the only chains we can stand
are the chains of hand in hand
(Mavis Staples, ‘Eyes on the Prize’
canto del movimento per i diritti civili americano)
«Quest’uomo sta sotto la mia protezione personale. Chi lo prende in giro ancora, dovrà vedersela con me. Tante contro uno non è leale». È inconfondibilmente un cavaliere senza macchia e senza paura a parlare. Si chiama Anita Augspurg. E fa la prima elementare.
La bimba che sguaina queste parole per difendere un maestro timido, bersagliato dalle compagne di classe, sfodera già il piglio che la contraddistinguerà negli ottantasei anni della sua vita.
Prima laureata tedesca in diritto, attrice, fotografa, pubblicista, imprenditrice agricola, autista patentata a settant’anni, cittadina del mondo e infine apolide, Doctor juris Augspurg non ci viene incontro come amica, amante, mecenate o musa di un uomo celebre, ombra pudica e remissiva un passo dietro di lui. Non vediamo un uomo né alle sue spalle né al suo fianco. Anita Augspurg entra in scena da sola. E senza chiedere il permesso a nessuno.
Questo in un periodo storico in cui descrivere la condizione delle donne, anche in Germania, implica usare molti ‘senza’: senza diritti civili e politici, senza fruizione autonoma del proprio patrimonio, senza accesso né alla formazione né al lavoro. Esclusioni che accomunano i dominati dell’ordine sociale, quelli in stato di minorità e dipendenza: mogli, schiavi, minorenni, criminali, servi della gleba, malati mentali, apprendisti, animali. Le questioni di diritto sono questioni di potere, se fra i tanti il professor Friedrich Paulsen nel 1894 afferma che «l’uomo apprende in casa propria i primi elementi del governo». Soprattutto quando la legge è scritta da uomini per uomini. Sarà perciò il corpo della legge a diventare il primo bersaglio del femminismo borghese radicale di fine Ottocento, in cui Anita militerà, e il Parlamento il suo interlocutore. La maggior parte dei paragrafi del Codice Civile resterà in vigore fino all’equiparazione dei diritti del 1958; la riforma complessiva del diritto famigliare tedesco arriverà soltanto nel 1977.
Nata il 22 settembre 1857 a Verder, in Bassa Sassonia, nell’allora Deutsches Kaiserreich, ultima di cinque figli, Anita Augspurg cresce come una figlia unica, godendo del vantaggio di essere lasciata a se stessa, nel suo laboratorio di sperimentazione esistenziale. Sarà questa infanzia a fare di lei una Einzelgängerin, colei-che-procede-da-sola.
Entrambi i genitori appartengono alla borghesia colta e benestante, allora il tre per cento della popolazione: nella linea paterna, il nonno combatte nelle guerre di liberazione anti-napoleoniche, il padre avvocato finisce in prigione per aver partecipato ai moti rivoluzionari del 1848, le rivolte esplose in tutta Europa contro i regimi nobiliari, che in Germania videro il popolo lottare, e uscire sconfitto, contro il potere di Confederazione Germanica, Regno di Sassonia e Prussia.
Anita apprende in famiglia che esistono valori non negoziabili, che si può scegliere di andare in carcere per sostenere un’idea di bene collettivo. E che si può diventare attivi includendosi in una lotta politica per la libertà, che per lei costituisce già una tradizione famigliare.
La madre discende da una famiglia di medici. È assorbita dalle cosiddette “occupazioni femminili” e dal suo amato giardino. Anita, nel 1893, scriverà che la donna di casa tradizionale ha qualcosa di ripugnante nel suo costante affaccendarsi fra minuzie domestiche, nella manutenzione silenziosa dell’ordine – un tipo di donna che diffonde un senso di inquietudine e disagio, governata dalla fobia di sporcare, che sottopone l’intera famiglia alle stesse ridicole angosce. La figlia minore trasmuterà questi valori, rifiuterà la prescrizione di quieta operosità al femminile e farà del coraggio di creare disordine, di rendersi visibile e di fare rumore, l’arma di un cambiamento sociale a lungo termine. La sovversione diventerà il cuore dinamico della sua vita.
E’ così che la piccola Anita decentra il suo punto di osservazione dall’interno della casa al giardino, fra gli animali. Cavalca per ore nell’erba immaginando che i bastoni siano i suoi adorati cavalli. A differenza della maggior parte delle coetanee di analoga estrazione sociale, che subiscono già un dressage spiritualmente deformante, Anita scorrazza per la brughiera con il cane Tell. Marinando la scuola. Ma in segreto legge, e non soltanto letteratura per bambine: ama i libri di avventure cavalleresche, che affinano le sue già alte aspettative morali. L’identificazione con il cavaliere di giustizia, figura di altruismo, abnegazione e rettitudine, attende il momento in cui prenderà una forma adulta.
Misuriamo il potenziale dirompente di questa anomalia solitaria che è l’infanzia di Anita Augspurg: la rottura con le convenzioni borghesi, da cui non tornerà indietro, sembra non averla morsa in contraccolpo. In lei non si rintracciano elementi tragici nell’uscita dal modello tradizionale: anzi, sembra essersi divertita a farlo.
Finita la scuola femminile a sedici anni, nel 1873, progetta di diventare un’attrice professionista. Svago tollerato per le ragazze borghesi, ma considerato immorale come lavoro. Anita prova le parti in giardino, da sola, consegnata al dramma classico del talento femminile, mortificato in nome della divisione dei ruoli. Quella dell’attrice non sarà la via di Augspurg, forse anche in conseguenza della sua, sconvolgente, esperienza diretta: dopo lo spettacolo è abitudine che le attrici, malpagate e tuttavia costrette a sfoggiare abiti costosi, si prostituiscano con gli uomini che le avvicinano. Pur accantonata, l’esperienza teatrale la forma profondamente, rendendole facile passare dal palco alla scena politica.
Ma in futuro: perché a questo punto inizia il sequestro. La cavaliera templare deve diventare una signorina di buona famiglia. Anita lo definirà un martirio, in cui il tempo viene sottratto a lei stessa e messo a disposizione di chiunque se ne voglia servire per scopi inutili, di certo non definiti da lei, nella quotidiana corsa a vuoto dell’infinito lavoro domestico: che piaga l’anima, umilia l’intelligenza e fa disseccare il talento. Uno sconsolante tempo di attesa, focalizzato a trovare il marito adatto.
La giovane Augspurg si chiude in una calma stoica, trasformando la fase di preparazione al matrimonio in una prigionia politica, mentre nella sua mente fa salire la temperatura dei sogni, che sotto la pressione dello sconforto si trasformano in progetti. Non è il principe azzurro che venga a liberarla ciò che Anita aspetta, ma il suo ventunesimo compleanno, per diventare maggiorenne. Nel frattempo si equipaggia per la vita futura: la sua.
Il problema è sociale: nella Germania degli anni ’70 dell’Ottocento non ci sono risposte per le giovani borghesi che vogliono impiegare i propri talenti. L’industrializzazione ha polarizzato la vita separando la sfera produttiva – pubblica, competitiva e maschile – da quella domestica, dedicata alla cura, all’intimità e alla famiglia, che resta alle donne. Certo, c’è l’immenso bacino dell’attività dilettante, ma Augspurg vuole fare sul serio. C’è l’assistenza ai bisognosi, ma Augspurg non vuole assimilarsi alle dame di carità. Vuole incidere con i suoi pensieri nel corpo sociale. Ovvero, socialmente vuole essere un maschio del suo tempo.
Vi è un dettaglio da non dimenticare, perché avrà un effetto macroscopico: identificandosi con i propri padri, figure maschili della classe dominante, rappresentanti del successo economico unito alla presenza politica, Anita Augspurg e la futura compagna Lida Gustava Heymann, assorbono l’assertività maschile della propria classe sociale e la applicano al proprio genere di appartenenza: useranno il loro ragguardevole capitale finanziario e culturale a servizio del femminismo radicale.
La linea materna, da entrambe le parti, tace.
Esclusa la borghesia, è un esercito quello delle donne, ragazze, bambine, impiegate come operaie in fabbrica, minatrici, domestiche, commercianti, contadine: sono dieci milioni in Germania le lavoratrici, nello stesso tempo in cui il Kaiser ricorda che il posto delle donne non è nelle associazioni, ma nella silenziosa attività in casa, marcata dalle tre lugubri K: Kinder, Küche, Kirche – bambini, cucina, chiesa. Le tre pareti di una prigione domestica, sigillate da una quarta: il diritto maschile, incarnato dal marito onnipotente.
Nell’autunno 1878 Augspurg si trasferisce a Berlino, per diventare insegnante nelle scuole superiori femminili e superare un esame come insegnante di ginnastica. L’eredità di una nonna la rende infine economicamente indipendente. Da questo punto in poi, non dovrà più giustificare davanti a nessuno i propri comportamenti privati. Riguardo a quelli pubblici, c’è la legge. E questo è un campo in cui Anita Augspurg avrà qualcosa da dire.
Dopo una breve formazione come fotografa, nell’aprile 1887 fonda con la compagna Sophia Goudstikker l’Atelier Elvira, a Monaco di Baviera. Le due imprenditrici hanno successo: rivoluzionano il modo di fotografare le donne, in pose intellettuali fino a quel momento riservate agli uomini, affinché sia chiaro che le donne pensano, con buona pace del professor Paul Julius Möbius, che nel 1900 argomenta sulla ‘deficienza mentale fisiologica della femmina’. Non bisogna lasciarsi confondere: non è ritratta la colta borghese che legge stesa sul divano: qui ci sono donne che della cultura fanno azione – cioè escono dal boudoir privato ed entrano nel dominio del potere che agisce nel mondo e lo cambia. Proprio come fanno gli uomini.
Anche se Monaco è considerata una città liberale, le due, trentenni e non sposate, danno subito scandalo: Augspurg porta i capelli corti, che terrà tutta la vita, fuma, si compra un cavallo e ci monta non all’amazzone, con le gambe da un lato, ma in Herrensitz, a cavalcioni come i maschi, e coerentemente indossa dei pantaloni, per aver libertà di movimento, anche quando inforca la bicicletta. È il tempo del Reformkleidung, il ripensamento degli abiti femminili, che rinuncia a corsetti, pizzi e strascichi e predilige la funzionalità. Le due vengono presto in contatto con il movimento femminista, per il quale Augspurg scrive nel dicembre 1889 un articolo: ‘La fotografia come professione per le donne’. Ma va molto oltre: l’obiettivo diventa subito aprire tutte le professioni, senza distinzioni di genere.
Le ragazze devono poter accedere a un’istruzione di qualità, lontana da quella offerta in quel tempo. A favore di licei femminili e relative docenti qualificate, partono diverse petizioni – allora unico strumento per esprimere la volontà politica, perché il Parlamento è obbligato a considerarle almeno formalmente – che approdano alla fondazione, a Karlsruhe nel 1893, del primo liceo per ragazze.
Se pure è da festeggiare l’apertura di un serio spazio formativo al femminile, le insegnanti vengono esposte a un dilemma: secondo una legge del 1879, devono restare ‘signorine’, perché sposandosi perdono il posto. Nel 1920 Augspurg attaccherà questa discriminazione. Soltanto nel 1951 verrà definitivamente abolita.
È del 1883 la prima linea telefonica a Monaco, già dal 1875 si viaggia in tram, ma ancora a fine Ottocento in Baviera – secondo decreti analoghi al prussiano §8 in vigore fino al 1908 – studenti, apprendisti e donne non possono partecipare ad associazioni politiche, dove ‘politico’ indica semplicemente ciò che riguarda gli affari pubblici. La costituzione, l’amministrazione, la legislazione dello Stato, le relazioni internazionali, i diritti civili, sono esclusi dall’ordine del giorno dei ritrovi concessi alle donne, pena la chiusura immediata.
Come dire: ‘politico’ è tutto ciò che è fuori dalle mura di casa. Ma anche gran parte di ciò che di più significativo si svolge dentro di esse.
In una società che si modernizza velocemente, le donne non tollerano di restare escluse e vogliono appropriarsi di spazi pubblici. Innanzitutto rimuovendo le ingiustizie che disseminano il loro cammino, in senso puramente letterale.
Negli anni ’90 dell’Ottocento, come corollario della cosiddetta Lex Heinze, che inasprisce le pene per i delitti di natura sessuale e instaura la censura sulle forme di espressione artistica considerate immorali, nel Codice Penale c’è il paragrafo 361, che al punto 6 prevede che le donne che si trovano da sole in luoghi pubblici possono essere arrestate dalla buoncostume. Perché ogni donna che si aggiri non accompagnata è potenzialmente una prostituta: la prostituzione è formalmente proibita, anche se tollerata e regolamentata dallo Stato.
Sono centinaia i casi di donne sole per strada che, a discrezione del poliziotto di turno, vengono portate in commissariato. Si chiude la prima tenaglia, da parte del diritto statale, sulla libera disposizione del movimento di una donna.
La seconda stringe la donna al centro della sua intimità fisica, ancora una volta in senso letterale: è un nudo corpo e non più una cittadina a passare all’autorità medica. Al posto di polizia, le donne vengono fatte spogliare e forzate a un esame ginecologico. Uno solo fra molti dettagli brutalizzanti: per lavarsi, un catino e un asciugamano in comune a tutte. Questo orrore di Stato, intimidatorio e terroristico, servirebbe a prevenire le malattie a trasmissione sessuale, controllando che le prostitute siano regolarmente iscritte alle liste ufficiali. La doppia morale così instaurata protegge la salute e la reputazione maschili, sfruttando e umiliando il corpo femminile. Ma più di tutto serve a espropriare tutte le donne di se stesse, per legge, in modo che penetri fino al centro del loro essere la certezza che ciò che è apparentemente più proprio, il loro corpo, è al contrario il luogo cardine dell’indisponibile radicale. Ridotta a essere senza tempo e senza corpo propri, questi meccanismi insegnano alla donna, attraverso la manipolazione medico-statale, che lei deve esistere in un regime di alienazione assoluta.
Che è sola da sempre e per sempre, che è inutile ribellarsi, che non vale la pena gridare aiuto perché nessuno – come nel peggiore dei nostri incubi – accorrerà in suo soccorso.
Augspurg aveva già risposto pragmaticamente all’indignazione: contribuisce a fondare nel 1898 la sezione tedesca della federazione internazionale abolizionista (IAF), che in Germania si propone di rimuovere la regolamentazione statale della prostituzione. Le cifre sono incerte, ma si parla di cinquantamila prostitute nella sola Berlino.
Incontrare la realtà di questi casi significa comprendere che nessuna è al riparo da una potenziale violenza di Stato. A beneficio delle donne che non lo comprendono, perché si sentono protette dal proprio status, Anita Augspurg fa un semplice esperimento.
Nel novembre 1902 alla stazione di Weimar un poliziotto le chiede le generalità e la conduce in commissariato, fra la folla urlante. L’ex attrice e giurista sa come si orchestrano i tempi scenici. L’agente cerca invano di liberarsi di lei per strada. L’arresto di Anita Augspurg diventa un evento mediatico di grande risonanza. Chi nega che le donne appartengono a una classe sociale preda di ogni oltraggio ha così la prova del contrario.
Augspurg è consapevole che la visibilità è centrale. Anche se recitare non è la sua professione, le ha insegnato a organizzare un’azione pubblica efficace – e come si porta la voce per farla arrivare il più lontano possibile nel teatro sociale e sul palcoscenico della storia.
In queste condizioni storiche e legislative, un movimento politico femminile, per esistere, deve formarsi come movimento extraparlamentare, in opposizione alle leggi vigenti, in resistenza sugli stretti margini che il diritto concede a un’esistenza femminile pubblica. È una potente torsione dello sguardo quella che porta le femministe ad attribuire a scelte culturali quello che per secoli è stato spacciato come natura immutabile: la debolezza femminile, la sua naturale inferiorità.
Non vogliono più essere considerate elementi asemantici, unità che prese isolatamente non hanno un significato autonomo. Infine le donne smettono di esonerare gli uomini dal peso della responsabilità, li costringono a confrontarsi con l’ingiustizia in cui le decisioni maschili, cristallizzate nelle leggi, le hanno poste. Rompono la complicità con la posizione assoggettata, si ribellano alla litania della naturale conformazione inferiore della donna, perché con la conoscenza hanno spezzato l’incantesimo e ormai sanno che non si tratta di natura, ma di storia – e che la storia si può cambiare.
Partite dalla necessità di far accedere le ragazze a una migliore istruzione, si fa strada tra le radicali l’idea – più ampia, onnicomprensiva e socialmente sovversiva – che senza modificare le leggi non può stabilirsi nessuna riforma duratura. Nemmeno l’istruzione delle donne può da sola rovesciare la sottomissione. La storia dimostrerà quanto fosse pertinente questa deduzione. Propriamente da questa consapevolezza nasce il movimento che chiamiamo oggi femminismo.
Così le attività delle donne, da farmaci di lenimento, diventano armi di combattimento.
Per cambiare, bisogna impadronirsi delle regole. Ci vuole un salto teorico. Augspurg lo compie: nell’autunno 1893 ha trentasei anni, è a Zurigo con altre centocinquanta studentesse, perché in Svizzera le donne hanno il diritto di frequentare l’università. Si iscrive a giurisprudenza, contemporaneamente a Rosa Luxemburg. In Germania soltanto dal 1895 possono assistere alle lezioni, con il permesso esplicito del professore e soltanto come mute ascoltatrici – cosa a cui la società le ha già addestrate. Ma che cambierà presto.
A Berlino nel gennaio 1895 appare il primo numero della rivista Die Frauenbewegung che, raggiungendo le ben cinquemila copie a diffusione nazionale, darà il tono dell’ala radicale del movimento femminista borghese, per il quale la completa equiparazione giuridica dei diritti della donna e dell’uomo è l’obiettivo primario. Anche la possibilità di pubblicare delle riviste non è scontata per le donne: con una famigerata legge ad personam, la Lex Otto, nel 1851 in Sassonia si proibisce alle donne di assumere la responsabilità di una redazione. Negli stati tedeschi che lo permettono, le donne sanno bene che si tratta più di un fragile privilegio che di un solido diritto.Louise Otto nel 1851 aveva scritto: «Almeno fare rumore, con le catene che non si possono spezzare». Le future femministe ne ricorderanno nei decenni successivi.
Intanto a Berlino si prepara il nuovo Codice Civile che, unificando il diritto privato tedesco, sarà la base di quello odierno. La scandalosa condizione della donna nel diritto famigliare diventa l’obiettivo delle femministe radicali, che ne chiedono una riscrittura completa. Augspurg mette a fuoco il fatto che l’unica parentesi in cui una donna ha formalmente alcuni dei diritti dell’uomo è fra il ventunesimo anno, quando è una maggiorenne nubile, e la data del matrimonio. Se si sposa, li perde, e l’uomo li incassa.
È allora quella fase temporanea di astratta libertà che va dilatata: invece di restare un inabitabile interregno, deve riempirsi di concrete opportunità di autonomia, con o senza matrimonio.
Pascolare nel recinto delle opere caritatevoli allevia la coscienza delle donne e smussa qualche asperità sociale, ma non modifica il contesto che genera la sottomissione.
Augspurg ottiene un permesso per sedere fra il pubblico al Reichstag, redige dal 1899 un inserto dedicato ai temi parlamentari e mette a fuoco una costellazione teorica che disinnesca alla radice ogni tentativo di rivolta. Secondo la legge, la donna è sotto tutela in un modo che non potrebbe essere più esplicito. Ad esempio il §1354 del Codice Civile del 18 agosto 1896 indica: «All’uomo spetta la decisione in tutti gli ambiti delle vita coniugale; è lui a stabilire dove vivere».
A lei spetta l’obbedienza – solo perché è donna.
È l’uomo che la ha in tutela a decidere – solo perché è uomo – come usare i soldi della donna, a interrompere senza doversi giustificare i contratti di lavoro di lei.
La donna è costretta a chiedergli continuamente il permesso, deve umiliarsi per ottenere la firma di lui per iscrivere i figli a scuola, per ritirare del denaro destinato a lei, per stipulare un contratto d’affitto. Augspurg nota che, se il marito vuole approfittare alla lettera del diritto che la legge gli concede, può «sfruttare la persona, la forza lavorativa e il patrimonio della moglie fino al limite della schiavitù».
Sanzionata come giuridicamente manchevole e assistita come un’incapace, è creata dalla struttura stessa della legge come essere dipendente: con il matrimonio deve accettare di venire espropriata anche del proprio cognome.
Augspurg si occuperà giuridicamente di questi temi anche negli anni a venire: per rispondere a una immaginaria lavoratrice che domanda se sia una buona idea sposare l’uomo che ama, Anita Augspurg pubblica una lettera aperta nel settimanale ‘Europa’ nel marzo 1905: «Per una donna che rispetti se stessa, che conosca le conseguenze legali del matrimonio borghese, è impossibile decidere di contrarre un matrimonio secondo la legge: il suo istinto di autoconservazione, il rispetto per se stessa e la sua pretesa al rispetto da parte di suo marito, le lasciano aperta soltanto la scelta di una unione libera», ovvero una convivenza senza sottomettersi all’umiliazione del diritto civile in vigore, fra due esseri umani alla pari e che rispettano una identica morale, in cui i lavori domestici e la cura dei figli siano condivisi, in regime di separazione dei beni. Altrimenti, il matrimonio per la donna pensante è un suicidio civile ed equivale a rinunciare alla propria esistenza giuridica.
Pertanto, occuparsi di altro senza toccare prima il Codice Civile è come, argomenta la giurista, preoccuparsi delle finestre di un edificio prima che i muri portanti siano innalzati. Nei suoi termini, se la questione femminile è questione di come sostentarsi, ancora prima però è una questione di cultura, ma soprattutto, alla radice, è una questione di diritto.
Augspurg resterà una pacifista a oltranza, ma la sua prosa cristallina marcia come una legione, serrata: azzanna il lettore, lo disarma, lo travolge e lo porta alla fine dell’articolo.
Augspurg chiama al boicottaggio del matrimonio.
Per chi pensa poi che il matrimonio abbia a che fare con l’amore, Augspurg si sbilancia sul tema in poche righe discrete: l’amore è un segreto fra due esseri umani. E così chiude ogni curiosità verso il proprio legame con Lida Gustava Heymann, durato quarant’anni di lotte politiche, viaggi, convivenze e concluso con la loro morte nel 1943. Si può restare perplessi davanti alla reticenza su un tema così centrale nella sua vita come l’omoaffettività, da parte di una altrimenti combattiva su ogni fronte.
Non bisogna dimenticare però che dal 1871 il § 175 del Codice Penale punisce l’omosessualità maschile. E può comportare la perdita dei diritti civili, del titolo di dottore, del diritto di voto, dell’eleggibilità. August Bebel si era battuto nel Reichstag già nel 1898 per l’abolizione del paragrafo. Con un giro di vite, anziché abolirlo, il Reichstag nel 1909 lo estende anche alle donne, includendolo fra i reati con detenzione fino a sei mesi. Schierarsi su questo fronte implicherebbe per Augspurg esporsi al carcere e, nel caso della vittoria del movimento suffragista, alla privazione dei due principali poteri sociali appena conquistati: il riconoscimento dell’istruzione superiore e il diritto di voto.
Quando non vengono accolte le modifiche al Codice Civile, il 29 giugno 1896, migliaia di donne si raccolgono nel Konzerthaus di Berlino. È la prima manifestazione di protesta femminista in Germania. Alcuni ristoranti si ostinano a non servire le donne non accompagnate. Le attiviste organizzano nell’estate 1896 viaggi di protesta attraverso tutta la Germania, il Frauenlandsturm, la cosiddetta ‘leva in massa delle donne’: distribuiscono volantini informativi, tengono conferenze nei villaggi per informare le donne sui loro diritti, incoraggiandole a usarli. Ma è la richiesta del diritto di voto alle donne a costituire il cuore dei loro sforzi.
Il suffragio che includa le donne è imprescindibile per le radicali. Se nell’etimologia di ‘suffragio’ risuonano il latino frangere, che evoca i cocci di vasellame infranto usati come scheda elettorale, posti nell’urna, e anche fragor, l’onda sonora dell’acclamazione, possiamo intuire la centralità di questo concetto per le femministe: per manifestare la propria volontà si deve infrangere la regola del silenzio ed entrare nella dimensione rumorosa di fisica, piena presenza pubblica.
Sembra soltanto etimologia, e invece è una bomba.
Intanto Augspurg nel luglio 1897 a Zurigo sostiene la tesi, diventando la prima laureata tedesca in diritto. Tornata a Berlino, setaccia i codici pretendendo dalle autorità che dove compare la parola ‘uomo’ sia da intendersi automaticamente ‘essere umano’, includendo il femminile.
Il lavoro di Augspurg come giurista consisterà nell’incunearsi fra le possibili linee di frattura delle norme giuridiche, per far esplodere la compattezza di un sistema spudoratamente androcentrico e così creare lo spazio affinché l’Impensabile diventi semplicemente Non-ancora-pensato, e poi prenda gradualmente forma nel Reale, fino a diventare Normale. Si tratta di creare una massa critica, percepibile.
Alla fondazione, l’1 gennaio 1902, del primo movimento per il diritto di voto alle donne, che si collega alla rete internazionale, segue l’azione. Trentasei donne si presentano dalla seconda carica dello Stato dopo il Kaiser: la delegazione, ricevuta il 20 marzo 1902 dal Reichskanzler Bernhard von Bülow, chiede di eliminare in ogni Land il divieto di associazione, di abolire il § 361,6 del Codice Penale, di permettere l’immatricolazione alle ragazze e che delle donne collaborino alla riforma scolastica.
Secondo un moderno programma che punta sull’impatto visivo e la presenza mediatica, le femministe stampano francobolli pubblicitari: sullo sfondo di un orizzonte con il sole nascente, circondata da raggi che sembrano accompagnarne il movimento, si staglia una giovane, in un abito semplice, ispirato alla riforma dell’abbigliamento, che solleva le braccia ostentando delle catene spezzate. I pugni sono compatti, lo sguardo è verso l’alto, l’espressione seria e contenuta, ma rilassata, in un momento che sembra già raccontare la solenne consapevolezza della vittoria.
Intanto Marie Curie, vincendo nel 1903 il premio Nobel per la fisica, dimostra che le donne sanno fare ricerca. Nel 1905 il premio Nobel per la pace lo riceve Bertha von Suttner, autrice di un bestseller pacifista tradotto in una dozzina di lingue. A questo punto della storia, soltanto quattro luoghi al mondo prevedono il diritto di voto per le donne: Norvegia, Finlandia, Australia e lo stato dello Utah, negli USA.
Nel giugno 1908 Augspurg e Heymann partecipano a un corteo di suffragiste a Londra: più di mezzo milione di donne di ogni ceto ed età nel Women’s Sunday, la più imponente manifestazione della storia inglese, riporta The Times. Le azioni spettacolari delle inglesi – arringano dai marciapiedi in piedi sulle sedie, sfilano in massa esibendo i colori di riconoscimento, bianco verde e lilla, rifiutano sedute formali – piacciono a Augspurg. Quando però il governo fa muso duro alle loro richieste, oltraggiandole apertamente, le signore passano alla guerriglia urbana: sassaiole contro le finestre del governo, negozi incendiati. A centinaia vengono incarcerate come criminali comuni, in durissimo regime di detenzione: alle detenute in sciopero della fame viene imposta la nutrizione forzata.
In Germania, il sostegno di Augspurg alle suffragiste non trova consenso.
Mentre la maggioranza delle associazioni femministe si schiera entusiasticamente per la guerra, Anita Augspurg è fra le poche organizzatrici della conferenza femminista e pacifista del 1915 a L’Aia. Arrivano più di mille partecipanti da dodici paesi. Chiedono disarmo generale, arresto di interessi privati nella produzione di armi, educazione della gioventù alla pace, uguaglianza giuridica per le donne in ogni campo. Denunciano un tabù ancora innominato: gli stupri che accompagnano ogni guerra.
Sarà il punto di partenza di un movimento di estensione mondiale, cui seguirà la creazione della Lega Femminile Internazionale per la Pace e la Libertà (IFFF) nel maggio 1919 a Zurigo, come reazione alle clausole dei trattati di pace imposti ai paesi sconfitti. Tutte concordano sulla necessità di smantellare l’organizzazione capitalista degli Stati, se si vuole garantire una convivenza pacifica dei popoli. I debiti di guerra infatti implicano delle conseguenze a lungo termine: «una intera generazione di quasi cento milioni di persone nel cuore dell’Europa verrà condannata alla miseria […] cosa che dovrà degenerare in odio e anarchia».
Al ritorno vengono trattate come traditrici della patria. Perquisizioni, intercettazioni, censura postale, divieto di manifestazione, diventano esperienze quotidiane. Continueranno l’attività illegalmente.
Da questo momento Anita e Lida compaiono insieme, una coppia simbiotica, Anilid – firmeranno così molti articoli. Diventano vegetariane e si lanciano nella causa animalista: allo scoppio della Grande Guerra chiedono la fondazione di corpi di civili che diano il colpo di grazia ai cavalli feriti in battaglia. Ma si schierano anche a favore di una macellazione meno brutale, contro la corrida e a protezione delle talpe. Non sarà soltanto il loro intransigente radicalismo a isolarle: molte femministe trovano inadeguata questa dispersione di forze.
Ma per Augspurg e Heymann tutto si tiene: femminismo, pacifismo, animalismo, cosmopolitismo. D’altra parte è un intero mondo che va rifondato e riscritto, se la prima Guerra Mondiale è in fondo «il rantolo di agonia del patriarcato».
Durante e dopo la guerra, in tutta Europa si moltiplicano gli spazi pubblici per le donne. Il 12 novembre 1918 il diritto di voto passivo e attivo per donne e uomini è una realtà. Con questa data svanisce la ragion d’essere delle associazioni per il suffragio femminile e con essa anche l’anima del movimento femminista borghese radicale. Ma per Augspurg e Heymann non si conclude l’osservazione militante della società: interverrà una ridefinizione degli scopi, concretizzata nel febbraio 1919 con la fondazione della rivista Die Frau im Staat. Il discorso femminista diventa marginale: le due attiviste non tematizzano più la posizione della donna nella società. ‘La donna nello Stato’ si percepisce membro responsabile del corpo sociale e integrata nello stato democratico, si attribuisce diritto di parola critica e dovere di intervento.
Esigono la completa autonomia del loro periodico, che costerà loro un vero patrimonio, fino al 1933, quando verrà chiuso con l’ascesa di Hitler.
Alla proclamazione della Repubblica consiliare bavarese, nel novembre 1918, Augspurg diventa membro del Parlamento provvisorio. Le proposte per la nuova costituzione includono equo diritto di famiglia, legittimazione dei figli naturali, depenalizzazione dell’aborto, stesso stipendio per lo stesso lavoro e stesso sussidio di disoccupazione per donne e uomini. Augspurg e Heymann hanno sostenuto Kurt Eisner, rivoluzionario e giornalista socialista, nelle precedenti lotte e lui le accoglie nell’esperimento politico represso sanguinosamente pochi mesi dopo. In un volantino nazionalista, le caricature dei politici somigliano a minacce di morte.
Dopo la guerra, dopo la scia sanguinosa lasciata dall’esperienza di Monaco, in Anita Augspurg l’illuminismo va a pezzi, così come la fiducia di trovare nel Parlamento un interlocutore razionale e democratizzabile. Va a pezzi in Anita la fiducia, coltivata in cinquant’anni di tenacia argomentativa, che siano i mezzi discorsivi a potersi misurare con il magma scuro e tentacolare che si protende nel ribollire della vita tedesca, che alle argomentazioni ordinate delle conferenze pacifiste oppone interruzioni a colpi di manganelli, urli, fischi. Per ora la polizia allontana gli sgherri di Hitler, ma è questione di tempo.
Gli articoli di Augspurg restano quelli di una giurista, ma vi si infiltra un elemento emotivo, ideologico, che a volte scalza la tenuta razionale. Usando a favore del femminismo gli argomenti del darwinismo sociale e dell’eugenetica, i suoi testi si allontanano dal suo originario spirito illuminista.
In pagine che sorprendono, perché non hanno l’ironia di altri suoi scritti, Augspurg nel 1920 porrà all’inizio di ogni cultura una felice età matriarcale priva di violenza. «Il governo violento dell’uomo ha creato la miseria del mondo, è un principio sterile, mortifero […]. Mettetelo in dubbio! Questo è il primo comandamento del nuovo catechismo. L’essenza della donna redimerà il mondo, è feconda, creativa […]. Abbiate fiducia nel fatto che è vicina all’originaria potenza divina […]! Questo è il secondo comandamento […]».
Resta che per Augspurg il nuovo ordine sociale non è il rovesciamento del dominio sul maschile da parte del femminile, ma si basa sull’abolizione dei rapporti di sottomissione, in una società androgina, composta da esseri umani nella loro perfetta compiutezza. Augspurg scinde il sesso biologico da ciò che la società gli attribuisce, quello che oggi chiamiamo ‘genere’.
Già prima del putsch di Monaco del novembre 1923, Augspurg e Heymann chiedono l’espulsione di Hitler dalla Germania. In un elenco nazista con le persone da liquidare dopo la presa del potere, le due compaiono in cima.
Eppure, non smettono di rivolgersi alle autorità, in cui vedono ancora l’incarnazione dello stato di diritto. E’ in quel momento che un ministro bavarese lascia intendere che preferisce Hitler a un governo socialista, contaminato da due facinorose pacifiste.
Nel luglio 1932 i nazionalsocialisti, con il 37,4 per cento, sono il partito più forte nel Reich – e tuttavia nello stesso anno le pacifiste chiedono il disarmo mondiale: un’onda in controtempo nella storia.
Quando, il 22 gennaio 1933 Augspurg e Heymann partono per il consueto viaggio invernale, non sanno che non torneranno mai più in Germania, che Hitler il 30 dello stesso mese sarà nominato cancelliere e che la legge sui pieni poteri del 23 marzo decreterà la dittatura. Moriranno in esilio a Zurigo, in una soffitta, in completa povertà: Lida Gustava Heymann di cancro al seno nel luglio 1943, Anita Augspurg, ormai demente, nel dicembre dello stesso anno.
Scrive Heymann nel 1941, nella loro doppia autobiografia, quando le autorità svizzere avranno imposto ai profughi l’assoluto divieto di lavorare e di essere politicamente attivi, quando i nazisti, grazie alle leggi per l’esproprio dei beni dei comunisti del 26 maggio 1933 e dei beni dei nemici del popolo e dello Stato del 14 luglio 1933, avranno confiscato il loro patrimonio fino all’ultimo mobile: «Se avevamo perso la nostra patria (Vaterland), il mondo doveva diventare più che mai una matria (Mutterland)».
Anita Augspurg ha trasmutato in sé i molti ‘senza’ delle donne: è senza padrone, senza tutore, addirittura senza intermediario di fronte alla legge, senza autorità sopra la propria ragione. Senza mezze misure. Anche per la collaborazione nel movimento femminista si riserva di decidere su ogni singolo punto in autonomia.
Einzelgängerin è la parola tedesca che descrive questa sovranità e il coraggio di andare da sola dove il suo pensiero la conduce. Si può infine depurare questo concetto dalla connotazione negativa e restituirlo alla gloria dell’avventura. Con una nota in più, perché al femminile.
Soprattutto, Anita assale le menti di piccola gittata. Non perdona le deboli, che tremano per un permesso che in realtà è già un diritto. Irride la logica di sottomissione penetrata nelle strutture di pensiero e comportamento femminili: l’addomesticamento quando si dovrebbe fare propria la ribellione tenace, a oltranza. Odia i minuscoli di cuore. Quelli che scendono a patti con l’oppressore. Lei sa che cercare il compromesso con il male avvelena ogni meta. Lei sa che il male va combattuto senza concedere avvicinamenti.
Anita Augspurg ha depotenziato con le sue stesse mani la possibilità di essere considerata un’icona del femminismo. Alcuni suoi testi sono troppo in debito con il suo tempo per essere presi senza cernita.
Oggi Augspurg verrebbe forse continuamente intervistata, sarebbe l’esperta sulle cui opinioni indipendenti e critiche, certo anche non condivisibili, il lettore cerca di strutturare una propria idea, sia pure per contrappunto. Avremmo in lei la giornalista di approfondimento che corriamo a consultare. Terrebbe una rubrica su una testata prestigiosa.
Invece, di Augspurg non c’è una figura a tutto tondo. La sua biografia è sbriciolata e, come i suoi scritti e la potenza del suo personaggio, si stempera nella massa. È l’individualità sciolta da legami quello che manca alla figura femminile. Che si stagli isolata e sovrana, come fanno da millenni gli uomini per se stessi, con le proprie statue equestri.
A cavallo, d’altra parte, ci sono pochissime signore.
Una sua omonima, Anita Garibaldi al Gianicolo, pur con pistola in mano e bimbo al seno, pur sul cavallo rampante, monta – seduta poco plausibilmente composta – all’amazzone, gambe elegantemente da un lato.
Manca una statua di cavaliera che monti in selvaggio Herrensitz.
Ad Anita Augspurg sarebbe piaciuta. Chissà.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin