Lewis Carroll lo aveva capito. Il viaggio onirico di una delle bambine più famose della letteratura, Alice nel paese delle meraviglie, costretta a superare le continue sfide dei propri traumi, immersa in un ambiente fatato e fuori di testa, ci spiega come la mente sia un posto nel quale è davvero difficile intrufolarsi. Apriamo un piccolo varco nella chiglia della nave solitaria del nostro inconscio e ci spingiamo dentro, come vermi che entrano piano nella carne dei pensieri. Ciò che però Carroll non fu in grado di raccontarci è l’aspetto terrificante di quei mostri che la bambina Alice è costretta ad incontrare durante il viaggio nella sua fantasia.
Ci viene allora aiuto una donna cecoslovacca, che il 4 settembre del 1934, su un lettino di ospedale di una Praga non ancora invasa dal nazismo, partorisce, non senza dolore, il più grande genio surrealista del nostro secolo: Jan Švankmajer. Un bambino solitario e ingenuo che si trasforma pian piano, da sognatore, in artista, imparando a manipolare la materia dei suoi pensieri.
Nel 1988, un anno prima della rivoluzione di velluto che avrebbe portato alla dissoluzione del regime comunista cecoslovacco, Švankmajer dà vita a quella che possiamo considerare la più inquietante e reale rappresentazione cinematografica della storia raccontata da Lewis Carroll. Non tutta però, solo: “Qualcosa di Alice”.
Il film di cui stiamo parlando è considerato un unicum assoluto, come d’altronde tutti i lavori visivi realizzati da Švankmajer; per via delle trame fortemente influenzate dalle dinamiche sociali della propria città natale, e per lo stile surrealista anche, in cui oggetti inanimati prendono vita grazie alla tecnica dello stop motion.
Nonostante in Italia il suo nome non si sia mai imposto oltre una ristrettissima nicchia di appassionatia, Švankmajer viene considerato un pioniere nel suo genere. Il giornalista e critico cinematografico del New Yorker, Anthony Lane, di lui scrisse: «Il mondo si divide in due categorie di diversa ampiezza… quelli che non hanno mai sentito parlare di Jan Švankmajer e quelli che hanno visto i suoi lavori e sanno di essersi trovati faccia a faccia con un genio.»
Personalmente mi rispecchio in una terza categoria di persone, quelle che non solo hanno guardato con ammirazione i film di Švankmajer, ma che anche ne percepiscono a colpo d’occhio il significato recondito, come se i tormenti vissuti dal regista per riuscire a esternare una tale quantità di sostanza artistica fossero gli stessi provati durante la mia infanzia assurda.
Svankmajer è una sorta di psicanalista che ipnotizza con le immagini per condurci dentro la tenda della nostra oscura fanciullezza, quella in cui le ombre riflesse sulle lenzuola tirate potevano apparirci inizialmente come dei cavalieri alla riscossa, che con il calare della notte sarebbero però diventati mostri indomabili, pronti ad ucciderci se solo ci fossimo mossi.
Ora (direbbe lo Švankmajer psicanalista) immaginatevi di essere di nuovo bambini, all’età di sette anni. Immaginatevi di giocare sul pavimento della soffitta in cui vi nascondevate circondati dai vostri giocattoli. Ci sono le bambole con gli occhi scuciti, e quelle di ceramica scrostata che vi ha regalato la nonna. Ci sono cianfrusaglie ovunque, ragnatele, animali imbalsamati e barattoli che contengono oggetti che non capirete mai a cosa servano. La casa dovrebbe essere un posto sicuro, ma la vostra sembra potervi crollare addosso da un momento all’altro: la soffitta non è il luogo adatto per una bambina dolce come voi. Eppure quell’antro impolverato è ormai diventato il piccolo mondo dove tutto è possibile. Nessuno può venire a prendervi. Qui il soffitto è troppo basso per i grandi; se volessero entrare, dovrebbero inginocchiarsi alla vostra altezza. È il vostro rifugio magico, pieno di amici strani ai quali avete dato un nome.
Eppure oggi qualcosa sembra aver smesso di funzionare. Siete intenti a lanciare dei piccoli sassolini che tenete in grembo cercando di centrare la tazza del the che state bevendo in compagnia delle vostre bambole. In realtà state immaginando di lanciare i sassi dentro l’acqua mentre ve ne state con vostra madre lungo la riva di un fiume, anche se sapete bene che quella è la vostra fantasia, e che vostra madre non è li con voi. Nessuno è li con voi. È allora che ve ne rendete conto davvero: siete figli unici, più soli che solitari. E nonostante vi sforziate di sentire qualche parola uscire dalle bocche di quelle bambole, nulla si muove in quella stanza, a parte voi. La noia vi monta in gola come una marea di plastilina grigia che prova a soffocarvi, nel puzzo di una realtà alla quale avete sempre rifiutato di credere: quella dove le bambole non parlano, quella dove siete voi a fare la vocina che risponde alle vostre domande. Capite che il mondo fatato della vostra mente sta perdendo gli ingranaggi, e non vi resta che l’orologio rotto del mondo che gli adulti vi hanno lasciato ad aggiustare. Siete tristi, perché capite che state crescendo. E più crescete, più venite dominate dalla realtà. Quella attorno a voi non è una stanza magica, ma una semplice soffitta puzzolente.
E’ una condizione che fortunatamente dura solo qualche minuto, finché non venite improvvisamente distratte da un’insistente scricchiolio che proviene della teca di vetro del vostro coniglio imbalsamato. Il rumore è lo stesso dei chiodi che stridono quando vengono estirpati dal legno bagnato. Vi avvicinate, un po’ spaventate, un po’ curiose. Dentro la teca vedete il coniglio imbalsamato svegliarsi a fatica, come accortosi solo all’ultimo momento di avere un impegno urgente e irrimediabile. Il coniglio spacca i chiodi usando gli incisivi mezzi marci, e si guarda attorno con gli occhi di plastica e senza espressione. Fortunatamente non vi nota. E credendo di essere solo, sempre più soffocato dalla fretta, si riveste con gli abiti di velluto rosso e pizzo bianco che teneva nascosti in un cassetto, sotto l’erba finta. Muovendosi come una marionetta scricchiolante, intasca una grande forbice di ferro, spacca il vetro della teca che lo imprigionava e, dopo aver controllato l’orologio da taschino che teneva infilato dentro a un taglio nel costato riversante segatura, si avvia di fretta lungo un campo di terra divelta e senza vegetazione, per poi sparire dentro il cassetto di una scrivania di legno.
“Oh dear oh dear i shall be late.. said the white rabbit”
Il mondo della piccola Alice disegnato da Švankmajer e interpretato da una giovane Kristýna Kohoutová, è un posto in cui le scrivanie rappresentano le tane dei vari animali che la bambina incontra lungo suo viaggio; il passaggio nascosto che porta dentro alla tana del Bianconiglio, ma anche il luogo in cui dimora il Brucaliffo, mostrato come un calzino rigonfio con delle vere protesi oculari al posto degli occhi e la dentiera della nonna invece del sorriso. Le scrivanie sono anche le custodi di piccoli e inattesi segreti: una chiave minuscola per aprire una porta sconosciuta oppure il calamaio di inchiostro nero che la bambina sceglie di bere tutto d’un fiato, per poi trovarsi rimpicciolita, tramutata in una bambola di ceramica, ma con le sue stesse fattezze. Le scrivanie diventano insomma una sorta di elogio all’istruzione e allo studio, elementi necessari per la crescita individuale, capaci di fornirci le armi necessarie a sopravvivere al mondo reale che spetta a ognuno di noi, una volta usciti dalla spensieratezza dell’infanzia.
Dentro quel caotico muoversi di creature, di ambienti ostili e grotteschi che è l’immaginario della bambina Alice, ogni cosa, animata o inanimata che sia, porta con sé un proprio suono. I sassolini che sbattono in tonfi sordi sul bordo della tazza da thè, che potrebbe rompersi ad ogni colpo, sono il presagio di un gesto violento nei confronti di qualcosa di fragile. Cosi come lo scricchiolio delle articolazioni del Bianconiglio. Il vento che fischia creando il vuoto attorno agli oggetti. Un orologio che continua a ticchettare, segnando il tempo che scorre in un angosciante corsa verso la salvezza che non arriverà mai. In questo Svankmajer è un esteta prima che un regista, un compositore di immagini che attraverso una quantità incalcolabile di suoni esasperanti chiude lo spettatore in un viaggio verso l’estremo del deliro.
Il terrore ha il suono dei vermi che strisciano, degli uccelli che strappano gli occhi dalle carcasse in decomposizione. Persino l’acqua ribolle densa come una sabbia mobile, un fluido melmoso che inghiotte ogni cosa. Gli oggetti si animano con rumori violenti, secchi, stridono come il rimbombare delle ossa che si rompono dentro all’atrio di una cattedrale di pietra liscia.
Švankmajer, in ogni sua produzione cinematografica, si affida a vibrazioni sonore prepotenti, che vengono affiancata a immagini rapidissime e a continui cambi di prospettiva. Il suo compito è quello di creare una droga visiva naturale, un’indigestione di zuccheri espressivi che spinge le menti dei bambini a domandarsi se le bambole si muovano davvero durante la notte, se la carne che si erano rifiutati di mangiare possa prendere vita e strisciare fuori dall’immondizia per aggredirli nel sonno. Ogni singola raffigurazione dell’Alice di Švankmajer diventa terrificante per chiunque abbia un po’ fantasia e un briciolo di preoccupazione. I barattoli di latta della dispensa possono trasformarsi in contenitori di insetti, scatole maligne da cui, una volta inciso il tappo, decine di animali si riversano su tutto il pavimento, sparpagliandosi.
Nonostante le immagini ci sembrino spesso raccapriccianti, non sembrano avere alcun effetto su Alice. La bambina infatti non si scompone mai, restando un’impassibile osservatrice del delirio che la circonda; non perde la calma, l’Alice di Švankmajer, nemmeno quando un topo marinaio scambia la sua testa bionda per un’isola sulla quale riposarsi, dopo aver nuotato per salvarsi dal mare di lacrime che la bambina aveva versato poco prima, riempendo d’acqua un stanza intera. Il topolino in questione martellerà dei pali di legno nel cranio di Alice per costruire la struttura di un fuoco. Ancora niente. L’espressione della bambina cambierà soltanto quando il topolino le darà alle fiamme i capelli. Questo atteggiamento contraddittorio tra ambiente e protagonista è un bel gioco che probabilmente il regista ha scelto di attuare per spiazzare ancora di più lo spettatore. Da Salvador Dalì a Magritte, da Breton a Ernst e Man Ray, sino, appunto, a Švankmajer, ci si trova di fronte a una logica che descrive l’illogico, il continuo cadere per ritrovarsi esattamente dove si dovrebbe essere.
Švankmajer in questo film riesce a rappresentare a pieno non solo il rapporto onirico che lega i bambini con la realtà che li circonda, ma anche, attraverso un ampio universo di simbologie, a riproporre il delirante mondo di una società di adulti. La scena in cui vari personaggi si ritrovano attorno ad un tavolo per bere il thè delle cinque, si trasforma così in una critica all’isteria della ritualità e della routine capitalista. Il Cappellaio Matto, rappresentato come una marionetta di legno, continua a ripetere gli stessi movimenti: beve un thè caldo che gli si sbrodola addosso uscendo da un foro sulla schiena e inappagato richiede ad alta voce “una tazza pulita” e si sposta sulla sedia al suo fianco per bere un altro thè caldo, e avanti così finché non resteranno più tazze nuove. A quel punto una sorta di furetto si arrampica sul tavolo e lecca ogni tazza, in modo che il rito possa continuare all’infinito. Nel frattempo, il Leprotto Marzolino, rappresentato come una lepre pupazzo su una sedia a rotelle, a ogni cambio di tazza estrae degli orologi dalla teiera di ceramica, li imburra come si farebbe con una fetta biscottata e li appende ai chiodi che spuntano dal petto del Cappellaio Matto. Lo scorrere delle azioni si interrompe soltanto quando il Leprotto finisce le sue energie e si spegne. Il Cappellaio lo ricarica tramite un ingranaggio a molla posizionato sulla schiena e si continua dentro un circolo infinito e senza scopo. Le inquadrature cambiano di continuo, da strette a larghe, da strettissime a larghissime, da un personaggio all’altro, per poi tornare sul quadro precedente e poi su un nuovo personaggio. Tutto si muove in modo frenetico, veloce, scattoso. I rumori non lasciano spazio al silenzio. È il caos completo, un po’ come il nostro mondo visto dagli occhi di un bambino.
Alice viene costantemente attaccata dalle responsabilità della vita adulta che la attende. Nel libro di Carroll gli avvenimenti raccontati si svolgono nel giorno del compleanno della bambina. La sua è una fuga da ciò che la aspetta quando aprirà gli occhi. Un sogno che non capirà mai se vero o finto perché attorno a lei, al suo risveglio, ci saranno tutti i pezzi che componevano il puzzle del suo inconscio, un collage di immagini saltellanti che l’hanno morsa durante il sonno. Švankmajer ce lo mostra con il sadico trucco del surrealismo, costruendo un collage di figure disperate. Vediamo Alice lottare contro un coccodrillo con il teschio di un coniglio al posto del cranio, con la coda composta da una spina dorsale di qualche altro animale. Tutto è in decomposizione, tutto è marcio: la vita, il sogno, la paura, la realtà.
È una lezione quella che ci impartisce Švankmajer con questo film. Prima di tutto ci ricorda che l’infanzia non è ciò che ricordiamo. Poi, rivolgendosi ad Alice e a tutti noi sembra volerci dire: “Non stai sognando bambina, stai mettendo in ordine i tuoi pensieri, è questo che fa la tua mente quando dormi; ti rivela la verità di ciò che ti spaventa. Non puoi scappare alla verità, fattene una ragione. È ora che impari a far pace con il mondo di tutti i giorni; conoscilo, giocaci, cambialo se necessario. Fallo prima possibile, perché più invecchierai e peggio sarà. Fallo, prima che sia lui ad inghiottirti e a trasformarti in questi pupazzi che ti spaventano. Lotta, imponiti, ma non fuggire nella finzione, perché è li che vengono a prenderti irrimediabilmente i tuoi incubi.”
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