Se il mio sentimento per i bambini fosse un paesaggio, sarebbe una grande e desolata landa deserta. Un territorio poco ospitale, dove quasi niente prospera. Non ho mai avuto nessun interesse per loro. Ho quattro nipoti a cui voglio molto bene, ma mai vorrei essere la loro madre, nonostante loro siano creature educate, intelligenti e – per la loro specie – addirittura silenziose. Non è una questione di astio o malevolenza. È una non-predisposizione caratteriale, un’indifferenza congenita che non nutro nessun desiderio di cambiare, un tratto della mia personalità con cui serenamente convivo.
Diciamolo semplicemente: i bambini non mi piacciono e a me questo stato di realtà soddisfa pienamente.
Il problema, è che tanti si aspettano il contrario.
Se non ti piacciono il formaggio, o i Pink Floyd, o la neve, nessuno fa tante storie. Nessuno di solito ha delle grandi aspettative verso di te quando ti propone di mettere su The dark side of the Moon, ti chiede di fare un pupazzo di neve, o ti offre un pezzo di fontina. Immaginatevi la scena. Uno arriva con un piatto di formaggio, ve lo offre, voi declinate dicendo “No grazie, non mi piace il formaggio” e il tizio replica con espressione di serio dispiacere “Oh davvero? E come mai? Tranquill*, in futuro cambierai idea, vedrai”.
Come scusa?
Se sarebbe perfettamente comprensibile (nonché ragionevole) rispondere al tizio in questione “Grazie dell’interessamento signor Tizio, ma penso che riuscirò benissimo a vivere una vita appagante senza formaggio”, non lo è altrettanto se in questione ci sono bambini. Più nello specifico, figli, perché è di questo che si tratta, in fondo.
Perché riguardo al fare figli esiste così tanta pressione?
Sarò onesta, prima di iniziare a scrivere questo articolo e quindi prima di andare a fondo della storia, ero io stessa bloccata in un sistema di pensiero che affonda le radici nelle aspettative esterne. Mi spiego. Io ero convinta di non volere figli per una lunga serie di ragioni. Ve ne elenco tre:
1 Credo che il sistema politico, sociale ed etico in cui viviamo sia profondamente e irreversibilmente corrotto. Non voglio alimentarlo mettendo al mondo un essere umano il quale sarebbe costretto ad esistere a queste condizioni. Costituirebbe una sorta di tradimento alla mia integrità morale.
2 Più generalmente, da una prospettiva universale, credo che l’umanità sia un errore tragico che produce solo danni e che merita l’estinzione.
3 La mia libertà e la mia indipendenza sono le cose che per me hanno più valore. Un figlio le comprometterebbe per sempre.
Sono genuinamente convinta di queste cose. Ma sono la vera ragione per cui non voglio avere figli? Dopo averci pensato bene, devo dire di no.
La ragione, infatti, è una e semplice: io manco totalmente di quello che viene comunemente chiamato “istinto materno”. Tutto il resto è una sovrastruttura. Sono giustificazioni che ho sentito il dovere di trovare per far fronte alla celebrazione culturale e sociale della maternità e della famiglia, per avere una risposta elaborata da dare a quel commiserante “Perché non vuoi figli?”.
Avete mai provato a rispondere “Perché io non ho nessun istinto materno” a quella domanda? È imbarazzante. L’interlocutore proverà a consolarvi, come se gli aveste detto che vi manca una gamba o se vi fosse spuntato un testicolo in faccia. La pressione alla procreazione è talmente forte che in alcuni casi – come nel mio – rende perfino inconscio il processo di creazione di queste giustificazioni.
Il percorso che mi ha portata a capire questo parte con delle interviste. Ve ne riporto alcuni frammenti.
Jose, 28 anni, Cile.
Jose ha effettuato una vasectomia quando aveva 21 anni. Inizia dicendo che non ha mai pensato a se stesso come ad un padre, e prosegue poi in questo modo: “Sono molto consapevole dei sacrifici che i miei genitori hanno fatto per crescere due figli. Anche se sono loro immensamente grato, io non voglio fare lo stesso. Voglio mantenere la mia autonomia. Inoltre, ho lottato per anni contro la depressione e non so se sarei sufficientemente stabile per prendermi cura di un altro essere umano”.
Ana, 38 anni, Teheran
Ana è forse la più estrema delle persone che ho intervistato. Prima di andare ai motivi della sua decisione, mi confessa di aver preso la pillola per anni e di essersi sentita estremamente a disagio quando, per un periodo, ha dovuto smettere. La sola idea che il suo corpo fosse capace di procreare la faceva stare male.
Racconta: “La prima ragione per cui non voglio avere bambini è che non mi piacerebbe averne. Quando vedo altre persone che farebbero di tutto per avere dei figli, capisco quanto poco io gli assomigli”.
Ana elenca poi le altre ragioni: “Questo mondo non è all’altezza dei miei standard, noi esseri umani ci facciamo del male a vicenda e danneggiamo tutto quello che ci sta intorno. Non voglio che mio figlio faccia parte di questo. Se avessi soldi e tempo, li spenderei più volentieri in viaggi, oppure tornerei a studiare. Non ho nessun desiderio di prendermi cura di un’altra persona per anni e anni, sacrificando la mia vita. Infine, mi piace l’idea di finire con me stessa: non sento il bisogno di un seguito che mi sopravviva”.
Sarah, 52, Melbourne
“Da quanto ricordi, non ho mai voluto dei figli, il pensiero non mi ha attraversato la mente nemmeno da adolescente. Come assistente sociale, da 30 anni mi prendo cura di ragazzi in difficoltà, mi piace passare il tempo con bambini e giovani, ma non ho mai sentito il desiderio di avere dei figli miei. Nel corso della mia vita ho visto tanti bambini non voluti e non amati, credo che la terra sia sovrappopolata e che per un po’la gente dovrebbe smetterla di procreare”. Sarah mostra una certa insofferenza verso gli incentivi statali che vengono offerti alle famiglie. “Sono del parere che il governo non dovrebbe incentivare la gente a fare figli e fornire loro sostentamento. Chi ha figli ha più diritti e riconoscimenti di chi non ne ha e questo non mi piace. Il governo australiano concede anche cinque anni di congedo di maternità, che suppongo possa essere ok di per sé, ma trovo ingiusto che io non possa usufruire dello stesso privilegio per fare qualcosa che desidero. Sostanzialmente, credo che avere dei bambini sia una scelta come un’altra la quale non dovrebbe essere supportata incondizionatamente dal governo”.
David, 29, UK
Quando chiedo a David perchè non voglia figli, risponde sicuro: “Non ne voglio e basta. Non c’è mai stato un dibattito interno a me stesso al riguardo. Ho visto delle persone fare i conti con i loro istinti di maternità o paternità rimasti insoddisfatti ed ho provato ad immedesimarmi, ma non ci sono riuscito. Penso che essere child-free sia il mio stato naturale. C’è poco da aggiungere. Una volta una mia amica musicista mi ha detto che non voleva avere figli perché stava già creando tante song babies. Questa cosa mi è rimasta impressa. La mia creatività è soddisfatta mettendo al mondo arte, non persone”.
Tala, 26, Filippine
“Ci sono tante ragioni per cui non voglio avere figli, ma la più importante, forse, è che ho paura. Mia madre non era pronta ad avermi, io sono stata un incidente, quando ho compiuto un anno lei ha deciso di tornare ai suoi progetti e mi ha abbandonata. Ho il terrore che potrei fare lo stesso a mio figlio. Un’altra ragione per cui ho paura è il dolore sia psicologico che fisico che la maternità può causare. La mia migliore amica è quasi morta durante il parto e, dopo un anno, mi ha confidato che vorrebbe aver aspettato, che ogni tanto si pente della sua scelta. A volte amare tuo figlio non è abbastanza. Devi essere emozionalmente maturo e mentalmente stabile”. Anche Tala parla poi del problema della sovrappopolazione, del desiderio di essere libera, del tempo che prendersi cura di un bambino necessariamente richiede, motivando le sue argomentazioni nel dettaglio e con molta passione.
A parte il caso particolare di Tala, quello che ho trovato comune alla maggior parte delle interviste, è la dichiarazione iniziale: “Io figli non ne voglio e basta”. E la storia potrebbe davvero concludersi qui.
Invece, la maggior parte degli intervistati si dispiega in una serie di specificazioni e giustificazioni. Va a ripescare nel passato trovando moventi psicologici, si appella all’ambiente e alla sovrappopolazione, dà la colpa ai mali della società, guarda alle sfortune altrui come esempio da cui stare alla larga. Non dico che queste non siano motivazioni legittime, tutt’altro. Il fatto è che non credo siano quelle fondamentali. Credo, anzi, siano le elaborazioni intellettuali a posteriori di un istinto, o, in questo caso, una mancanza di istinto: quello materno o paterno.
Parliamoci chiaro, se io volessi un figlio, troverei delle motivazioni altrettanto convincenti a supportare il mio desiderio di averlo. Ne sono certa, e penso valga lo stesso per tante delle persone che ho intervistato. Secondo alcuni studi il nostro processo decisionale si basa prevalentemente su istinti ed emozioni. La razionalizzazione arriva dopo: anche se viviamo in una società altamente (troppo) razionale, noi rimaniamo degli animali evolutisi seguendo un percorso bizzarro.
Un’altra cosa che risalta dalle interviste è che a una maggiore pressione esterna alla procreazione corrisponde una maggiore complessità delle giustificazioni.
Ad esempio, le risposte delle donne sono molto più articolate delle risposte degli uomini, e le risposte delle donne cresciute in società tradizionali come le Filippine e l’Iran sono più profonde (specialmente in senso emotivo) delle risposte delle donne con un background occidentale.
Faccio un altro giro di stralci d’intervista per essere più chiara.
Quando chiedo se alla scelta di non avere dei figli siano mai seguite pressioni o discriminazioni, gli uomini si rivelano piuttosto consci del fatto che, in questo campo, è l’altro sesso ad averla difficile. Juan, ad esempio, spiega che l’operazione a cui lui si è sottoposto non sarebbe mai stata possibile per una donna, né in Sud America (dove viveva) né in Australia (dove vive ora): “Molti medici provano a convincere le persone che stanno prendendo la decisione sbagliata, che lo rimpiangeranno. Dicono apertamente che è giusto avere figli e fanno quello che possono per non autorizzare l’operazione”.
A tal proposito, interessante questo Ted Talk.
Tala racconta di aver subito tante pressioni sia dalla società che dalla famiglia. “In un paese asiatico conservatore che è la terza comunità cattolica più grande al mondo (ndr: le Filippine), decidere di sposarsi ed avere dei figli non è nemmeno una decisione. La chiesa perfino afferma che un matrimonio senza figli non ha senso”.
Ana dice di aver subito pressioni dalla famiglia soprattutto all’inizio dei suoi trent’anni, ma anche lei, come Sarah, è più preoccupata dell’ingiustizia di un sistema sociale volto a tutelare le famiglie con figli. Secondo lei là sta la vera discriminazione. “Sono frustrata perché tutto nella nostra società è pensato per supportare i genitori, e chissenefrega di chi non vuole far figli. Ad esempio, se la gente può andare in congedo per maternità e paternità ed essere pagata con le mie tasse, io voglio andare a fare un viaggio ed essere pagata con gli stessi soldi. In generale, penso che chi vuole fare figli debba pagare per loro ed essere sottoposto ad un altro sistema di tassazione. Io non voglio contribuire. Inoltre, procreare è dannoso per l’ambiente, ma il governo fa a finta di nulla ed agisce come se fare figli fosse questo meraviglioso ed altruistico atto”.
Io che alla cosa non avevo mai pensato, a questo punto sono già ad uno stadio evoluto di idealizzazione di un piano geniale: il trasferimento forzato di tutte le famiglie con bambini in un continente che mai vorrò visitare, tipo l’Antartide, dove potranno svolgere tutte le loro tipiche attività, come le voci buffe e pulire il vomito, mentre la parte del mondo sana di mente potrà continuare a vivere pacifica una vita pulita e senza strilli.
Gli altri esempi di pressioni e discriminazioni che vengono portati sono sottili, ma non per questo meno invadenti.
Nina: “Mia madre l’altro giorno ha preso da parte mio marito e gli ha chiesto quando avremo dei figli, perché è ancora convinta che io cambierò idea”.
Rachel: “I miei amici hanno quasi tutti dei figli e, anche se sono più comprensivi dei miei genitori, ancora mi parlano come se sia scontato che anch’io avrò presto un bambino. Semplicemente è implicito nelle conversazioni, dicono cose tipo “Non vedo l’ora che i nostri figli possano giocare assieme”, è imbarazzante”.
Paola: “Se esco e non bevo, automaticamente vuol dire che sono incinta. Quando spiego che semplicemente non mi va di bere, la risposta è sempre la stessa: “non preoccuparti, succederà presto”.
Il fatto che la nostra cultura sia così dedita alla celebrazione della maternità ha radici storiche che, ovviamente, ora hanno perso il loro appiglio originario. Partendo da un’epoca piuttosto recente, ad esempio, possiamo vedere come prima del Diciottesimo Secolo coesistessero differenti modelli di maternità, dovuti dalla gerarchizzazione sociale: nelle classi lavoratrici lo scopo della procreazione era portare forza lavoro, e la madre aveva un ruolo educativo e protettivo del figlio, il quale doveva essere in salute per essere utile. Per la nobiltà la spinta alla riproduzione aveva naturalmente lo scopo di perpetuare la stirpe, e il ruolo della madre era prevalentemente limitato al concepimento, essendo poi il figlio lasciato alla cura di una balia. Anche nella borghesia l’allargamento della famiglia aveva per lo più motivi economici: portare avanti l’attività famigliare per i maschi, sposare un uomo abbiente per le femmine.
Nel Diciottesimo Secolo, il Secolo dei Lumi, la maternità viene glorificata ed investita di valori metaforici che elevano la madre ad un simbolo di prosperità e solidarietà nazionale. La Rivoluzione Francese segna un nuovo stadio: le donne iniziano a sfruttare questo potere simbolico di cui sono portatrici per reclamare maggiori diritti, primo quello all’educazione, in modo da poter essere loro stesse buone educatrici delle generazioni future.
Nel Ventesimo Secolo la figura della donna-madre viene sfruttata dalla propaganda nazionalista reazionaria post bellica, portando di nuovo alla ribalta una serie di immagini simboliche stereotipate che vedono la donna come la custode della casa e dei figli. Ma la società sta diventando più complessa, stratificata e, per questo, meno controllabile. A ciò corrisponde l’oppressione dei tentativi della donna di sganciarsi dal suo ruolo di madre, ad esempio rendendo l’aborto illegale o, in modo più manipolatorio, introducendo la festa della mamma.
Due degli effetti della continua strumentalizzazione della figura della donna-madre sono la nascita di un mito, quello della maternità, e l’universalizzazione di un istinto, quello materno. L’idea della donna come essere naturalmente portato alla procreazione e adatto al ruolo di madre per il solo fatto di possedere un utero, ne è il risultato. Un’idea piuttosto strampalata, in fondo sarebbe come sostenere che tutte le persone sono abili pittori in virtù delle mani e tutti gli uomini capaci amatori perché hanno un pene che gli penzola tra le gambe.
Per quanto strampalata, questa idea è stata comunque in grado di diffondersi ovunque e di venire assorbita socialmente, fino a diventare una verità acriticamente accettata trasversalmente.
E, come tutte le verità acriticamente accettate, ha causato mostri.
Anche se non se ne parla molto, sono tante le donne che entrano in depressione post-parto perché non provano quegli stereotipati sentimenti di completezza e assoluta felicità che si aspettano. Sono numerose anche le donne che si pentono di avere avuto figli. Senza andare agli estremi, credo che quasi tutte le madri, ad un certo punto, si sentano inadeguate, non all’altezza, desiderino scappare, e si sentano tremendamente sole per l’impossibilità di confidare a qualcuno questo presunto fallimento che mina intimamente la loro stessa natura di donne.
Negli ultimi anni, la letteratura gender, queer e femminista ha sfidato il concetto di maternità come talento naturale e ne ha proposto varie rielaborazioni. Il risultato è corpus di conoscenze che restituisce complessità e spessore alla questione e inquadra la maternità storicamente, slegandola dalla nozione di “femminilità”.
Nel 2015 un libro ha infine fatto alzare la questione dalle cattedre delle università, accomodandola nei salotti di casa: Regretting Motherhood, di Orna Donath, è un’indagine sociologica durata un quindicennio, basata su 23 interviste a donne israeliane di età compresa tra i 26 e i 73 anni, le quali si sono pentite di aver avuto figli. La ricerca ha avuto il merito di gettare luce su come, oggetto del pentimento, non siano i figli in sé, bensì lo status di madre. Tutte le donne intervistate sostengono di amare profondamente i loro bambini, non vorrebbero un mondo dove i loro bambini non esistono ma, come dice incisivamente Charlotte, 44 anni: “Semplicemente io vorrei non essere la loro madre”.
Tra le altre testimonianze possiamo leggere:
Susie, 59: “Non penso di essere adatta ad essere una madre. Ogni volta che parlo con i miei amici dico loro che, se da giovane avessi avuto uno squarcio sull’esperienza che ho oggi, non avrei messo al mondo nemmeno un quarto di un bambino. La sofferenza più grande, per me, è che non posso andare indietro nel tempo. È impossibile, impossibile da riparare”.
Carmen, madre di un adolescente: “Ho sentito nascere il panico il giorno in cui ho messo piede fuori dall’ospedale con lui tra le braccia. Quel giorno ho iniziato a capire cosa avevo fatto e il sentimento si è intensificato nel corso degli anni”. Quando l’autrice chiede a Carmen cosa abbia capito esattamente, lei risponde: “Che è irreversibile. È schiavizzazione, un lavoro noioso e durissimo che dura per sempre”.
Tritzka: “Appena mio figlio è nato, ho pensato fosse una catastrofe. Ho detto “è una catastrofe”. Ho capito immediatamente che non era una cosa adatta a me. Non solo non era una cosa adatta a me, era il mio incubo. Non avevo nessun interesse nell’essere madre, per me era un’anomalia. Anche questa cosa per cui mio figlio mi chiama “mamma”. Mi guardo intorno per vedere chi sta chiamando. Non mi relaziono né con il concetto, né con il ruolo, né con il significato e le conseguenze”.
Orna Donath, in un articolo che segue il libro, scrive: “Quando la gente legge le interviste, dice “Che cosa devastante per un figlio, sapere che la madre si è pentita di averlo avuto!”. Molte delle donne che hanno partecipato allo studio, infatti, credono esista una buona probabilità che i loro figli percepiscano di vivere in una casa dove la maternità non viene completamente abbracciata. Questi bambini potrebbero arrivare alla conclusione di aver rovinato la vita delle proprie madri, portando il peso di una colpa che, per sempre, gli ricorderà che la loro esistenza non era voluta. Ma questa è esattamente una delle ragioni per cui parlare del pentimento è importante. Quando la madre chiarifica che ad essere oggetto del pentimento è la maternità e non il figlio, c’è la possibilità che il figlio possa liberarsi di quel senso di colpa”.
Per tutta la sua vita, mia madre mi ha messa in guardia dal fare figli. Mentre l’ammonizione delle madri dei miei amici era “Non bere e guida piano”, quella della mia era “Fai quello che vuoi, basta che non fai figli”. Me l’ha detto troppe volte e usando toni troppo diversi, perché fosse uno scherzo. Io sono perfettamente certa che lei mi abbia amata in modo incondizionato, come solo una madre può amare, ma sono anche certa che, quando mi diceva quella frase, non si rivolgeva solo a me, guardava anche alla se stessa del passato. Questa consapevolezza, lungi dal creare in me un sentimento di inadeguatezza o rammarico, mi ha invece aiutata a comprendere quello che altrimenti sarebbe stato più difficile scoprire: che la maternità non è per tutti, che, come tutte le altre esperienze della vita, è complessa, piena di contraddizioni, di sfumature, e che, sicuramente, non è qualcosa che mi renderebbe felice.
Al libro della Donath ne sono seguiti altri simili, come Toni Morrison and Motherhood: A Politics of the Heart e in Germania Die Mutterglück-Lüge di Susan Fischer. Come spesso succede, il dibattito si è poi diffuso sui social. Ad esempio, nel gruppo Facebook I Regret having children, i membri possono postare in forma anonima la loro esperienza, ricevendo il supporto della community.
Credo che l’incapacità di accettare l’assenza in sé di istinto materno e l’incapacità di sentirsi a proprio agio nel ruolo di madre siano intimamente connesse. In una società dove non volere dei bambini viene ancora stigmatizzato, è molto difficile comprendere se la spinta alla maternità arrivi dall’interno, e sia quindi da seguire, oppure arrivi dall’esterno, e sia quindi da accantonare. Il dibattito aperto che lentamente si sta sviluppando penso renderà più chiaro alle donne cosa esattamente vogliono fare della propria vita e del proprio corpo, subendo meno il peso delle pressioni sociali che ancora esistono.
Non solo. Considerare la madre non come una figura monodimensionale, che ricava la sua unica felicità dalla cura della prole per cui è naturalmente predisposta, ma come una creatura complessa e imperfetta, la quale deve proseguire attraverso un complicato processo di prova ed errore per ricoprire il proprio ruolo, potrebbe aiutare i figli ad assumere una funzione di appoggio più consapevole nella dinamica famigliare. A dare meno cose per scontate.
In sintesi, ci sono solo due concetti semplicissimi da tenere a mente: l’istinto materno non è universale e la maternità non è un talento naturale. Credere il contrario sarebbe cadere nello stereotipo. E, che io sappia, solo le donne nei film “adorano essere ridotte ad uno stereotipo culturale”.
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