La linea 4.1, che i nostalgici ancora chiamano 41, in un’ora circa fa un percorso circolare attorno a Venezia. Nei primi giorni alle scuole medie, come mia sorella tre anni prima, prendevo quel battello alla fermata Arsenale alle 7.24. A Sant’Elena salivano due miei compagni e alle 7.54 arrivavamo alle Fondamente Nove, dopo aver circumnavigato tutta la zona dell’Arsenale.
A bordo si faceva un gran casino e si combattevano duelli all’ultimo sangue con i game-boy color, collegati con il cavo: tra fuoco-bomba e iper-raggio, il mode colosseo di Pokemon non annoiava mai. C’era solo un gran problema, che ancora oggi a volte condiziona i miei mille spostamenti: la cacca.
Sui battelli, eccezion fatta per le motonavi che si muovono tra un’isola e l’altra, non ci sono i bagni. E tenere la cacca per mezz’ora, soprattutto di prima mattina, era per me impresa titanica. La situazione divenne insostenibile quando un giorno dovetti per forza scendere a Sant’Elena, l’area verde di Venezia, dove sorge anche lo scenografico ma ormai vecchissimo Stadio Penzo. I due unici bar della zona erano chiusi e fui costretto quindi a nascondermi tra i cespugli per liberarmi delle mie ansie: per fortuna nessuno mi notò, ma dall’indomani decisi di prendere in mano la situazione. Io e i miei amici decidemmo di salutare la linea 4.1 e di andare a scuola a piedi, con buona pace della mia esile schiena, costretta a portare lo zaino Eastpak carico di libri. Un percorso di circa mezz’oretta tra le calli veneziane, sul quale mi ero costruito una mappa mentale di tutti i bar a intervalli di due-tre minuti di cammino, per non rischiare di ritrovarmi impelagato in un eventuale allarme marrone.
Tra le righe di questo aneddoto si nasconde una delle caratteristiche che amo della mia Venezia: i bambini possono girare in strada da soli. Alle elementari i miei genitori mi accompagnavano in classe solamente il primo giorno della settimana, visto che avevo la cartella troppo pesante – per il resto, non serviva. E quando alle 16 finivo la scuola, potevo stare in campo a giocare a calcio con i miei amici, a oltranza. Il mio San Siro, dai 3 ai 10 anni, era campo San Giovanni e Paolo: durante le partite, le porte erano una sull’ospedale civile e l’altra sul monumento a Bartolomeo Colleoni. Se invece si giocava a tedesca o a tiri in porta, si faceva gol nelle intercapedini della splendida basilica, con vecchie lapidi bianche a segnare la traversa. Ci fermavamo un secondo quando passava troppa gente e quando la palla cadeva in canale aspettavamo che arrivasse una barca a ridarcela, oppure, se era ancora a portata salivamo noi (o i nostri genitori) sulle barche ormeggiate e ci chinavamo per prenderla. Credo che mio padre abbia il record di Super Tele e Tango recuperati dal Rio dei Mendicanti. Una volta, distendendosi su una barca, ha perso dal collo i miei occhiali, che mi stava tenendo mentre giocavo. Siamo stati un’ora con un volenteroso pescatore a cercare di recuperarli con il retino, ma nulla. Non sono peraltro gli unici occhiali che ho regalato all’acqua salmastra della Laguna: una volta, in battello tra Sant’Elena e i Giardini, mi sporsi e… pluff!
Ci sono mille posti e scorci di Venezia che amo. Abito nella zona della Biennale, vicino a via Garibaldi, l’unica via esistente in laguna e uno dei posti rimasti ancora abbastanza autentici e veneziani (anni fa era il luogo del contrabbando). Quando torno a casa mi piace andare a far la spesa qui, dal fruttivendolo, dal macellaio, in pescheria, dove perdi ore intere aspettando il tuo turno, mentre amabili signori e signore chiacchierano, rigorosamente in dialetto, con i venditori. Perpendicolare alla via, ricca di bacareti, le tipiche cicchetterie veneziane, molto caratteristici, c’è il viale Garibaldi (altro unicum nella toponomastica lagunare), un bellissimo viale alberato con all’inizio uno stagno in cui vivono pesci e tartarughe (sempre gli stessi da quando sono piccolo, credo) e alla fine la Serra dei Giardini: un edificio liberty metà caffè e metà vivaio dove ho festeggiato la mia laurea triennale con un’indimenticabile serata. Arrivati sulla riva, c’è una casa bellissima: ha delle finestre e dei merletti sul tetto in (azzardo) stile gotico, una veranda al piano terra e, al primo piano, una terrazza completamente inaccessibile alla vista, per via delle tante piante che vi crescono.
Io e i miei amici, quando tornavamo la notte dal Lido, dove andavamo tutte le sere d’estate a fare nulla, scendevamo ai Giardini, perché l’ultimo battello che fermava all’Arsenale era alle 23.06, ma il nostro nulla ci teneva sempre impegnati fino a tardi. Scendendo ai Giardini dalla linea N, il notturno, fantasticavamo su quella casa, che aveva quasi sempre gli scuri chiusi e apparentemente nessun proprietario. In particolare il mio amico Frenci voleva a tutti i costi comprarla da grande. Anni dopo, ho scoperto dalla mia ragazza, Camilla, che i proprietari di quella casa sono dei ricchi signori suoi concittadini, modenesi (strano) e che lei c’era pure stata una volta.
Comunque, tutto questo per dire che sì, ci sono posti meravigliosi qui, ma un “luogo preferito” di Venezia forse non esiste. O meglio, io son sicuro che ci sia, ma dopo molte ricerche mi sono dovuto convincere di averlo sognato. Si tratta di una grande scalinata nascosta dietro Calle Larga XXII marzo, nel cuore di Venezia. Una trentina di gradini ampi ed eleganti da cui si accede a un palazzo: non so come mai sia stampata nella mia mente. Nelle prime uscite romantiche con Camilla, quando lei era una studentessa fuorisede e io la conquistavo mostrandole Venezia e facendola ubriacare, siamo andati alla ricerca della scala, ma senza successo: vi prego di scrivermi in privato se voi l’avete vista.
Sono un veneziano molto atipico: quasi astemio, non bevo lo spritz, non mi piace il prosecco. Durante l’epidemia di peste che si era diffusa nel Trecento a Venezia i contagiati erano discriminati molto meno degli astemi oggi: maledette le mie papille gustative! D’estate, al Merca’ del Lido, alle 19, non sto bevendo un Old fashioned o un Bellini, ma un the alla pesca, oppure un succo di pera.
Il Merca’ del Lido di Venezia, tappa obbligatoria dopo le giornate passate in spiaggia a giocare a tedesca (che da queste parti chiamiamo tecnic), è un’osteria con fuori dei tavoloni di marmo sotto una bellissima tettoia in muratura. Dicono che qui si beva uno dei migliori spritz della Laguna (per i problemi di cui sopra, devo fidarmi del giudizio altrui) e soprattutto si mangino cicchetti buonissimi (e questo posso confermarlo). In particolare, assaggiare le sue polpette (2 euro l’una, quindi da gustare con calma) rientra in quelle esperienze mistiche tipicamente veneziane.
Dalle mie parti, comunque, è tuttora in corso un lungo dibattito su quale sia la polpetta migliore della città. Se dobbiamo lasciare la decisione all’algoritmo che guida le nostre vite, non ci sono discussioni su quale sia la miglior polpetta: cercando “polpette Venezia” su Google il primo risultato porta al bacaro Alla vedova, vicino alla Ca’ d’Oro. Nulla da dire, sono spettacolari, anche se le eviterei nel caso doveste limonare, visto che sono 40 per cento carne, 40 per cento aglio, 20 per cento ingrediente segreto. Se invece vi piace il piccante, andate sulla polpetta Ae do spade, una delle mie osterie preferite, tra l’altro: anche per noi veneziani non campanilisti si fatica ad allontanare la tentazione di raccontare le eccellenze. Dobbiamo sempre ricordare che No ghe xé ostreghe, né canestrei, semo i più bei, semo i più bei.
Ogni volta che torno a Venezia, il contapassi del telefono supera quota 10mila attorno all’ora di pranzo: si cammina tantissimo, qui. L’idea di poter raggiungere tutti i posti a piedi per i veneziani è una forma mentis. Ricordo che una volta a Roma io e i miei genitori abbiamo imboccato a piedi un cavalcavia, rischiando di essere investiti: avevo letto che la nostra destinazione distava quarantacinque minuti a piedi, ma non avevo pensato che forse non fossero, i quarantacinque minuti, tutti camminabili.
Per me Venezia, è casa mia, il luogo in cui sono cresciuto e da cui i miei amici vanno e vengono, da sempre un porto di mare. Da me si guardano le partite dell’Italia e quelle del Milan (solo io, mio padre e Tommi, gli altri sono tutti juventini); si organizzano le cene di Natale, le serate alla Play, i ritrovi per prenotare le vacanze, le grigliate in giardino: il 2153 del sestiere Castello è un viavai continuo, soprattutto ora che la stanza di mia sorella Micol è affittata. E oggi, quando torno, a volte devo dormire sul divano, visto che Micol nel frattempo ha messo su famiglia e si rischia l’overbooking in certi weekend. Bellissimo. Il record è stato battuto nell’estate 2013, quando ho invitato settanta persone per una festa in casa stile Project X: i vicini ancora non me lo perdonano.
Un’altra dimora veneziana a cui sono molto affezionato è la cosiddetta Casa Modena, dove vivevano Camilla e altre tre ragazze modenesi, ai tempi dell’università. Era il rifugio preferito di noi ragazzi, che trascorrevamo le nottate tra giochi da tavolo e vino (gli altri, ovviamente), oppure facendo un po’ di vita da studenti, lì in zona, fra biliardi, il Paradiso al lunedì: Venezia non offre grande intrattenimento ai ragazzi. I club sono tutti in terraferma e appena qualcuno prova a suonare musica dal vivo oltre le 21.15 i simpatici veneziani, età media trecentododici anni, fanno chiudere tutto. Forse anche per questo qui si beve tantissimo: quando esci, puoi solo andarti a sbronzare nei baretti (e in questo caso sì, c’è molta scelta).
Terza e ultima dimora del cuore è sicuramente la casetta al Lido dei miei nonni, in estate residenza al mare dei genitori di mia mamma, durante l’anno punto d’incontro per amori e amici di noi nipoti. Una bellissima terrazza e dietro, a due passi, i Murazzi (una spiaggia libera con sabbia e enormi massi bianchi). Se mi chiedessero dove voglio vivere da grande, sarebbe lì: colazione in terrazza con i giornali tutte le mattine e biciclettata sul lungomare. Magari mi sparerei dopo due mesi, ma da marzo a novembre adoro il Lido di Venezia.
In questo insensato flusso di coscienza, devo fare un altro coming out che potrebbe mettere in dubbio il mio status di veneziano: io e le barche non andiamo troppo d’accordo. O meglio, credo che gironzolare per i canali su un barchino sia una delle dieci migliori esperienze al mondo, ma non sono certo un uomo di navigazione. Un po’ penso sia attitudine (stare fermo, confinato in uno spazio di tre metri quadrati, non fa per me), un po’ abitudine (da piccolo non ho mai avuto la barca, a differenza di altri amici cresciuti con la laguna sotto i piedi). Crescendo a Venezia mi sono comunque avvicinato al magico mondo dei barchini, grazie prima a mio cugino Checco (primatista cittadino di multe, ha fatto Venezia-Milano da solo su un Boston Whaler di 4 metri) e poi ai miei amici Tommi (ha due barche che sono affondate tre volte, oggi solca la laguna con la storica Perla nera) e Fede (imperatore del trasporto su acqua a Venezia, ha una maestosa flotta di barche da lavoro).
A 18 anni ho provato a mettermi in proprio, comprando una barchetta con il mio amico Alvise, quando ancora non era un consulente finanziario della City che prende venti aerei al mese e guadagna cento sterline l’ora. Nel 2010 abbiamo comprato da un gondoliere una patanea, una barca di quattro metri in vetroresina con il fondo piatto, di color azzurro chiaro e con due tratti distintivi: un impianto stereo che pompava in maniera folle e un motore che si divertiva a lasciarci in mezzo alla laguna. Si trattava di un quindici cavalli della Mercury comprato dal signor Nazareno, che era venuto apposta da Ancona per portarcelo, dopo lunghe trattative orchestrate telefonicamente da un mio cugino. Ricordo che alla fine, a settembre, per un totale di circa 1.500 euro, io e Alvise (piloti inesperti, scarsi nelle manovre e con solo il nodo piano tra le conoscenze marinaresche) avevamo la nostra barca. C’era solo un problema: dovevamo lasciarla a Malamocco (in fondo al Lido) a casa della sua ragazza di allora. I posti-barca dove ormeggiare a Venezia sono merce rarissima, quasi impossibile da ottenere senza conoscenze/passaggi di consegna/culo. Per questo, le volte che volevo andare a farmi un giretto con la mia patanea azzurro chiara, dovevo andare al Lido e prendere l’autobus fino a Malamocco. Le volte che l’ho portata a casa, ormeggiandola in posti di fortuna, ho preso sempre delle multe. Per questo, per il motore e per il trasferimento del mio socio in Inghilterra, dopo un annetto abbiamo venduto il nostro bolide a un cuoco veneziano appassionato di barche e di alcol. Ogni tanto la vedo ancora in giro, la nostra barca, dev’essere passata ancora di mano, e soprattutto qualcuno l’ha dipinta di fucsia. Hanno cambiato il motore.
Amo Venezia per la sua atmosfera e per il suo essere il luogo in cui alla fine torno sempre. Nella vita, per dirla alla Barney Stinson, sono del partito new is alwyas better, ma a Venezia l’equazione si capovolge, i cambiamenti sono spesso in peggio. Quando torno e vedo l’ennesima bottega storica soppiantata da un negozio di souvenir mi viene il magone. Le amministrazioni faticano a trovare la (difficile) ricetta per salvare questa meravigliosa isola. Di sicuro non sta pagando la scelta di spostare tutti gli uffici in terraferma e di non contingentare i negozi, spingendo tutti a lavorare solo con il turismo (quello mordi e fuggi giornaliero, principalmente) e con le affittanze ai forestieri: ci vorrebbero decisioni coraggiose.
Ultimamente girano dei manifesti di un comitato di residenti con lo slogan Bella, ma ci vivrei, in contraddizione con chi pensa che Venezia sia solo un posto da cui passare. In campo San Bortolo, ai piedi del ponte di Rialto, una farmacia ha in vetrina un tabellone elettronico con un numero rosso a cinque cifre: ci sono passato l’altro giorno, segnava 53mila e qualcosa. Sono gli abitanti di Venezia, che calano al ritmo di mille l’anno. Quando ero piccolo io, erano 65mila.
Quando era piccolo mio padre, erano oltre 100mila.
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