Ci lasciamo dietro i chilometri, bruciamo la strada controllando gli autovelox svizzeri, quasi sempre in silenzio, con il volume dell’autoradio che fa vibrare i finestrini più del motore e delle imperfezioni dell’asfalto. Osserviamo le ombre della Foresta Nera che coprono e scoprono in attimi imprecisi la carrozzeria rossa della nostra Fiesta.
E poi dentro la Romantische Strasse, a sbucciare le colline smeraldo, dimenticando i nomi di tutti i villaggi che buchiamo. Fino alle porte di Dinkelsbühl.
È lì che ci fermiamo, in coda dietro ad altre decine di macchine, camper, furgoni.
Uno di noi si chiama Enrico, è mio fratello, capelli rasati, barba a coprirgli quasi tutto ciò che di lui mi somiglia, a parte gli occhi, lo stesso taglio ereditato da nostra madre.
Nei sedili posteriori, seduta tra un tavolo da campeggio, un sacco a pelo, dei cuscini e una cassetta da 24 di birre in lattina, c’è una ragazza. La sua fidanzata. Capelli verde acqua, tratti felini, un coccodrillo trafitto da frecce tatuato sulla coscia destra. Jessica.
Io e mio fratello viviamo lontani da molti anni. Lui in Italia, Io in Germania. Le nostre vite si incrociano raramente e per brevi momenti, perché è un processo necessario. La separazione è un male dolce e la malinconia è un dolore docile.
Questo è il nostro viaggio, in qualche modo, perché la Fiesta è diventata una Delorean e noi stiamo tornando indietro di tanto tempo, alla nostra adolescenza. Quando dormivamo nella stessa camera e insieme ascoltavamo la stessa musica e andavamo agli stessi concerti e facevamo fatica a sentirci parte del tutto, convinti che potevamo anche solo essere parte di qualcosa di preciso, non del totale. E lo siamo stati, in un modo tutto nostro, feroce e incoerente come può esserlo solo durante quegli anni.
Attacchiamo sul parabrezza un adesivo che indica che la nostra auto ha libero accesso all’area campeggio, ci stringono attorno ai polsi dei braccialetti di stoffa. Poi siamo dentro il Summer Breeze Open Air 2017.
Gli addetti, riconoscibili dalle pettorine fosforescenti, ci scortano in un’area verde momentaneamente semivuota. La vediamo riempirsi come in timelaps. Montiamo la tenda sotto nuvole che minacciano tempesta, con un occhio sempre al cielo e l’altro ai picchetti che affondiamo con le suole dei nostri anfibi nel terreno morbido e umido.
Da quando ho deciso di partecipare al festival penso a come riuscirò a dormire cinque giorni dentro una tenda, sdraiato su di un materassino gonfiabile, all’età che ho, con questa mia vecchia schiena. Come farò ad andare di corpo in un bagno pubblico senza bloccarmi ogni volta che sentirò qualcuno passare accanto alla mia porta, entrare nel bagno al fianco del mio. Con le abitudini che ho.
Abbiamo fatto un Inter Rail insieme, io e mio fratello, quando ancora non avevamo la fatica nel fisico e nella testa. Ci siamo mangiati la Spagna e il Portogallo divorando ogni millimetro delle strade che abbiamo percorso con la voracità di chi ha fame davvero. E noi ne avevamo molta, volevamo il mondo, volevamo scappare dal paesello, dai nostri genitori, dallo studio e dalla routine. Vedevamo la libertà come qualcosa che non si deve conquistare, ma che ti è giustamente dovuta, oppure semplicemente, avevamo la forza e la stupidità di sentirci padroni di poter arrivare dove desideravamo. Bastava il tempo e quel tempo ci ha fottuti, come ha fottuto tutti gli altri prima e dopo di noi.
Ora mio fratello vive a due chilometri dalla casa dei miei genitori, in una frazione di quel paesello che io ho lasciato a vent’anni. La vita, talvolta, ti dice che è giusto andare oppure restare ed io e lui non abbiamo mai amato le vie di mezzo, gli incroci. Così io sono andato e lui è rimasto.
Guardo da fuori questi due uomini dello stesso sangue percorrere la strada che dal campeggio li conduce ai palchi, nel primo giorno di programmazione, uno al fianco dell’altro, scortati da una folletto dai capelli del colore dell’oceano quando si avvicina alla terraferma. Li osservo indossare con disinvoltura un abbigliamento fuori tempo massimo, reggendo tra le dita birra in lattina e sorseggiandola. Parlano come se non fossero mai stati separati l’uno dall’altro, come se a dividerli ci sia stata solo una distanza impercettibile composta da inutile spazio temporale. Sanno tutto l’uno dell’altro. Pensano allo stesso modo e ci ballano intorno con le parole, sorridendo sbronzi e pensando che non sono mai stati lontani davvero. Sono siamesi divisi, ma sono sempre lì con la stessa pelle, la stessa carne e la stessa anima, una cosa unica e potentissima. Uno schiacciasassi invincibile.
Sanno di esserlo quei due giovani vecchi, imbattibili. Perché sono di nuovo insieme.
Il Summer Breeze festeggia quest’anno vent’anni dalla sua prima edizione. Il festival metal rock tedesco ha una programmazione di tutto rispetto. Hanno puntato forte e hanno vinto il piatto ancora prima d’iniziare la partita: gli early bird ticket sono sold out.
Ci spostiamo tra i corpi che popolano quella che è a tutti gli effetti una cittadina abitata da strambi personaggi: metallari dai capelli lunghi e lisci, vestiti di pelle e cuoio, il cerone sui volti, gli occhi spenti di chi si atteggia ad avere un dolore immenso. Vichinghi, druidi, punk con creste dai colori fluo alte trenta centimetri, ma anche individui travestiti da enormi peni, orsi giganti, un Gesù Cristo con tanto di corona di spine.
Qualcuno ci ha detto che a fare head banging ci si sballa, roba di ossigeno al cervello e forza centrifuga. Io non ho mai amato questa pratica, ho sempre preferito le birre, il pogo, lo stage diving, il crowd surfing, i circle pit.
Io arrivo dalla scena hardcore, ma non ho mai imparato a ballare mosh.
Al termine della seconda giornata, con ancora il palco principale chiuso al pubblico, all’una di notte, ascoltiamo gli svizzeri Schammasch, band black metal con influenze post rock. Chiudiamo gli occhi e viaggiamo lontanissimo, dove gli altri non possono arrivare, perché ognuno ha preso la sua direzione astrale.
Nell’area campeggio si usa fare un gioco particolare: ci si divide in due squadre distribuite equamente l’una di fronte all’altra ad una distanza di una decina di metri. Al centro si posiziona un bersaglio – abbiamo visto bottiglie d’acqua di plastica, pulisci water e anche una statuetta di legno di mezzometro della Vergine Maria.
Ogni giocatore ha davanti a sé una birra piena. A turni, un componente di ogni squadra lancia la palla e cerca di abbattere il bersaglio. Se ciò accade i componenti della squadra avversaria devono iniziare a bere la birra senza smettere fino a quando due dei componenti della squadra di lanciatori non sono riusciti a correre verso il bersaglio, risollevarlo, tornare indietro ed urlare stop.
Quando eravamo adolescenti, giocavamo alla cavallina contro il muro della centralina elettrica al centro di uno dei parchi giochi del paese. Tra di noi c’era anche Pepé, un writer di diversi anni più grande di me e della mia combriccola, fissato con gli Stati Uniti e il rap. A noi il rap non piaceva. Ai tempi ascoltavamo Deftones, Korn, Machine Head, oppure il punk hardcore dei Madball, Millencolin, Pennywise, Sick of It All, Ignition, Integrity e compagnia bella. E poi la roba italiana, soprattutto milanese: i Sottopressione, DeCrew, Stuntplasticpark, PHP.
Pepé pesava molto più di ognuno di noi, era enorme e quando arrivava esordiva sempre con “Perché seguite Pepè?” e noi eravamo obbligati a rispondere in coro “Perché tu sei Lo Re! Pepé Pepé Pepé, tu sei Lo Re.”
Il suo turno di saltare la cavallina era tutto uno scricchiolio di schiene magre, di tintinnare di catene legate ai pantaloni, mentre le sue sneaker Vans spiccavano il volo e il suo culo dentro pantaloni Combo atterrava sopra di noi.
Il terzo giorno notiamo un teschio di agnello impalato fuori da una tenda. Ci osserva attraverso le sue tante cavità senza vita e ci sembra di sentirlo parlare al contrario.
Apre anche il palco principale, i concerti iniziano alle 11 del mattino, ascoltiamo While She Sleep, Miss May I, Fight the Fight, Whitechapel, tutte band metalcore. I Fight the Fight sono una piccola sorpresa per le mie orecchie. Suonano nel Camel Stage, il palco più piccolo, un metalcore a tratti molto melodico che cattura e corre veloce. Mi sono trovato a pensarlo come una sorta di metal-hipster. Diventeranno famosi.
Poi è il turno degli August Burns Red, sull’enorme palco girevole chiamato Summer Breeze Stage.
Jake Luhrs, il frontman, è un gigante rasato con la barba possente, indossa una t shirt smanicata dei Miss May I ed è una potenza infinita, percorre il palco da una parte all’altra e sembra che lo voglia sfondare, tirandoci dentro anche il resto della band.
Durante l’Inter Rail in Spagna e Portogallo, ho scoperto e intuito cosa significa davvero avere l’istinto di protezione nei confronti del fratello minore. C’è sempre stato fin da quando lui è nato, a parte il giorno che ho deciso di volerlo buttare giù da una rampa di scale con tutto il seggiolone, spingendolo sulle rotelle per il corridoio, aprendo la porta di casa e venendo afferrato da nostra madre quando il danno era ad un soffio dal compiersi.
Però nel corso di quel viaggio di un mese io ho intuito quella cosa che adesso, con un figlio di poco più di un anno, vedo come una normalità. Ho portato sulle spalle il peso del proteggerlo per tutto il viaggio. Io non dormivo per lasciare dormire lui quando c’era da stare attenti alla fermate che con il treno dovevamo fare di notte. Io ero quello che stava ultimo in fila, subito dopo di lui, quando percorrevamo strade buie. Io ero sempre vigile quando, nelle grandi città, eravamo in mezzo a molta gente.
Nei momenti in cui siamo al campeggio, quando non ci sono concerti che ci interessano, io e mio fratello parliamo tanto, come a volere recuperare il tempo in cui non abbiamo potuto farlo. Seduti su sedie pieghevoli, appoggiati ad un tavolo di plastica da campeggio parliamo e non finiamo mai di farlo. Recuperiamo con le parole e i gesti i momenti che non abbiamo potuto avere insieme. Siamo un fiume inarrestabile. Davanti a noi la Delorean, rossa e silenziosa, attende il momento di riportarci nel futuro.
Il quarto giorno abbiamo, segnati in agenda, due appuntamenti su tutti: Crowbar e Hatebreed. Io aspetto di vederli entrambi dal vivo da anni. Il cielo si macchia di nuvole fin dal primo mattino. Carichiamo nei nostri zaini dei k way e ci avviamo.
Passiamo in scioltezza la mattinata, vedendo il deathcore violento dei Fallujah, il nu metal degli Infected Rain, saltiamo volentieri il power metal di Sonata Arctica ed Epica sul palco principale.
Poi arriva il momento.
Sul T-Stage, il palco di media grandezza, si preparano i Crowbar, sludge metal targato New Orleans. Chitarre profonde che sembrano il motore di un autoarticolato, la voce rauca. Insieme a loro le nuvole si compattano, si intristiscono e infine, a metà concerto, si lasciano andare ad un pianto tempestoso.
Tiriamo fuori i nostri k way, come tutti gli altri, li indossiamo e continuiamo a guardare il concerto. Io mi accorgo, quasi immediatamente, di avere un k way sbagliato. Nel senso che l’acqua non la ferma. Sono fradicio dopo dieci minuti. Scappo in tenda a disperarmi.
Gli Hatebreed suoneranno fra un’ora.
Smette di piovere, mi rifaccio la strada dal campeggio ai palchi correndo. Arrivo che hanno già iniziato, ma non piove ed io sono lì.
L’hardcore questa volta si sente completamente e tutti i miei muscoli tendono per riprendersi la giovinezza, vorrei lanciarmi nel pogo, partecipare ai circle pit che vengono chiamati dal cantante, Jamey Jasta. Ma non posso, perché non ho più il fisico e lo so. E allora mi tocca guardare da fuori quello che sono stato, con un sorriso malinconico e a tratti beffardo.
Il quinto e ultimo giorno prima della partenza, la pioggia ci da tregua e con lei anche il sole. È una giornata perfetta, equilibrata. I concerti che ci interessano sono molti. Siamo stanchi, ma siamo ancora qui, a prenderci tutto quello che possiamo, compresa la compagnia degli adolescenti tedeschi che, qualche metro distante dalla nostra tenda, ci torturano ogni notte, fino al mattino, con una cassa speaker, un generatore che quando è acceso sembra un mitragliatore e dei volumi indicibili.
Arrivo quasi al punto di alzarmi, uscire e urlargli contro che devono smetterla, devono spegnere. Poi comprendo che se lo fanno è perché è consentito e se dalle centinaia di tende attorno a loro nessuno è mai uscito per bloccare il loro delirio, significa che non sarò io a fermarli. Però vorrei ucciderli, giuro, nel cuore della notte, ascoltando le vibrazioni che scuotono il mio materassino, convinco i miei nervi a distendersi, le mie dita chiuse a pugno dentro il sacco a pelo ad aprirsi.
Faccio uno sforzo immane.
Suoneranno i Korn, i Terror, gli Heaven Shall Burn, i Dark Tranquillity, i Der Weg Einer Freiheit, gli Havok. Siamo stanchissimi ma elettrizzati fin dal primo mattino.
Decidiamo di passare il tempo in cui non ci sono concerti che ci interessano seduti sulle panchine di un biergarten a riposarci. E a bere birra, ovviamente.
I primi sono i Der Weg Einer Freiheit. Tutti scommettono su di loro, sono la rivelazione dell’anno, un postmetal violento capace di creare soundscapes di chitarre di una bellezza disarmante. Peccato l’abbiano fatti suonare di giorno. Sarebbero state meglio le tenebre.
Dopo di loro il trash metal degli Havok. Ignoranza e cattiveria. Ci divertiamo molto.
In un momento in cui ci stiamo riposando al biergarten, mentre chiacchieriamo mi raggiunge il suono di un concerto iniziato nel T-Stage, cattura la mia attenzione. Sono gli End of Green. Doom metal con tendenze placibiane abbastanza marcate. Mollo birra e vado a sentirmelo. Mi piace nonostante le sonorità non siano generalmente nelle mie corde.
La cover di Crossroads, del bluesman Calvin Russell, mi picchia in testa ancora oggi, mentre scrivo.
Arriva il tanto atteso momento dei Terror, per me, perché mio fratello preferisce spostarsi sul palco principale ad ascoltare i Dark Tranquillity.
I californiani sono l’accezione più precisa che ho nel considerare la cultura hardcore, nonostante le loro sonorità si spostino inevitabilmente verso il metal. È un grande concerto.
Un padre alza il proprio figlio pre-adolescente sulle teste di tutti, poi lo appoggia sulle mani della gente e la gente lo porta fino alla fine del primo pit, dove termina la sua onda. Il mio cuore si riempie.
Gli Heaven Shall Burn passano come un gigante che schiaccia il pubblico. Sono di una potenza disarmante. Non suonano, si riversano letteralmente sulla gente e la fagocitano.
E poi i Korn.
Ho un ricordo preciso, fa parte di quelle cose che chiudi nei cassetti della memoria e tiri fuori solo quando è strettamente necessario, per proteggerlo.
Ci siamo io e mio fratello nella nostra cameretta. Nel lettore cd dello stereo c’è Korn, il disco d’esordio. E noi poghiamo sulla traccia Clown. Dai letti saltiamo con i gomiti appuntiti protesi l’uno verso l’altro. È un’esplosione di libertà che solo noi due possiamo comprendere, in quel momento preciso, durante quell’anno, dentro quella camera. È l’amore che ci vogliamo e l’odio che proviamo verso tutto il resto.
Quando il concerto inizia siamo l’uno di fianco all’altro ed io mi vergogno mentre penso che non li ho mai visti dal vivo ed ora Jonathan Davis appare invecchiato e imbolsito.
Cantiamo a squarciagola e mentre lo facciamo stiamo comunicando, senza guardarci, senza toccarci, ci stiamo dicendo delle cose, io e mio fratello.
Poi lui si gira e mi dice, io vado. Mi sorride.
Tocca le spalle di due giganti che abbiamo davanti, quando si voltano gli fa un segno con l’indice verso l’alto e questi lo afferrano per le ascelle, poi per le gambe portandolo in alto. Lui si lascia andare, con le braccia aperte sopra la testa e quel sorriso stampato sul volto a guardare me e poi Jessica che gli urla Vai Vai. Ed io piango senza farmi vedere, perché guardo lui mentre scivola via dentro la sua onda perfetta e vedo me.
Quello è il momento in cui capisco una cosa fondamentale, che io sono stato per lui quello che vorrebbe essere sempre stato e lui per me è stato quello che vorrei essere sempre stato io. E questo significa solo una cosa: che io e mio fratello siamo.
Al termine del concerto vengono sparati fuochi d’artificio come simbolo della chiusura del festival. Migliaia di persone con il mento verso l’alto, nell’attesa e nel silenzio che si crea quando sai che è il momento di farlo davvero.
Io e mio fratello siamo ai cessi chimici a muro, uriniamo l’uno a pochi metri di distanza dall’altro ed è tutto lì, sotto una coperta nera che si illumina di colori che non ha mai avuto, mentre il nostro piscio si perde sul metallo, schizzandoci sui pantaloni.
Ora possiamo tornare nel futuro, penso.
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Immagine di copertina: © Enrico Grigolo
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