Berlin Places è un progetto di Mauro Mondello e Loris Rizzo che documenta
in tempo reale, con parole e immagini, i luoghi di Berlino
Testo e foto sono stati realizzati all’aeroporto di Tegel, il 9 marzo 2018, fra le 11.00 e le 14.30
Varcando la soglia del terminal B mi viene subito in mente Marc Augè. E dire che Tegel, con i suoi blocchi di cemento arrugginiti, le forme stropicciate, le onnipresenti luci al neon che ti fanno subito immaginare di essere sbarcato sul set del commissario Derrick, prova in tutte le maniere architettonicamente possibili a far finta di nulla, a dimenticarsi di ciò che è. Questo non sembra un aeroporto normale. Più lo osservo, più mi accorgo che le stranezze strutturali che lo compongono lo fanno piuttosto somigliare ad una piazza affollata, in una greggia sera d’estate.
Ogni regola d’ordine, teutonica e logica, viene qui abbandonata: il caos compartimentato domina sull’aeroporto di Tegel.
Al gate A15 hanno chiamato un volo Turkish Airways, TK1716, in partenza per Istanbul alle 14.30. La coda, scomposta, tracolla immediatamente dentro il salone, sino ad arrivare quasi all’uscita: fra il parcheggio e l’area partenze, all’aeroporto di Tegel, ci sono al massimo 25 metri di distanza. Eccolo arrivare, il senso del non-luogo e tutto ciò che questo posto, nonostante il carico di scompiglio che la sua disposizione porta in dote, contiene umanamente.
Sono sempre le valigie, più che le persone, ad attirare per prime la mia attenzione. Perché dalle valigie si riescono a capire un sacco di cose. Perché osservando i bagagli riesco subito ad immaginare la vita che vi è contenuta. Anzi no, magari la vita no, però l’idea di vita sì. Questi bagagli enormi che si spostano da una città all’altra, da una camera da letto all’altra, che vengono toccati da decine di mani, trasportati dentro gli ascensori, riposti sulle cappelliere, trascinati e dimenticati e poi ritrovati ed abbracciati.
Sono questi bagagli, i nostri bagagli, tutto ciò che riteniamo di avere, tutto ciò che abbiamo? Penso.
L’aeroporto di Tegel, a Berlino, mi ricorda l’ossessione per i suicidi di Thomas Bernhard; “pensare al suicidio è la cosa più facile che possa accadere ad un essere umano”, diceva. L’accostamento è lugubre, eppure è una diffusa sensazione di morte volontaria quella che si sente in questi corridoi. Non c’è l’eccitazione del viaggio, qui, ma solo la pesantezza delle esistenze che si spostano senza poesia, senza dolcezza. Ecco, questo aeroporto è la rappresentazione perfetta di ciò che il viaggio non dovrebbe essere mai: un’imposizione. Eppure non stanno andando tutti a un funerale. O magari sì, chi lo sa. Certo sarebbe statisticamente affascinante.
Saliamo sul tetto dell’aeroporto. Prima di oggi, non sapevo nemmeno che ci fosse un tetto visitabile, a Tegel, e invece c’è ed è aperto a tutti. Solo che non ci va nessuno. Dalla terrazza, questa terrazza sotto cui scorrono centinaia di corpi pieni di cibo e di vestiti e alle cui estremità si allungano degli strani e odiosi aggeggi con delle ruote, aggeggi che contengono oggetti inutili, è tutto un po’ più umano.
Si vede l’aeroporto vivere, da qui. Finalmente il senso di libertà puro che dovrebbe trasmettere il volo, un senso mortificato, macerato, divelto, dall’occlusione emotiva e corporea dell’architettura esistenziale di qualsiasi aeroporto, ed in maniera particolare di quest’affollatissimo ed impreparato Tegel, torna a farsi avanti.
Vedo gli aerei atterrare e decollare e non posso fare a meno di continuare ad osservarli. Mi rendo conto sia un’immagine che, per me, continua ad avere, ben oltre i trent’anni, una potenza misteriosa. Non ci riesco, a ragionare in termini scientifici. Mi chiedo, come fossi un bambino, come sia possibile che questa cosa accada, ad intervalli regolari di 20 secondi. Ci sono le ringhiere arrugginite che spiovono sul parcheggio dei velivoli Lufthansa, i camioncini che vanno a rifornire di benzina, i piccoli autobus che fanno la spola dagli imbarchi alle scalette, le serrande abbassate dei pompieri, i tunnel per lo sbarco srotolati verso il portello di un aereo che sulla fiancata porta un’enorme scritta, Swiss, ed è sponsorizzato da una compagnia di noleggio auto che prova a sfoggiare il massimo dell’ironia germanica, proponendo un difficilmente traducibile gioco di parole.
Il suolo della terrazza è di piastrelle gommate, mattonelle in mezzo a cui cresce una natura muschierbosa che, nonostante tutto, non ha ancora mollato. Dei bidoni rossi, inquietanti, spropositati, campeggiano al centro del balcone, mentre la torre di controllo, che sembra possa crollare sulla pista centrale da un momento all’altro, tanto appare decrepita e dimenticata, ricorda più un reparto specialistico di un vecchio ospedale del Sud Italia, che il riferimento tecnico di questo luogo.
Sarebbe uno spettacolo incantevole, vederla sbriciolarsi qui, adesso, come se nulla fosse e senza spargimenti di sangue.
Dall’altra parte dell’esagono, guardando verso l’esterno, se ne stanno decine di taxi color crema in attesa. Si crea un contrasto mite, fra la ponderata autorità degli aerei che continuano a girarci intorno e la stagnante inerzia di queste automobili dalla gradazione cromatica malaugurata.
Torno dentro l’aeroporto, ma cambio posto. Mi accartoccio su una delle sedie che stanno sul corridoio obliquo delle partenze B, vicino a un distributore di merendine con un enorme logo della Coca Cola in alto. Il display segnala un aereo in arrivo da Catania, al terminal C, il container importato per sostenere l’aumento esponenziale di traffico verso Berlino dal quale partivano tutti i voli della Air Berlin, prima che fallisse.
Mi concentro sulla ragnatela tubolare che corre sul soffitto dell’aeroporto di Tegel.
Non ci avevo mai fatto caso, né ai tubi, né al fatto che il tetto è “aperto”, e attraverso le porzioni geometriche lasciate libere dalle condutture aeree si può vedere lo spettacolo unico del cielo di Berlino, forse il solo al mondo che non si possa definire neanche grigio.
Il cielo di Berlino non ha nessun colore.
Hauptbahnhof – Berlin Places #1
Gleisdreieck – Berlin Places #2
Potsdamer Platz – Berlin Places #3
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