“Guardami
Tra le nuvole e i veli
Soffia
Sussurra un’altra volta vivi
E io vivrò”
CCCP – Fedeli alla linea
Le foto di Aghia Sophie mi sono piaciute da subito. Le prime che ho visto sono quelle di una serata queer di Berlino, il Gegen. Mi colpirono perché restituivano fedelmente l’atmosfera di quelle notti esaltandone i tratti onirici. Volti e corpi stravolti e gaudenti. Fatti a pezzi e ricomposti. L’obiettivo di Aghia coglieva la bellezza beffarda e demoniaca di strane creature del buio. E poi riflettevano, di quelle serate, la sospensione del tempo, la dimensione temporale catturata e annullata dalle espressioni dei soggetti fotografati. Sguardi abbacinati e ultraterreni, sorrisi alieni, muscoli tesi da allerta preistorica. Da quel momento ho iniziato a seguire il suo lavoro e, di riflesso, a intuire il suo percorso esistenziale. Qualche tempo fa l’ho contattata. Eravamo a sette ore di fuso orario di distanza. Questo è quello che ci siamo raccontate via Skype, tra un salto della connessione e l’altro.
Aghia Sophie…mi ricorda qualcosa.
Riprende la canzone dei CCCP “Aghia Sophia”, un gruppo che ho amato molto. Mi chiamo Sofia e ho usato il titolo della loro canzone come primo nickname, agli albori di internet. Poi è rimasto.
Dove sei in questo momento?
Sono a casa. Cioè, più che una casa direi che è una tettoia sotto la quale c’è la nostra tenda. Sono nella selva colombiana, in una regione a sud che si chiama Putumayo, al confine con l’Ecuador, la città più vicina è Mocoa. Siamo ancora un po’ precari con i servizi e i comfort, però abbiamo portato l’elettricità. Questo pezzo di terra è del mio compagno e di una coppia di amici, ci viviamo metà dell’anno, quella in cui in Europa è inverno. Qui c’è la giungla e basta, e la nostra intenzione è proprio quella di starci preservandola così com’è.
Ti ho scoperta grazie alle foto del Gegen, immagini che descrivono un contesto occidentale e metropolitano. Poi all’improvviso ho iniziato a vedere comparire sullo sfondo le tue foto della selva.
Nonostante le differenze abissali credo che ci sia un comune denominatore, soprattutto nella scelta dei soggetti, che siano ravers, queers e outsiders che incontro per strada o aborigeni, si tratta sempre di minoranze. È ciò che più mi affascina. Ho sicuramente usato questo lavoro per raccontare luoghi ma anche e soprattutto vite. Mi piace andare in giro e scoprire il punto di vista antropologico, l’essere umano e come si evolve al di fuori del mio mondo. Ultimamente, qui in Colombia, sto lavorando a un progetto utilizzando una macchinetta analogica che mi permette di andare in posti un po’ meno sicuri senza dare troppo nell’occhio, vado in giro e faccio dei ritratti a persone che attirano la mia attenzione, non sono sicuramente persone che rientrano negli standard di bellezza imposti dalle mode, ma sono persone che mi piacciono. Possiamo definirli freak, forse.
Cosa ti ha portato dove ti trovi ora? Cosa cercavi?
Volevo evolvermi, ampliare il mio punto di vista. A Berlino l’unico interesse che avevo era la fotografia, e questa cosa ha iniziato a pesarmi. Qui ho imparato un sacco di cose nuove, tecniche legate all’agricoltura, alle piante e ai loro usi. Ho scoperto cosa vuol dire progettare abitazioni ecosostenibili e cosa significa vivere in modo autosufficiente. Anche in Italia, dove sto per sei mesi l’anno, vivo in un posto che non è raggiungibile con la macchina, ci si arriva a piedi attraverso un sentiero. Qualsiasi cosa vuoi portare a casa devi portarla in spalla, e questo ti costringe a pensare, ad analizzare a fondo ogni aspetto della tua esistenza. Cose che normalmente dai per scontate, diventano occasione per riflettere. Inizi a chiederti da dove viene l’acqua? Come si porta l’elettricità? Quale impatto ha il tuo stile di vita.
Come hai incontrato la fotografia?
Dalla provincia di Sondrio mi sono trasferita a Milano per studiare moda. Mi fa abbastanza ridere pensando a quello che sono ora, ma è iniziato tutto cosi. Avevamo dei corsi secondari da scegliere, avevo iniziato con “illustrazione” ma non mi piaceva, così ho ripiegato su fotografia. All’esame dovevo portare una serie di foto, ero abbastanza impreparata sul tema, facevo qualche foto con una macchina non professionale, fotografavo quella che era la mia vita. Frequentavo la scena dei rave party, e spesso fotografavo proprio questo ambiente. Ho presentato il mio lavoro e i professori sono stati entusiasti, mi hanno spinto a continuare. Allora ho comprato una reflex e ho iniziato a farlo un po’ più seriamente, anche se sempre da autodidatta. L’attitudine di fondo è rimasta la stessa, scattavo sul mio quotidiano, gli amici, la vita, gli ambienti. Mi piacevano anche i posti abbandonati, luoghi silenziosi che però raccontano tutto attraverso l’energia che emanano. Prediligevo gli scenari industriali, perché seguivo quest’onda culturale estetica, pre apocalittica o post apocalittica, dipende dal punto di vista, ma anche istituti abbandonati come ex ospedali psichiatrici. Oppure ho fotografato Consonno, un piccolo borgo della Brianza in cui negli anni sessanta volevano fare la Las Vegas del nord Italia. Hanno costruito un parco divertimenti, con un minareto arabo e la pagoda cinese e tutto il resto. È andato per qualche anno. Ma una frana nel 1976 ha impedito l’accesso alla strada per qualche mese, e il parco è progressivamente caduto nell’oblio. Da allora è rimasto un parco fantasma nel mezzo delle montagne, le foto che ho fatto lì sono state pubblicate per Casa Vogue.
Berlino risveglia un po’ la sindrome del paradiso perduto, appena la si incontra già se ne prova nostalgia, città in perenne trasformazione in cui l’atmosfera di ciò che è stato calamita le energie del presente e innesca gli ingranaggi del futuro. Come ci sei arrivata e che rapporto hai con questa città?
Premetto intanto che io Berlino l’ho amata follemente, tutti gli anni che ho passato lì sono stata tutto sommato bene, soprattutto per la gente che avevo intorno, ed è la cosa che più mi manca adesso. Quello che non mi manca è il fatto di vivere in una bolla e poi quando esci ti rendi conto che la realtà è diversa. Si può decidere tranquillamente di vivere in questa bolla per tutta la vita, e c’è chi trova il suo equilibrio. Per me non è stato cosi, soprattutto facendo la fotografa dei party. Vivevo di notte, mi svegliavo tardi, di inverno riuscivo a vedere a malapena una o due ore di luce al giorno, questo ha influito parecchio sul mio stato. Da una parte ero felice, vivevo emozioni incredibili, di condivisione intensa con gli altri, a cui però alternavo tristezza e depressione. Poi mi ha dato fastidio vedere come si trasformava la città, prima riuscivo a vivere davvero con pochi soldi, si poteva dormire gratis, mangiare con pochissimo, questa era una delle cose più belle di Berlino. Poi capisci che sei una pedina della gentrificazione, che stai facendo iniziative, magari anche fighe, ma in pochi anni al tuo posto ci saranno le gallerie d’arte mainstream, si alzeranno gli affitti e muterà tutto.
Mi ci sono sono trasferita nel 2009. Sono arrivata, come tanti che ci arrivano, non per un motivo o per un altro, ma perché sapevo di voler vivere lì. Il primo anno è stato duro, allora c’erano meno italiani, meno conoscenze. Mi è capitato di non sapere dove dormire, bussavo alla porta degli haus projekt e non sempre mi trattavano bene, i punk più politicizzati ti guardavano male perché ascoltavi la tekno, invece che essere uniti nelle scene alternative, a volte c’era questa specie di assurdo settarismo. Ho cambiato non so quanti posti, chiamavo il mio stile di vita “nomadismo urbano” finché non ho trovato una stabilità. Nel frattempo era nato da poco un progetto artistico, l’X-lab a Kreuzberg, dove ho imparato tanto a livello professionale, una delle fondatrici era Paola Verde, fotografa che mi ha dato molti buoni consigli e mi ha insegnato l’editing. Un giorno un mio amico che organizzava questa serata, il Gegen, mi ha proposto di lavorare lì come fotografa, ci ho lavorato per tre anni, nel frattempo sono spuntati altri contatti per fotografare altre serate techno, queer e dark.
Un po’ in continuità con gli inizi, in cui fotografavi luoghi e persone dei free party?
Il filo conduttore era che ancora una volta fotografavo semplicemente i posti che frequentavo, ho iniziato a fare come lavoro quello che prima facevo ugualmente. Ancora prima che diventasse un professione usavo la fotografia come ancora di salvezza. È il mio rifugio quando ho bisogno di distaccarmi dalla realtà che sto vivendo, magari perché non sono a mio agio o magari perché ho bisogno di elaborarla. Il mio processo di adattamento e comprensione passa per la macchina fotografica. Tutto quello che ho sempre fotografato non è altro che la mia vita, non sono mai andata a cercare qualcosa di preciso sul quale proiettare un mio bisogno espressivo. È stato sempre il contrario, fotografo per raccontare quello che mi accade intorno. Ad esempio nell’ultimo periodo, dalle foto, si può notare la realtà che sto vivendo, cioè una vita completamente immersa nella natura selvaggia.
Nelle tue foto della Colombia si avverte forte un alone magico.
L’esperienza che faccio qui in effetti ha qualcosa di magico. Sto anche portando avanti un progetto insieme al mio compagno, Andrea Valenti, che si chiama “Genius Loci”. Proviamo a ricreare le sembianze degli spiriti che secondo miti o leggende locali abitano un luogo. E produciamo dei costumi solo con elementi che appartengono a quella zona. Scegliamo il luogo, ne ricostruiamo le credenze e poi cerchiamo i materiali: piante, sassi, ossa, funghi e creiamo le sembianze di uno spirito. E poi queste maschere vengono fotografate. Tutto viene accompagnato da una ricerca storica, antropologica ed etnobotanica. A noi piace definirla come “fotografia ritualistica” .
Mi interesso molto alle tradizioni indigene, è uno dei motivi per cui mi sono trasferita. Interesse fotografico ma anche personale, sto facendo un percorso di studio, in particolare sull’uso delle piante. Stare qui, riscoprire la cultura dei nativi, mi aiuta a comprendere cosa succedeva secoli fa nei luoghi dove sono cresciuta. In Italia ad esempio, dove un certo sapere legato alla natura si è perso. Da questo punto di vista la Colombia offre tantissimo. Sono in una zona dove fino a qualche anno non si poteva venire perché era considerata “caliente”, come dicono qui. Ora è abbastanza tranquillo, ma in altre zone vicine c’è guerrilla, narcotraffico, molta selva. Dove la selva è fitta succede sempre qualcosa, perché è ideale per nascondersi. La Colombia ha una morfologia e una storia legate a doppio filo con la violenza, è un problema serio per chi ci abita. Allo stesso tempo questa instabilità l’ha in qualche modo preservata selvaggia dal punto di vista naturalistico e anche umano. Diciamo che l’occidentalizzazione procede con lentezza in alcune zone anche perché non sono accessibili e sicure. E forse anche alla ricerca di questa purezza e dei segreti che custodisce che sono venuta qui…si sente che è un continente nuovo, le energie che circolano sono di più, è tutto più vivo. Può essere anche una cosa negativa, a volte può essere una cosa pericolosa, non so se mi spiego.
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Immagine di copertina: Move it Festival , Repubblica Ceca 2010.
Tutte le foto, compresa quella di copertina, sono state realizzate da Aghie Sophie e i diritti sono riservati. Temete questo simbolo ©
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