foto di Cesare Zomparelli
Il 13 maggio 2017 ha aperto la cinquantasettesima edizione della Biennale di Venezia, che chiuderà i battenti il 28 novembre 2017. Il titolo Viva Arte Viva è stato scelto da Christine Macel, curatrice dell’esposizione internazionale d’arte più conosciuta in Italia, per indicare una sorta di luogo di confronto e dialogo tra visitatore e artista. Più in generale il tutto è organizzato nell’ottica di un ritorno all’umanesimo secondo Paolo Baratta, presidente della Biennale.
“È nell’umanesimo” dice “che l’atto artistico si concretizza come atto di resistenza, di liberazione e di generosità nei confronti di un mondo che cerca di sopraffare l’uomo.”
Ma al di là del depliant di presentazione della Biennale, come ogni volta, il tema risulta ampio abbastanza da permettere agli artisti di giocare un po’ il loro gioco indisturbati, e a chi va a vedere la mostra di scartabellare tra le tendenze nazionali e internazionali contemporanee.
Ognuno poi ha il suo cercare all’interno della Biennale, un po’ come nel mercato delle pulci: bisogna fiutare quel che si vuole trovare, perché il percorso è vasto, ma sempre soddisfacente. E la soddisfazione non deriva mai soltanto dalle opere esposte, ché Venezia ha un fascino che nessuno può dire di non subire, dal punto di vista umanistico – per richiamarci a Baratta – e urbanistico.
A Venezia ci sono i turisti, gli abitanti, gli studenti, i mendicanti; è un continuo brulicare, come una pentola sul fuoco. Ma mentre cammino per arrivare ai luoghi adibiti alla mostra, mi insinuo nei passaggi più stretti, dove l’odore salmastro dei tanti canali si disperde per le piccole calle, i passi diventano sordi e il brusio dei turisti è solo un ricordo. Nel tragitto c’è la libreria Acqua Alta in cui le pagine dei libri sono arricciate per l’umidità; ci sono le vetrine con le maschere in cuoio o dipinte a mano e cartoline di Arlecchino e Piazza San Marco; ci sono i padiglioni nazionali a ingresso gratuito della Biennale, che sono sparpagliati qua e là fino anche alla Giudecca e agli altri isolotti intorno a Venezia. Tutto inizia già dalla stazione di Santa Lucia, all’ingresso della città, e procede, un piede dopo l’altro, verso le due sedi principali dell’esposizione, i Giardini e l’Arsenale.
All’Arsenale di norma ci vado dopo aver visto i Giardini. Questa è la quinta edizione che seguo e ho imparato che, indipendentemente da cosa vi sia esposto, l’Arsenale cattura già da sé ogni senso, e a me piace lasciare il boccone del prete alla fine. Si presenta come un ex cantiere navale con un lunghissimo corridoio a elle; sfocia su casotti in mattoni e sottili ciminiere fumanti. Alle 10 del mattino, quando la sede ha appena aperto e tutti i visitatori iniziano dalle prime sale, mi piace passare all’esterno e iniziare il percorso al contrario: cammino, la ghiaia scrocchia sotto le scarpe e quasi non si vede essere umano sulla sponda opposta del bordo sul quale mi affaccio; è un’immersione quasi metafisica che funge da scivolo verso la predisposizione mentale con cui di solito affronto la Biennale.
Ognuno credo si confronti con l’arte a seconda di ciò che cerca, come accade quando si entra in contatto con una nuova persona e ci si domanda quale sia il grado di compatibilità. Il mio livello di empatia con l’arte, ad esempio, si è spesso e volentieri misurato su una scala che parte dalla timida inquietudine e arriva allo shock silenzioso, quello che perdura a livello inconscio dopo il termine della visita. Mi affascina ciò che mi lascia turbata, e questo sicuramente condiziona il mio modo di vedere le cose e la scelta delle cose da vedere.
Il Padiglione Italia, ha il suo ingresso proprio al termine dei miei pensieri. Quest’anno è più cupo e buio del solito. Non ha ricevuto alcuna nota di merito dalla giuria, ma, di primo impatto, mi lascia di stucco. L’installazione di Roberto Cuoghi si chiama Imitazione di Cristo e si espande per tutta la prima enorme sala. Macchinari industriali sembrano programmati per la fabbricazione di piccoli corpi raggrinziti e in decomposizione; tutti diversi per materia e dimensioni, ma non per posizione: le braccia stese perpendicolarmente al busto, il torso magro, scheletrico, il volto sofferente di un Ecce Homo. Cristo. Tante versioni di Cristo in croce: nascono modellate dal calore delle mani di un uomo che le espone al tempo, le devolve alla morte. C’è un igloo trasparente e scarsamente illuminato, è un museo distopico a piccole sale, a piccole celle, o forse cappelle. Apro bene le narici e penso di riconoscere l’odore della carne che perde colore nel rigor mortis. Non riesco a staccarmene, ne sono attratta e nauseata, schifata forse. Ma talmente schifata da non saper rinunciare a spalancare i polmoni per infilarci dentro a forza una traccia perché resti indelebile.
Esco dall’igloo con le narici per sempre impressionate e oltrepasso una tenda nera.
C’è una serie di pali sottili in metallo che dividono in tre la stanza come si trattasse di navate di una chiesa; non capisco, non c’è niente di particolare da vedere o toccare o annusare in questa installazione di Giorgio Andreotta Calò. Poi nella penombra, appena gli occhi si abituano al buio, percepisco delle scale sul fondo, quelle che si usano quando si fanno dei lavori temporanei, quelle traforate che fanno molto rumore quando si salgono i gradini con i tacchi. Le percorro tutte e poi mi giro. Ancora ci metto un po’ a capire; poi ci arrivo: il soffitto a capriata lignea sembra riflettersi in uno specchio, ma non c’è nessuno specchio. Il soffitto è invece riprodotto capovolto, compromettendo pesantemente lo spazio riservato alla struttura sottostante in metallo: un quesito a livello spaziale che mi spezza un po’ il fiato.
Quello che mi piace della Biennale, o forse dell’arte contemporanea in senso ampio, è che non so mai cosa aspettarmi di preciso, ma so che sicuramente arriverà qualcosa a suggestionarmi, qualcosa che mi lascerà a rimuginare per un po’ su quello che ho visto, ascoltato, annusato. E di solito si tratta di piccoli particolari che probabilmente non sono neanche contemplati, da chi li ha progettati, che come effetto collaterale dell’opera, e non come esperienza principale. Ma nel rapporto a tu per tu che ogni singolo riesce ad ottenere con ciò con cui entra in contatto rende l’arte prolifica, la spinge fuori dai possibili margini che l’organizzazione delle cose, in generale, comporta. E così se l’opera rimane dentro al percorso espositivo, la sensazione vissuta ce la si trascina appresso; si insinua nella tasca interna della giacca e rimane nascosta. Ma poi a volte riemerge.
Il primo lavoro di video arte che ricordo mi rimase veramente impresso lo vidi a Londra. Avevo diciotto anni e guardavo dubbiosa questo schermo in una sala nera e insonorizzata; l’inquadratura era dettata da una telecamera che girava su se stessa a trecentosessanta gradi all’interno di una foresta. Tutto sembrava nella norma, e la cosa mi inquietava moltissimo, non succedeva niente. Gli alberi, le foglie mosse da qualche invisibile bestiola, una cascatella. Una cascatella e la mia pelle d’oca: l’acqua scorreva da giù a su, contro la legge di gravità, nella tranquillità di quell’ambiente verde e rigoglioso. Provai una sensazione strana che lì per lì mi diede fastidio.
Appena attraverso il padiglione della Georgia so che la fonte dei miei brividi è la stessa. Sento il rumore dell’acqua che cade a catinelle, ma sono all’asciutto di una struttura chiusa. C’è una casa in legno vagamente ottocentesca, arredata di tutto punto, con sedie e tavoli e centrini, e fiori sulla veranda. Tutto è a posto, tutto è come dovrebbe essere. Ma piove, piove dentro; piove e non c’è niente di più normale di quelle gocce d’acqua che scorrono sulle finestre dalla parte interna del vetro. Strano, non ci vedo nulla di strano. Ho un principio di buco nero a livello del mediastino, ma il battito cardiaco continua regolare.
Ogni volta che penso che siamo in un’epoca in cui è difficile restare stupiti per davvero, trovo che a lungo andare ci sia qualcosa che continua a macinarmi nella testa, qualcosa che di primo acchito non mi prende alla gola magari, ma a cui poi mi ritrovo a pensare involontariamente. È frequente che accada con l’arte e le suggestioni dei suoi contesti che la definiscono site specific. È frequente che mi capiti a Venezia, tra i soffiatori di vetro nei bassi delle botteghe e il mercato di Rialto, nei luoghi della Biennale, tra le insenature lagunari dei vecchi giacigli delle barche e quello che c’è da scoprire, di anno dispari in anno dispari.
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In copertina: © Foto di Cesare Zomparelli
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