L’Aspromonte è severo e consolatorio. I suoi figli sono solitari, come i lupi. E protettivi, come i cinghiali. Sono duri, come la roccia, e ospitali, come le grotte che servivano da nascondiglio per pochi e da rifugio per molti. Noi lo chiamiamo Spremunti. Togliamo la lettera che sa di acredine, ma gli lasciamo un sapore forte, una pronuncia ancora più dura.Il modo migliore per raccontare l’Aspromonte è per contrasti. O per leggende. E anche così non è per niente facile, perché ho un rapporto profondo e distante con la mia montagna e non è dovuto al fatto che sono fisicamente lontana. E’ una confidenza riverente, come quella che avevano i figli del Sud dei tempi meno recenti, che amano il padre, ma gli danno del “Voi”.
Dal terrazzo della casa in cui sono cresciuta, sembra la stessa montagna di tutte le estati della mia vita. Verde e folta, come una donna dai capelli morbidi e voluminosi. Pare di vederli muovere dal vento. Cambia, però, l’Aspromonte, al cambiare del cielo. Quando arrivano le nuvole, le ombre lo incupiscono. Diventa volubile, come il mare in cui bagna i piedi. Si fa percuotere dalle tempeste, si arrabbia e fa paura. Poi si rasserena. Torna a essere quel masso di roccia che ti tiene tra le braccia e non ti lascia, neanche quando sei stato tu ad abbandonarlo. Me ne sono andata da Sant’Eufemia a 18 anni, avevo deciso da tempo che volevo vivere a Roma. Del giorno in cui sono partita mi ricordo la faccia di mia madre che fa finta di non essere sul punto di piangere e la faccia dell’Aspromonte che scompare alle mie spalle, mentre ci allontaniamo in macchina verso Gioia Tauro, dove mi aspetta l’autobus.
Dall’odore che sale dalla terra punta dalla pioggia, si può indovinare il colore delle foglie. Nel naso arriva quel profumo che sa di patate appena dissotterrate e di radici, che si mischia a quello acerbo e penetrante della vegetazione. Lo puoi sentire come se ce lo avessi sotto i denti. Sono le foglie verdi. Resistono, ancora aggrappate ai rami, dopo l’acquazzone estivo. Le foglie imbrunite, invece, esalano aromi differenti. Le tradisce una minore vitalità, dimenticata mentre cadono a terra. Danno all’aria un odore più dolce e duro, ma fresco. Come se nel frattempo si sentisse il rumore dei funghi che si fanno largo nel tappeto autunnale, spuntando da sotto, al lato dei tronchi.
L’Aspromonte è feroce e poetico. Sul versante tirrenico della Calabria meridionale, un sole estivo sorge tra le vette e trafigge con i primi raggi scattanti i boschi di pino e di faggio, le querce, gli ulivi secolari. La montagna si sveglia con il carro trainato da Apollo, la cui sacerdotessa Sibilla è condannata alla prigionia proprio tra quelle rocce. La leggenda, che da pagana diventa cristiana, vuole che la Maga vivesse su questo monte, dove in principio aveva il compito di istruire le fanciulle tra le mura del suo castello. Si narra, tra le altre cose, che suggerì a una delle sue allieve di aggiungere un po’ di “acido” all’impasto del pane, introducendo per la prima volta il pane lievitato. Essendo la donna più sapiente del mondo, era anche l’unica a conoscere la scrittura. Decise di scrivere dei libri e li diede alle sue alunne per tramandare il sapere. Ma il suo desiderio più grande era di diventare la madre del figlio di Dio. Un giorno, un’altra bambina chiese il parere della profetessa su una visione: aveva sognato un raggio di luce che la trafiggeva da parte a parte, entrava dall’orecchio destro e usciva dal sinistro. Quella bimba era la Vergine Maria. La Sibilla indovinò il suo destino dal racconto di quel sogno e, vinta dall’invidia, cercò di impedire che si compisse, ma senza riuscirci. Per questo fu condannata a restare lì, sull’Aspromonte. In mezzo a una montagna piena di chiese, di croci e di Madonne.
Me ne ha parlato mia zia, durante il pic nic che abbiamo fatto qualche giorno prima del mio ritorno a Berlino: “Se racconti la realtà alla gente d’Aspromonte, devi essere credibile. Non puoi presentarti solo con dei fatti dimostrabili, ci dev’essere anche la magia. Come la leggenda della morte del famoso brigante Musolino, che si aggirerebbe nei boschi, grazie al dono dell’invisibilità”. Passando per un campo che profumava di menta, vicino alla vecchia segheria dei suoi genitori, siamo scesi fino alla fiumara, tra sentieri di erba alta, rovi di more e fragoline di bosco. Ne abbiamo raccolte alcune per i miei nipoti, avidi mangiatori di quei frutti, come lo eravamo io e mia sorella da piccole. Ogni occasione era buona per allontanarci, insieme al folto gruppo di cugini, per scovare questi tesori tra i cespugli e assaporarne il più possibile. Le fragoline di bosco, nel mio dialetto, hanno un nome strano, che ormai non si usa: hahomuli. Con un’acca leggermente aspirata, un sussurro che va verso la gola e si espande con dolcezza nel torace. Il potere di questa parola è di riuscire a evocare intere giornate del passato, immagini di altalene, passeggiate nei sentieri bordati di ciclamini e violette, avventure nei boschi. Il rumore della fiumara è continuo e rilassante, la attraversiamo provando a non bagnarci, passando da una pietra all’altra. Una volta per il mio onomastico, che è anche quello di mia nonna, una mia zia e due mie cugine, andavamo tutti a mangiare la trota arrostita, in un ristorante lungo la strada in direzione Cippo Garibaldi. Si chiama così l’albero dove si appoggiò lo stesso generale, dopo esser stato ferito a una gamba in battaglia. L’arbusto è recintato. Abbiamo uno strano attaccamento agli eventi storici che hanno rilevanza nazionale, come se ci dovessero ripagare della mancanza di attenzioni che in questo territorio si rinfaccia allo Stato. Siamo un popolo oppresso, dominato e abbandonato. Diventati diffidenti, ma ancora facili da abbindolare, come amanti traditi che non si rassegnano e ci sperano ancora.
Chi lascia l’Aspromonte, ha anche nostalgia del mare: dalla montagna, la vista del mar Tirreno è da perdere il respiro. Soprattutto al tramonto, mentre il sole scende piano verso l’orizzonte su cui poggiano la Sicilia e le isole Eolie e si tuffa tra di loro. Andando più a Sud-ovest, alle meraviglie in fila si aggiunge l’Etna. Ci si ferma per perdersi nella grandezza del panorama. Una delle immagini che di recente sono diventate più famose è stata scattata quando l’Aspromonte è bianco, dalle piste di Gambarie, a 1.310 metri di altezza, e gli sciatori vedono la distesa azzurra. Boschi, neve, rocce. E il mare. L’immagine della natura che ti dà tutto. Eppure, il simbolo di Gambarie è un’opera creata dall’uomo. Una fontana di 7 metri che si erge al centro della piazza principale, simile a una montagna, grazie alle lastre di vetro temprato che si alternano. Nei mesi freddi, si ghiaccia. Le stalattiti, ogni volta diverse, cambiano la forma dell’opera, mentre l’acqua vi scorre sopra come una cascata. La natura si prende il suo spazio e migliora la mano dell’uomo. Quando torna il caldo, la luce proietta a terra frammenti di un testo tratto dalla Carta dell’Aspromonte, incisi sulle lastre di vetro. Questa fontana, quando è stata costruita, ha sollevato un polverone. Perché è vero che abbiamo la testa dura. Quella cosa moderna in mezzo alla natura a molti non è piaciuta. Alcuni vandali l’hanno danneggiata, ma l’opinione pubblica col tempo l’ha accettata. Per cui è rimasta lì: la fontana c’è ancora.
A Ferragosto, per prendere il posto in montagna, si parte alle 6 di mattina. Si arriva un po’ alla volta, si portano la carne e le melanzane per la grigliata, i pomodori per l’insalata. Una parmigiana, che ci sta sempre bene, pane, vino e birra. Si accende il fuoco. Si invita la “gente da fuori”. Si porta la musica. L’Aspromonte, nella giornata più affollata di Agosto, è un concerto di organetti e tamburelli, una tarantella che sposta zolle di terra sulla montagna. I nostri balli sono quelli dell’antica Grecia, nati come danze di competizione, di corteggiamento e di amicizia. Il significato cambiava in base ai partecipanti allo spettacolo. Oggi, significa soprattutto allegria, senso di appartenenza e di accoglienza, visto che anche i forestieri sono invitati a unirsi alla rota dei danzatori. Si torna ai paesi prima che faccia buio, con la promessa di non cenare, sapendo di mentire.
C’è una carovana di devoti che si inerpica sulle strade montuose alla volta del Santuario di Polsi, a fine mese, per la Festa della Madonna della Montagna, dove li aspetta un enorme banchetto spirituale. L’Aspromonte, usualmente schivo, diventa festoso. Io non ci sono mai stata: quei canti, i suoni dei clacson, li sentivo dalla mia stanza e mi affacciavo a guardare l’ondata brilla di felicità percorrere la carreggiata che corre verso su. Non ci sono mai andata. Soprattutto perché, almeno fino a vent’anni fa, una delle pratiche tipiche della festa era uccidere i capretti e io non ho mai avuto lo stomaco per vederlo. Non ho mai assistito nemmeno all’uccisione del maiale, che in Calabria è una tradizione contadina antica e ancora in voga, ma che per me rimane troppo cruenta.
La vetta più alta dell’Aspromonte è Montalto, a 1956 metri d’altezza. Da lassù si vedono entrambe le coste, jonica e tirrenica. Nel 1994 sulla cima è stata posata una rosa dei venti, accanto alla statua del Redentore. Un disco bronzeo di circa 105 cm di diametro, che riposa su un cono di pietra di Lazzaro, diviso in sette corone concentriche. In esse sono incisi i punti cardinali, le località e i paesi dell’Aspromonte, i paesi e le città del Mediterraneo, diverse città europee, del mondo e, nel cerchio più esterno, i venti. La posa della rosa dei venti voleva essere un invito a unire i sentieri del mondo e a farli diventare strade di incontro e tolleranza. L’Aspromonte è riservato e accogliente.
Sul versante orientale, c’è quello che è considerato il simbolo del Parco Nazionale: un monolite alto 140 metri, la Pietra Cappa, nella Vallata delle Grandi Pietre. Già così, suona come una leggenda. A quanto si tramanda, Gesù si trovava nella Vallata insieme ai suoi discepoli e disse loro di prendere dei grandi massi per fare penitenza. Pietro, che in quel momento si era forse creduto abbastanza furbo, prese un sasso di piccole dimensioni. Gesù se ne accorse e lo punì. Trasformò tutti i massi in pane, tranne il suo. E affinché ricordasse la lezione, sfiorò il ciottolo che aveva portato e lo fece diventare un monolite, promemoria perenne contro la pigrizia e la mancanza di rispetto. Secondo un’altra storia, questa era la patria dei Cavalieri Templari, nello specifico della Decima Legione Fretense, nella quale militava il soldato che trafisse il costato di Cristo con una lancia. Si dice, infine, che il masso gigantesco fosse il luogo in cui venne fondato l’ordine di Sion, di cui facevano parte i monaci che ebbero la rivelazione del Sacro Graal.
Io non mi sono realmente innamorata della mia montagna camminando, né guardandola da giù. L’ho amata sul dorso di un cavallo. L’ho amata per sentieri e praterie percorse sugli zoccoli con nel naso la puzza di stalla, allentando la presa per scappare al galoppo e sostare ai bordi dei corsi d’acqua per far bere gli animali. Ho amato il bosco fitto illuminato dalla luce obliqua del sole, che aveva già iniziato la discesa. Arrivai a una prateria. Con me c’erano delle amiche e il nostro istruttore di equitazione. Era un posto ideale per fare una cavalcata. Ma non eravamo soli. In mezzo al campo, alcuni cavalli strappavano l’erba con le mascelle forti. Erano senza sella, senza briglie. Il pelo lucente, gli occhi vigili nonostante non ci avessero dato molta importanza. Chiesi all’istruttore se erano cavalli selvatici. Annuì. Non ci credevo fino in fondo, avevo tredici anni e lui era un ragazzo poco più che ventenne di Reggio, era un cittadino. Quindi ingenuo, credulone. Lo guardai di nuovo, poco convinta. “Non chiedere a me, basta osservarli. Si vede che non hanno padrone”. Staccarono il muso dal prato, fecero qualche passo e corsero via al galoppo. La criniera al vento, come nei film, ma più bello, più reale. Allentai le redini e il mio cavallo partì da solo, senza bisogno che lo convincessi coi talloni. Cominciammo a correre e continuammo finché lo spazio della prateria non si strinse verso i sentieri che portavano ancora in mezzo ai labirinti disegnati dagli arbusti. Li guardammo scomparire e tornammo indietro. Avevamo incontrato la forza della libertà. Quella volta, ho visto l’Aspromonte più vivo che abbia mai conosciuto. Non dimentico, tuttavia, neanche la cresta di fuoco che ne cinge i bordi, ne evidenzia i livelli di altitudine e poi si allarga come un disegno colorato da un bambino. Da cresta diventa maschera ardente che brucia il volto. La montagna urla. Il fumo sale, i rami scoppiano. Gli animali corrono. Ma non la sentiamo.
Da giù si vede la notte buia, le stelle e quel rogo enorme, inimmaginabile. Ogni anno. Il giorno dopo il crimine, passiamo davanti a ulivi carbonizzati, aree senza vita e andiamo avanti, maledicendo i colpevoli. Senza guardarci mai allo specchio.
In inverno, dal paese si vede la montagna che inizia a chiazzarsi di bianco. I ragazzi sperano che presto nevichi tanto anche lì, così non si va a scuola, visto che le macchine non camminano e a piedi si scivola. Si gioca a palle di neve, si fanno i pupazzi. Si torna tutti insieme bambini. Io e mia sorella maggiore, insieme alle mie cugine, riempivamo bicchieri di neve appena posata e ci facevamo colare sopra lo sciroppo di amarena che mia zia faceva con i frutti staccati dal suo albero. La montagna si copriva di bianco e il mondo si fermava. Letteralmente: le strade erano bloccate e per gli adulti, più che una festa, era una scocciatura. Qualche anno fa stavo per prendere un aereo da Fiumicino diretto a Reggio Calabria, per il compleanno di mio nipote. Era Febbraio e aveva nevicato su tutto il Sud della regione, anche sul mare. Il paese era isolato, non sarebbe potuto venire nessuno a prendermi, né io ci sarei potuta arrivare. Mi hanno avvisata in tempo. Ho fatto colazione in aeroporto e sono tornata a casa mia, a Roma.
Il mio paese è invecchiato. Mi tengo stretta il ricordo della spensieratezza, delle strade piene di ragazzi, della piazza piena di vita. Perché quando scegli di non tornare, scegli anche di non vedere quel mondo crescere o invecchiare. Speri di ritrovarlo ogni volta com’era. Invece, arrivi un giorno e trovi tutto spento. Via la musica, via il gelato in piazza, via i ragazzi, via il pallone. Come se ti dicesse: “Pensi che sto qui ad aspettarti?”.
Eppure, quella montagna sempre imponente e presente, è stata un conforto. Da bambina a volte ero triste. Per farmi stare meglio, mia madre mi portava a fare un giro in macchina fino alla fontana della Campagnola, che raffigura una contadina, o fino alla statua della Madonna, in mezzo al verde, nel regno del dio Pan, tra spiriti e folletti. Il paganesimo e il cristianesimo convivono e si contaminano, la spiritualità trova la sua magia nelle particelle che si muovono nei fasci di luce, nei sassi su cui sbattono i corsi d’acqua.
Ci arrivavamo ascoltando la cassetta di Lucio Battisti, superando i tornanti con il sole che correva tra gli alberi. Ci fermavamo e stavamo in silenzio, per sentire l’aria fresca e profumata di pino. Quando il sapore salato andava via dalla mia gola, tornavamo giù.
L’Aspromonte è severo e consolatorio. Pretende di avere ragione. Ti giudica, come mi sento io mentre ne scrivo, come se fosse un essere umano, come se mi potesse davvero dare la sua approvazione e mi aspettasse al varco per dirmi: “Ma che hai scritto?”.
E poi ti abbraccia.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin