pause, le deviazioni ramificate; i silenzi per attrarre gli occhi di chi sta cercando di condividere la passeggiata, il pasto, il dialogo, senza tuttavia farsi inghiottire dal suo rallentamento inesorabile, e ritrovarsi immobile, con il piatto raffreddato, ad ascoltare un monologo. Il suo racconto somiglia a un viaggio in cui non è né necessario, né importante, né interessante, arrivare. Esasperante. Sono gli occhi nero carbone a piegare all’assenso, che gli ascoltatori fatalmente concedono, prostrati dall’attesa. Se l’ascoltatore è caparbio e non cede, le sue sopracciglia, degne paredre dei baffi, si alzano, e restano sollevate. Estorsione di consenso. Nessuno ha mai potuto resistere. La mia nonna materna, nata nel Veneto rurale nel 1928, è sempre stata mitemente disinteressata di tutto, in fondo ancora immersa in un mondo di Piccola Italiana, ed è l’unica che non reagisce subito alle sue sollecitazioni. Adesso è quasi sorda e cieca: peggio che andar di notte. Così ho osservato la mossa definitiva: la sequenza occhi-sopracciglia termina in poderose scosse del braccio della nonna, che – lo si vede lontano un miglio, senza adesione interiore, ma per amor di quiete – annuisce. Il Condottiero si accontenta della mezza vittoria e prosegue.
I suoi non sono i discorsi eleganti, tersi e fermi di Enrico Berlinguer. Non è lo stile moderato, tiepido e incolore di Walter Veltroni. Non è la prosa nervosa e compatta del filosofico Massimo D’Alema. Sarcasmo beffardo della storia: è il tono del Bettino Craxi più istrionico, quello che somiglia al suo. Le pause di quattro, cinque secondi del segretario del Partito Socialista al congresso di Verona nel 1984. I gesti ampi, incisi nell’aria. Come a distribuire garofani. La personalità al centro: Craxi, non Berlinguer. Un braccio di ferro fino alla resa finale. Assediare il pubblico, e schiacciarlo.
È rimasto così, il Condottiero, inchiodato al bisogno di attenzione. Io mi lascio piovere addosso questo fenomeno orale potenzialmente infinito, non modulare: un moto browniano di parole, cui inutilmente ho tentato di imprimere ordine e sintesi. Tuttavia qualche potere alla lingua altrui lo riconosce.
Non saprei determinare in che percentuale balentìa – misto sardo di strafottenza e fierezza –, provocazione, senso dell’umorismo e ingenuità si siano mescolati quando a metà anni Duemila mi ha chiesto di scrivere una lettera al presidente del Venezuela Hugo Chávez, per offrirgli la propria esperienza come imprenditore turistico. Non poteva farsi bloccare dal fatto che io non conosco lo spagnolo, o dalla forma di comunicazione improbabile. A me manca l’elemento visionario. Era una dignitosa pervicacia a fargli credere che ce l’avrebbe fatta. Oltre il realismo: dove abita Don Quijote, dove Sancho Panza è perplesso e impotente. L’ostinazione di chi confida nelle proprie capacità naturali e fantastica – allucina – che esse sono sufficienti a portarlo là dove altri già riescono. Lo conosco e so che non devo resistere, ma continuare a fargli da scudiera, per poche ore.
Si aspettava da me partecipazione alle sue battaglie. Impensabile che io opponessi il mio giudizio. Era per lui ovvio che io fossi il suo braccio armato. Secondo la legge che non coinvolge individui singoli, ma implica tutti i membri della comunità, come è depositata nel codice barbaricino, antico insieme di comportamenti sociali condivisi nella Sardegna agro-pastorale, sorto in Barbagia, nell’interno nuorese. Non scritto, ma impresso nelle interazioni comunitarie, il codice regolamenta il dovere della vendetta. L’offesa compiuta con intenzione di ledere non deve rimanere impunita. Con una sottrazione di bestiame si parifica un furto fatto per sfregio. Con un sacrificio cruento si controbilancia una morte. Forse da questo sistema di orientamento morale era ispirato il Condottiero una domenica di giugno del 1985. Non so se io, che lo affiancavo con i miei sette anni, ho interiorizzato la geometria della vendetta. Se ho ristabilito l’equilibrio della Sardegna arcaica nel cuore della provincia varesotta.
Mi aveva impartito l’ordine di catturare il gattino tigrato colpevole di aver appena ucciso una mia cocorita. Era nascosto nel garage, dietro un bidone della spazzatura. Sentivo l’odore dolciastro del sacco nero. Il gatto eccitato dal gioco con cui lo attraevo, impaurito. L’avevo agguantato, coperto di ragnatele. Chiudendolo in un cestino da picnic di plastica rossa, lui lo aveva caricato nel bagagliaio della ZAZ e mi aveva detto di salire. Siamo arrivati vicino al torrente Viganella.
Quando ho sentito il tonfo nell’acqua, la mia mano alleggerita dal peso del cesto, è esplosa la bolla dell’infanzia, e i suoi filamenti iridescenti per un istante sono rimasti a galleggiare nell’aria – seguendo poi la corrente del ruscello che porta via il contenitore rosso che a tratti sobbalza, mentre dentro il gattino si rigira freneticamente, graffiando con gli artigli la plastica. Era delle mie cugine. Non so come si chiami l’assorbimento dell’esperienza con l’intero corpo, che è quello che è successo a me.
Nel 1985, è Presidente del Consiglio il socialista Bettino Craxi. Un giorno di noia estiva, faccio il giro della casa. Sento il Condottiero che bofonchia, stizzito. Dietro l’angolo, dove coltiva pomodori e kiwi, vedo che tiene in mano un fiore, lo stelo mozzato come per infilarlo all’occhiello. Anzi, ho la sensazione netta che l’abbia appena sfilato da una giacca, anche se non ne indossa una, di certo non in giardino. Sta strappando a mazzetti con tre dita, pollice indice medio a presa tenace, i petali di un garofano rosso, scagliandoli nel braciere spento dove faceva la griglia, sibilando come in un rito di magia nera. La corolla spelacchiata precipita nella cenere.
Ed è Bettino Craxi a far rimuovere nel 1984 l’oscuramento delle televisioni private commerciali di Silvio Berlusconi, rompendo il monopolio Rai e legalizzando la diffusione nazionale dei tre canali dell’imprenditore milanese.
Dal 1983 il Drive In portava sul canale berlusconiano di Italia 1 la sua comicità grottesca, spassosa e demenziale, i corpi seminudi di donne dai seni strizzati in costumi interi rosso-blu, la colorata e gaudente atmosfera di luna park delle tv private. La moralità granitica era turbata. Il Condottiero era preoccupato che prendessi quelle ragazze come modello. Altre spore, altri contagi. Terrorizzato che, divertendomi, assorbissi troppa leggerezza. Interferenze nella tabula rasa. Eppure, se riguardo qualche video, mi tornano in mente i tormentoni: Ezio Greggio che ripete «È lui o non è lui? Cerrrto che è lui!»; i personaggi: Giorgio Faletti che interpreta la guardia giurata pugliese Vito Catozzo; le scenette: Gianfranco D’Angelo che tenta invano di addestrare il cocker Has Fidanken. Ricordo tutto come da un album di famiglia, segno che devo averlo visto molte volte. E che a casa non erano così indifferenti al Nemico. Ma era un cedimento all’erta, conflittuale. Disimpegno e consumismo, indulgenza piena al modello americano: gli ingredienti base del berlusconismo a venire.
Anche durante la trasmissione, il Condottiero teneva ostentatamente aperta l’Unità: massa di carta grigia, muro protettivo, da sopra il giornale ogni tanto guardava sullo schermo il ‘Tenerone’, l’innocuo gigantesco coniglio rosa che squittiva ‘pippo pippo pippo’. Imperturbabile, sorvegliava le mosse di Craxi, leggeva le liti del Pentapartito.
Ma sono sicura che ogni tanto sbirciava la tv. E rideva.
Sotto i Baffi, ma rideva.
Nel 2005, salutandomi sulla porta prima di raggiungere l’aeroporto di Malpensa, in partenza per gli studi Rai di Roma, il Condottiero trascinava il trolley gonfio di camicie di colori sgargianti che in quel periodo adorava. In doppiopetto blu gessato, nuovissimo. Dal 2003 una media quotidiana di 9 milioni di italiani assisteva ad Affari tuoi, gioco a premi televisivo. La trasmissione dei pacchi: semplice meccanismo di buona sorte distribuita in modo casuale. Nessuna abilità da esibire, valori da difendere, carattere da mostrare: soltanto esserci e rispondere al momento giusto, offrendosi al consumato sadismo del presentatore. Ero certa che l’avrebbero preso al provino, al primo colpo, a rappresentare la sua regione: capelli, occhi, cadenza: sardità palese. Con Paolo Bonolis, mattatore, e poi con Pupo, pallida imitazione, il Condottiero era sicuro che avrebbe vinto il montepremi, mezzo milione di euro. Non ha mai mandato giù la banconota da cento con cui è tornato. In una tv pubblica che tragicomicamente somiglia a quella privata di pochi anni prima.
Girandosi un’ultima volta sulla soglia di casa, mi aveva guardato dritto negli occhi per alcuni secondi e aveva teso in orizzontale verso di me il braccio sinistro. Che tremava. Aveva chiuso il pugno. E sollevato il pollice.
«Pensa a divertirti, papà».
Giada Negri è un’artista, illustratrice e docente di illustrazione allo IED. Ha un legame profondo con il lago di Como dove vive e lavora.
L’illustrazione e la fotografia la accompagnano nell’interpretazione del mondo.
Sogna di giorno e di notte con un sottofondo musicale sempre presente e passa la maggior parte del tempo a cercare di trasferire su carta l’universo onirico che la attraversa.
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