Un luogo che non esiste, al centro di una grande città. Un luogo violentato dalla Storia e dal tempo, da quanti, negli anni, hanno deciso di affidargli la rappresentazione dolente di ogni trasformazione, per sottolineare tutto quello che non c’è. Alexanderplatz è il posto in cui non vorresti andare mai, ma da dove devi passare per forza. C’è la torre della televisione, che è alta 368 metri e non lo capisci mai il fascino che a volte esercita sulle persone. C’è la puzza di piscio a ricordarti che fuori è un brutto mondo. Ci sono Primark e l’Alexa Shopping Mall e la Galeria Kauhof e Mediaworld e H&M e qualsiasi brand possa venirti in mente di acquistare e adesso pure Decathlon, perché non ci si fa mancare proprio nulla, neanche i francesi che ci vogliono tutti sportivi a basso prezzo con i pile Quechua prodotti in Tunisia.
Mostri luminosi a campeggiare, atroci e ferini, con i loro immensi stemmi da periferia urbana invernale che non finisce mai, a sventrare il cielo e i tuoi occhi: nel cuore del nulla non puoi aspettarti niente di meglio del vuoto. Questa piazza che piazza non è, questo agglomerato sfinente di anime sguarnite, era stata costruita nel 1800 per permettere ai fattori della città di comprare e vendere bestiame: la sua indole non è mutata, l’odore di bestia è anzi aumentato, ma più agro e tagliente, come di sale a corroderti la pelle. Alexanderplatz è brutta, sporca e cattiva. Ti fa paura, ma non come un infame ceffo che ti sventola sotto il naso una lama affilata, piuttosto sembra un animale selvaggio che prepara un attacco a sorpresa, una pantera bianca dal richiamo triste e finale.
Uomini morti, senza sapere di esserlo, le si aggrappano stancamente, ma con tutte le forze rimaste. È un’immagine quasi dolce. Dalle vetrate della stazione metropolitana, la più grande di Berlino, fra corridoi invasi di mefitica luce al neon e pensieri scrostati, rinchiusi nei minuscoli centimetri di auricolari telefonici, scorrono fiumi di vomito e sangue: è questo il modo in cui Alexanderplatz trasmette i suoi sentimenti.
Qui c’era il socialismo, una volta, a buttarti in faccia l’alito pestifero di un mondo tutto sbagliato. Poi è arrivato l’Occidente a rendere ogni cosa ancora più orribile, ed era difficile anche solo poterlo immaginare. Grattacieli sbattuti uno contro l’altro, in nome di un’urbanizzazione intelligente che regalasse, finalmente, un’anima a questo luogo perduto. Cemento come nebbia, a bloccare gli sguardi lontani. Frotte inumane di esseri umani a calcare i sentieri di Alex. Una foto ricordo e un cenno, furbo, a Franco Battiato. Fassbinder no, lui qui non se lo ricorda proprio nessuno.
Da una folla di piumini popolati da braccia e busti tutti identicamente tratteggiati di semplice oscurità, emergono delle piccole teste che ciclicamente si muovono a destra e poi sinistra; a destra e poi a sinistra. Sono turisti, ormai perduti nel caos intrepido e angosciante di Alexanderplatz. Memento per chi sbarcherà a venire e vorrà passare da un luogo che non esiste e forse non è esistito in alcun tempo. “L’imbrunire più rivoltante che abbia mai vissuto”, disse una volta un uomo che non poteva credere di trovare la tetraggine persino in un tramonto. Ad Alexanderplatz sì, ad Alexanderplatz succede persino questo.
Quando scende la notte senti più forte l’odore dei bretzel precotti di Ditsch, dei panini al pesce di Nordsee, dei burger di McDonald’s, della birra Sternburg, degli hotdog al sapore di gatto saponato venduti per strada, ascolti il rumore dei treni che si fermano e poi scappano via: “Zuruckbleiben bitte”, state indietro, noi ce ne andiamo lontano, forse per sempre. Scopri che a volte la luce può rendere un posto ancora più buio, come quando passi sotto al ponte di fronte a Rathaustrasse e davanti scorgi una fila illuminata di dolore e puzza di vodka a buon mercato e distruzione: tutto sembra estinguersi. Alexanderplatz non esiste, eppure è lì di fronte, dove non è mai stata.
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