Illustrazioni di Joni Fx
Take a walk on the wild side
Lou Reed
A cosa pensasse un giorno di marzo del 1800 nella piana degli Llanos, nell’attuale Venezuela, il trentenne prussiano Alexander von Humboldt, mentre scappava, nudo, con i vestiti in mano, non possiamo saperlo. Probabilmente a nulla: accaldati per i cinquanta gradi sotto un cielo senza nuvole, disidratati dalla traversata, lui e il compagno di viaggio Aimé Bonpland cercavano di seminare l’alligatore che li aveva sorpresi a bagnarsi in una pozza d’acqua.
Una cosa è però certa: neanche un incontro del genere ha potuto fermare la sua spinta faustiana. E anche un’altra: che il Grand Tour in Italia di moda in quegli anni non aveva attrattiva per lui. Per cercare la sua forma di bellezza, aveva seguito la direttrice di un Altrove molto più lontano, più aspra e rischiosa.
La prima volta che nella Alte Nationalgalerie di Berlino mi è capitato di vedere il quadro di Friedrich Georg Weitsch del 1806, che ritrae Alexander von Humboldt da giovane, ho pensato a un dandy: un bel ragazzo dallo sguardo soave, foulard candido, circondato da foglie di banano, di lato un ingombrante termometro, un quaderno aperto sulle ginocchia e un fiore rosa in mano, sullo sfondo l’oceano. Eccentriche scelte estetiche, credevo. Mancavano degli elementi alla mia interpretazione. Per esempio che in posti esotici come quello ci era stato davvero. Che quel rametto fiorito dal colore rosa stava entrando per la prima volta in una classificazione botanica, insieme a tremilaseicento altre specie sconosciute. E che il suo volto luminoso e rilassato era il sintomo di una reale felicità.
Non è facile spiegarsi come sia capitato in America Latina un ricco barone nato il 14 settembre 1769 a Tegel, allora un villaggio vicino a Berlino, sotto il cosiddetto dispotismo illuminato di Federico il Grande, tenuto a battesimo dal futuro re di Prussia Federico Guglielmo II, fra i cui interlocutori figureranno Goethe e Schiller.
Marie Elizabeth von Humboldt è il personaggio chiave di questo destino: una madre seriosa, sofferente. Oculata fino all’avarizia totale, soprattutto con l’affetto. Ma ambiziosa: impone ai figli una precisa formazione, cui sovrintende fino alla fine della propria vita. I due giovani devono diventare funzionari dello stato prussiano.
Il padre, Alexander Georg, ufficiale e poi ciambellano di corte, figura gioviale e affettuosa, muore quando Alexander ha nove anni. I fratelli von Humboldt crescono così sotto il controllo di adulti che esigono prestazioni e non vanno incontro alle emozioni. Alexander von Humboldt non è mai andato a scuola, non ha mai avuto compagni coetanei. I precettori sono impregnati di spirito illuministico e lo trasmettono ai due fratelli. Osa servirti della tua propria intelligenza, senza fare affidamento su un altro, aveva scritto Immanuel Kant.
Intanto però Alexander si crede un idiota, dovendo seguire le stesse lezioni del brillante fratello Wilhelm, ma avendo due anni meno di lui. Un’infinità. Se l’impotenza dell’infanzia non può mettere in pratica la ribellione, Alexander von Humboldt raccoglie la sofferenza infantile e la scaglia davanti a sé per il resto della vita, non tollerando più limiti, continuando a spostarsi fra i continenti e i saperi in un moto che diventa un modello esistenziale, ma anche epistemologico: scappa appena può e si getta, è il caso di dirlo, nelle braccia della natura.
Oggi il castello di Tegel, dove è cresciuto e sepolto, si visita soltanto il lunedì. Da quel palazzo il piccolo Humboldt corre fuori nel vasto parco di famiglia, a riempirsi le tasche di foglie, pietre, chiocciole – a casa, ridicolizzando il suo precoce spirito di ricerca, lo chiamano der kleine Apotheker. Non è diventato farmacista: il suo daimon aveva altro in serbo per lui.
Non che Alexander non ne fosse al corrente: Tegel è per lui il castello della noia, dove è sempre malato. Tenuto al guinzaglio, il bimbo cova la fuga: anche se ancora non lo sa. Ma sa che adora le piante e stare nella natura, il vero legame che nutre la sua esistenza e la protegge dalla follia, dal sentirsi estraneo. Alla forza che l’ha custodito integro, Humboldt dedicherà l’intera vita, come un atto di devozione amorevole. Qui forse si sviluppa il desiderio di creare un Tutto che tiene e contiene, al posto di una mancanza di legame. Un Tutto dove i singoli elementi si comprendono quando interagiscono con gli altri e non nell’isolamento. Salvato dalla natura selvaggia, la sua opera è un poema di riconoscenza per la sua vulnerabile bellezza. Intanto si ritira nel mondo cui sente di appartenere: legge i diari delle circumnavigazioni di James Cook, disegna carte geografiche, fantasticando di diventare soldato. E se al dolore corrisponde una contropartita, possiamo misurarla sulle migliaia di chilometri che alla fine della vita avrà percorso. Lui e il daimon stretto al suo fianco, che non lo lascerà più. La storia di Alexander von Humboldt è anche quella di un’ossessione felice e fruttifera.
I due fratelli vengono introdotti ai migliori circoli culturali illuministici, dove si discute liberamente su Chiesa, Stato e tradizione, oltre a scambiarsi le novità scientifiche. Addestrati da pedagoghi d’eccezione, i fratelli pensano fuori dagli schemi ricevuti: sanno che il valore dell’uomo risiede nei suoi argomenti, non nella sua appartenenza a una gerarchia.
Nel 1790 un primo breve viaggio attraverso l’Europa. Ad accompagnarlo è Georg Forster, naturalista e politico rivoluzionario, che era a bordo della nave di Cook nel primo viaggio intorno al mondo.
Alexander ha vent’anni quando nel 1789 scoppia la Rivoluzione Francese. Ed è da Parigi che passa l’estate seguente. Porta una carriola di sabbia al tempio della libertà, in costruzione fisicamente e metaforicamente. Continuerà a portarne molte altre nella sua vita. Appena in viaggio, la sua salute diventa perfetta. Non contrarrà febbre gialla e malaria in America, né l’antrace in Russia. Non soffre nemmeno il mal di mare. A qualcuno sembrerà la conferma del patto con il diavolo, insieme con la conoscenza dei legami nascosti dell’universo. Ora l’urgenza di partire si fa insopprimibile. Le navi che affollano il Tamigi lo riempiono di nostalgia. Torna in Prussia, e subito il suo corpo e la sua mente si popolano di sintomi di malessere. Che è quello che succede quando uno sta nell’Altrove sbagliato. Crede di diventare pazzo, gli amici sono preoccupati. Il daimon parla chiaro.
Ha riflettuto sulla libertà per i popoli, per gli individui, nella natura. Ma la sua vita aspetta ancora la rivoluzione. Continua ad essere un bravo figlio obbediente e torna dalla madre, che lo spedisce prima a studiare amministrazione dello Stato, poi ad Amburgo, all’accademia di commercio. Infine Alexander riesce a avvicinarsi ai suoi interessi: entra nell’accademia mineraria di Freiberg, vicino a Dresda, nel giugno 1791 e in otto mesi completa il curriculum di tre anni.
Fin qui è soltanto il brillante, ma ragionevole esito delle premesse. Nel 1796 si ritrova con centomila talleri: così tanti, scrive a un amico, da potersi rivestire d’oro il naso. Finalmente, la madre è morta. E la realtà nella sua crudezza è questa: soltanto così Alexander von Humboldt diventa libero. I due fratelli non presenziano al funerale.
La preparazione di anni accelera febbrilmente. Si dimette dal suo posto di ispettore minerario e comincia a setacciare l’Europa per scovare il sapere che gli serve: corsi di botanica, geologia, astronomia, zoologia; esperimenti sull’elettricità animale: non esita a aprire ferite nel suo stesso corpo e ad applicarvi elettrodi. Si esercita ovunque ad usare gli strumenti che porterà con sé. Le lettere di questo periodo trasudano un impeto demoniaco. Nel 1799, l’anno in cui Napoleone con un colpo di Stato mette la parola fine alle speranze di libertà, Humboldt ascolta fino in fondo il suo daimon, fa i bagagli e lascia l’Europa. Con un rarissimo permesso di visitare le sue colonie da parte del re di Spagna Carlo IV, che si ripromette vantaggi materiali dal viaggio dell’esperto geologo, Humboldt e il botanico Bonpland salpano il 5 giugno 1799 con la nave Pizarro da La Coruña: possono attraversare tutti i domini spagnoli oltreoceano.
Dettaglio importante: Humboldt paga di tasca propria i 42 strumenti scientifici e la spedizione. L’amico banchiere Joseph Mendelssohn gli fa credito. È un misto della modernità il giovane in partenza: romanticismo della vita selvaggia nella natura e strumenti all’avanguardia per studiarla. Strumenti che ampliano e integrano la percezione sensibile, non la spazzano ancora via, ma accompagnano l’uomo, che è ancora soggetto attivo dell’esplorazione. I contemporanei hanno visto in alcune pagine del Faust di Goethe aggirarsi Humboldt in persona. Come per Faust, l’attività individuale è il principio guida. Ma con il cuore aperto, lo sguardo formato dal bello goethiano, il corpo disposto all’avventura. E una dote senza pari nello stabilire connessioni.
Arrivati dopo ventidue giorni a Cumaná, nell’attuale Venezuela, non cominciano a studiare come scienziati adulti. Non subito. Prima corrono ‘come i pazzi’, ubriachi di meraviglia, fra piante e animali colorati e sconosciuti. Il sistema classificatorio razionale va in frantumi. Predomina un’impressione estetica del Tutto, che appare connesso in profonda unità. La poesia che decreterà il successo delle pagine divulgative di Humboldt ha una sua radice qui.
È sempre in Venezuela, nelle piantagioni coloniali intorno al Lago Valencia, che Humboldt già nel 1800 osserva la devastazione naturale dovuta allo sfruttamento sconsiderato del territorio e il cambiamento climatico causato dall’uomo. Per primo mette in guardia contro l’imprevedibile impatto che può avere la deforestazione sulle generazioni future. Non soltanto per ragioni economiche, ma per considerazioni globali più ampie, che due secoli dopo chiamiamo questioni ambientali. Evocando, in un unico blocco interpretativo, clima, lavoro umano, colonialismo, strutture sociali, in una reazione ecologica a catena. Infatti il naturalista è qui non soltanto per misurare, ma per scoprire come interagiscono le forze organiche e inorganiche.
Sul fiume Orinoco, per definire il collegamento con il sistema fluviale del Rio delle Amazzoni, percorrono più di duemila chilometri in un tronco cavo largo un metro. Con gli indigeni con cui ha a che fare, Humboldt parla, anzi, li strema di domande, a sua volta stremato dal giro inconcludente di traduzioni; si fa affascinare dal loro orientamento nella foresta, dal fatto che per esempio assaggiano una corteccia ad occhi chiusi e riconoscono a che albero appartiene. Ci litiga, ne detesta l’indolenza. Gli indigeni sono sbigottiti dalla follia dei due blancos che si affannano, lontanissimi da casa, a studiare una terra non loro.
La canoa rischia di rovesciarsi nel fiume dove nuotano i coccodrilli, esemplari fino a sette metri. Il filosofo Friedrich Hegel, che non era mai stato in America, scriverà che nel Nuovo Continente le forme di vita sono sottosviluppate. Humboldt se ne ricorderà per far ridere il suo pubblico berlinese.
La costante del viaggio tropicale sono gli insetti. Una piaga. I due possono scrivere, mani gonfie e doloranti per le punture, soltanto in una stanza piena di fumo che tiene lontane le zanzare. A Higuerote dormono sepolti nella sabbia. Eppure Humboldt non rinuncia a ricordare in una lettera che ogni parte della natura, anche la più molesta in prospettiva umana, è parte del cosmo in cui la sua presenza è indispensabile.
Se l’accettazione della natura è completa, alla crudeltà umana non fa sconti. Vicino alla loro casa a Cumaná, si svolge il mercato degli schiavi. Humboldt osserva che agli adolescenti in vendita vengono aperte le bocche per controllare lo stato dei denti, come al mercato dei cavalli. Sarà per tutta la vita abolizionista.
Dopo molte scalate di vulcani, variazioni violente di temperatura e umidità, incidenti che rovinano le delicate strutture, gli strumenti cominciano a non funzionare e Humboldt diventa impaziente di sapere quali progressi scientifici si è perso nei cinque anni. Il suo patrimonio è ridotto a un terzo. È ora di tornare nel Vecchio Continente. Ma scrivendo non lascerà mai quell’Altrove che per lui è stata l’America.
Il 27 Agosto 1804 Humboldt arriva a Parigi. In trionfo. Tutti lo trovano immutato nel parlare velocissimo, nei gesti e nell’irriverenza: soltanto più grasso e in salute. E tende a mescolare francese, inglese, tedesco e spagnolo. In una sola frase. Dentro, è diventato un vero cittadino del mondo. Da allora penserà sempre in parallelo, su diversi piani.
Quando in un salotto incontra il ventenne aristocratico Simón Bolívar, il giovane è sprofondato nel lutto per la perdita della amatissima moglie. La discussione politica con lo straniero Humboldt, che trasuda un amore contagioso per l’America Latina, risveglia in lui un barlume di interesse per la vita e, per rispecchiamento, un moto di orgoglio nazionale. Nel 1819, dopo anni di lotta antispagnola, Bolívar diventa il primo presidente della Colombia.
Soltanto Napoleone, l’uomo più famoso del mondo in quel momento, lo riceve con esplicito disprezzo – comunque il 2 Dicembre 1804 Humboldt deve partecipare all’incoronazione. E suo malgrado spendere soldi per il vestito da cerimonia.
Dopo cinque anni favolosi in America, Humboldt si piega al volto duro della realtà, senza spezzarsi. Al re di Prussia Federico Guglielmo III, per rallentare un ritorno a Berlino che non lo attira, scrive una lettera, con l’impareggiabile charme dell’impertinenza di cui è maestro, in cui giustifica la propria permanenza a Parigi con la difficoltà di riabituarsi al clima freddo. Rischia di tirare la corda, ma il monarca è rabbonito: lo scienziato è un fiore all’occhiello per il prestigio della Prussia. Gli viene assicurata una pensione annuale, è nominato membro dell’Accademia delle Scienze e ciambellano senza specifici doveri a corte. La soluzione ideale per il cosmopolita impoverito, che odia gli obblighi formali e ogni fattore che lo distrae dallo studio. Questo gioco gli riuscirà per i successivi vent’anni.
Ma no, in Europa non è felice, in Prussia ancor meno: patisce per la ristrettezza della gente e, scrive a Goethe, si sente letteralmente morto. Cerca di partire per l’Asia. Verso la Russia il percorso è bloccato, nel 1812 Napoleone la invade. E l’India, colonia inglese, è già preclusa: se il re spagnolo si è esposto al pericolo di far muovere liberamente un osservatore critico nei propri territori, la corona britannica decide di non correre il rischio. Sarà soltanto a cinquantanove anni che si ritroverà al confine mongolo. Oggetto di curiosità dei cinesi, che palpano le pance, saggiano i corpi, pungolano le schiene degli esploratori europei. Humboldt è di nuovo felice, nel modo della sua felicità fondata sull’abitare l’Altrove.
Soltanto nel 1827 lascia Parigi per tornare a Berlino. Questo pendolarismo fra le frontiere lo ha però reso sospetto: la polizia segreta francese leggerà per anni la sua corrispondenza, cercando invano le trame di una spia.
Per sopravvivere al deserto morale prussiano, alla visione deprimente di piante malaticce nelle serre, Humboldt fa progetti. Grandiosi: la città deve diventare centrale nella ricerca scientifica. Intanto continua a dedicarsi alla stampa dell’immenso materiale presso l’editore Cotta, coinvolgendo decine di collaboratori. Sono sessantamila soltanto le piante riportate in Europa. Del lavoro finale, le tavole illustrate, i Naturgemälde, conquistano l’occhio: quello che oggi chiamiamo infografica, è stato inventato qui, mentre Humboldt cercava il modo di restituire in uno sguardo dall’alto dati e bellezza, siccome la natura deve essere sentita. Celebre è la tavola che ritrae il vulcano inattivo Chimborazo: il disegno contiene i nomi delle piante e degli animali distribuiti per altezza, mentre ai lati si leggono informazioni su temperatura, pressione atmosferica, umidità, comparati a situazioni analoghe in altre montagne. Un vero ‘microcosmo in una pagina’. E se l’amore è preciso come una scienza esatta, se la felicità dell’amante è tornare al dettaglio che rende l’amato insostituibile e significante nel tessuto del cosmo, allora Humboldt ha conosciuto una certa forma di Eros. Fra il 1805 e il 1839 – in quasi perfetto parallelismo cronologico con le guerre d’indipendenza coloniale in America Latina – escono a Parigi ventinove volumi di diari di viaggio.
Tornato alla prosa della realtà, l’uomo di mondo Humboldt sa che, come ciambellano di una Prussia trasformata in uno stato di polizia, deve nascondere la sua simpatia per la Rivoluzione: ma non nasconde, in una lettera del 1842, il fatto che conserva il tricolore francese, dovesse presentarsi la necessità di dispiegarlo nuovamente.
E la storia la presenta: il 18 Marzo 1848 dalle barricate si chiedono libertà di stampa e di parola, abbattimento del regime aristocratico. Il re è costretto ad accordare delle misure liberali, che dopo pochi mesi ritirerà. Humboldt compare accanto a lui sul balcone, si inchina alla folla, non prende parola. Ha quasi ottant’anni, non è tempo di opporsi apertamente al re. Ma il giorno seguente il vecchio liberale accompagna il corteo funebre dei caduti, che passa proprio davanti al castello.
Questa esistenza mobile, dominata dalla furia dell’esplorare, ha incarnato quella che i contemporanei chiameranno la malattia centrifuga, la smania di inghiottire in movimento il mondo, tutto, subito, ma meticolosamente. È la ricerca per Humboldt ad essere l’unica forma di vita possibile. Nella giovinezza c’era in gioco una risposta esistenziale da dare, non una distaccata curiosità. Alexander von Humboldt è rimasto fedele a questa dimensione vitale.
Sehnsucht, Fernweh, Wanderlust: tre forme di nostalgia, di un mondo rispettivamente sconosciuto, lontano, da placare andando incessantemente. Tre parole romantiche che condensano l’agrodolce malessere di chi sa con ipnotica certezza di appartenere a un Altrove. C’entra poco la ponderazione quando a imporsi è il destino germinale che detta dal profondo. E il daimon di Alexander von Humboldt scandiva inesorabile: via da Berlino, dalla Prussia, dall’Europa.
Il 6 Maggio, a quasi novant’anni, Alexander von Humboldt morirà, in piena attività scientifica, preceduto di pochi mesi dalla sua pappagalla Jakob, compagna degli ultimi trent’anni, nell’appartamento in cui viveva dal 1843, riscaldato con un caldo asfissiante, adatto a un uomo che si era definito Tropenmensch, uomo dei Tropici. L’edificio è stato distrutto. Oggi resta nella Oranienburgerstrasse 67 una sobria targa, visibile all’uscita della S-Bahn berlinese omonima.
Morirà in povertà – salvato dal tracollo da Mendelssohn, che nel 1844 comprerà l’intero palazzo per esonerarlo dall’affitto –, indebitato con il proprio domestico, mentre il patrimonio della madre sarà stato bruciato. Fino in fondo.
Per quella cosa folle, volatile e inebriante, che è la varietà d’amore chiamata felicità mentale.
Chantal Salis non è francese e non è sarda. Abita a Berlino. Quando non rappresenta l’Italia, legge e ascolta musica.
Giovanna Faccini, in arte Joni Fx, è un’illustratrice italiana che attualmente vive a Berlino. Il tratto minimale e una selezione musicale ben curata le permettono di illustrare idee e situazioni con spontaneità ed entusiasmo.
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