È il tardo pomeriggio di un venerdì buio e compassato, una piccola folla di fedeli sta uscendo dalla Oranienburger Straße Synagoge, un imponente edificio sormontato da una cupola dorata, nel quartiere di Mitte, a Berlino. In alto, proprio sul punto più estremo della struttura, a quota 50 metri, campeggia la stella di David, anch’essa dorata. Tra i fedeli che attraversano spunta anche Joseph. Israeliano, nato e cresciuto a Tel Aviv, si è trasferito ormai più di trent’anni fa nella capitale tedesca. “Ero ancora un ventenne quando sono arrivato in Europa” mi dice con una punta di rimpianto. “La città era molto diversa, questa sinagoga non esisteva nemmeno!”.
In realtà la sinagoga esisteva già, ma non stupisce il fatto che Joseph non se la ricordi. Costruita tra il 1859 ed il 1866 da Eduard Knoblauch e Friedrich August Stüler, con i suoi 3000 posti a sedere era la sinagoga più importante e prestigiosa della Germania. Grazie all’intervento di Wilhelm Krützfeld, ufficiale della polizia durante il periodo nazista, l’edificio fu danneggiato solo molto limitatamente durante la famosa Notte dei Cristalli, fra il 9 e il 10 novembre 1938, quando le SS diedero ordine di distruggere e incendiare tutti i luoghi di incontro della comunità ebraica in Germania. Fu sempre grazie all’intervento di Krützfeld che la sinagoga restò aperta al pubblico per le celebrazioni religiose fino al marzo del 1940. Ma se l’ufficiale riuscì a proteggere l’edificio dai nazisti, non poté fare molto contro le bombe. La navata principale fu sventrata tra il 22 ed il 23 novembre 1943, e poi demolita nel 1958. Oggi solo la facciata conserva il tratto originale. I lavori di ricostruzione iniziarono nel 1988, un anno prima della caduta del Muro, e furono finalmente completati nel settembre del 1991, esattamente 125 anni dopo la prima consacrazione.
Joseph non è un ebreo praticante, o almeno così dice. Di tanto in tanto frequenta le celebrazioni o si presenta a qualche evento organizzato dall’attiva comunità israeliana berlinese, ma nulla di più. In ogni caso, a suo parere se si vuol parlare di israeliani a Berlino, una visita a questa sinagoga è il punto di partenza imprescindibile. Nel 1995, insieme alla riconsacrazione della sinagoga, è stato inaugurato, a pochi metri di distanza, lo Stiftung Neue Synagoge – Centrum Judaicum Foundation. Il centro è un punto di incontro tra passato e futuro. Da una parte racconta la storia degli ebrei a Berlino, ripercorrendone i momenti salienti e raccontando la storia della Neue Synagoge an der Oranienburger Straße. Dall’altra lavorare con le associazioni, sia giudaiche che non, per promuovere la cultura e l’identità ebraica nella capitale tedesca.
Per addentrarsi nello spicchio più vivace del quartiere israeliano, bisogna spostarsi di qualche isolato. Questa volta a farmi da guida è Karen, una ragazza israeliana trasferitasi a Berlino da tre anni. Mentre camminiamo da Rosentahler Platz fino alla nostra meta, Torstraße 159, mi racconta la sua storia e di come abbia deciso di mollare un lavoro da consulente ben pagato per trasferirsi in Germania a fare la barista. “Povera ma felice”, d’altronde, è il suo motto. Quando arriviamo da Shiloh, il ristorante nel quale mi ha invitata, inizia a spiegarmi quanto importante sia la cultura del pasto nella tradizione israeliana e la sottile differenza, che ancora mi sfugge, tra humus israeliano e quello arabo (più tahini? Più spezie?). Mentre ceniamo, Karen mi spiega che i suoi nonni facevano parte di quella fetta di popolazione che tra il 1933 e il 1945 perse la cittadinanza tedesca e che oggi può riottenerla automaticamente. “Sono così felice di avere una cittadinanza europea. Se avessi solo il passaporto israeliano ci sarebbero così tanti paesi dove non potrei andare.”.
Guardandomi intorno, non vedo molte differenze tra questa zona e una qualsiasi altra parte di Mitte. Sì, è vero che nei dintorno di TorStraße ci sono più ristoranti e snack bar con cucina israeliana del solito ma, in fondo, non sono molti altri gli indizi che possano definire l’identità di questo borgo come specificamente ebraica. E poi, ebraica o israeliana? Karen ride. “Non apriamo un dibattito infinito. Certo, l’identità della zona non è pronunciata come a Neukölln o a Kreuzberg (quartieri ad alta concetrazione di famiglie di origine turca ed araba), ma se ci fai caso anche qui i segnali sono molti. E credimi, la cultura ebraica a Berlino sta rifiorendo, basta anche solo guardare a quanti nuovi locali con cucina tipica israeliana stanno aprendo in questa zona.”.
Quando mi incammino verso Hackescher Markt, noto che in questa zona le Stolpersteine sono decisamente più frequenti rispetto alla già alta media della capitale tedesca. Le Stolpersteine, letteralmente “pietre dell’inciampo”, sono dei sampietrini sporgenti ricoperti da una piastra di ottone, che si trovano in diversi paesi europei per ricordare le vittime delle deportazioni naziste. Sopra la pietra viene riportata la data, il luogo di nascita e quello di morte (o presunta tale) delle persone che abitavano nella zona in cui sono posizionate. Berlino, per ovvie e tristi ragioni, ne è piena. Arrivata a destinazione mi trovo nel cuore di quello che era il ghetto ebraico fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Difficile immaginarselo oggi, visto che la piazza, appena fuori dalla stazione della SBahn e a pochi minuti dal quartiere dei Musei, è piena di turisti, circondata da suoi ristoranti impersonali e dai prezzi decisamente al di sopra degli standard berlinesi.
A pochi passi dalla stazione ci sono gli Hackesche Höfe, un complesso di otto cortili in stile secessionista tedesco e collegati tra di loro. Inaugurati il 23 settembre 1903, i cortili ospitavano diverse attività commerciali: negozi di guanti e pellicce, mobili, caffè e persino una banca. Anche diverse organizzazioni, tra cui la Jüdischen Frauenbundes (l’associazione di donne ebree fondata dalla femminista austriaca Bertha Pappenheim) e la Jüdische Studentenmensa (la mensa per studenti ebrei), trovavano casa nei cortili. Ma il gioiello degli Höfe era Der Neue Club, la sede di una delle prime avanguardie letterarie espressioniste, in cui all’inizio del Novecento si tenevano letture e conferenze. La Prima Guerra Mondiale mise in crisi moltissime attività commerciali e culturali, che dovettero ben presto chiudere i battenti. Con il dominio nazista, i pochi ebrei rimasti furono costretti a fare le valige e nel secondo dopoguerra i cortili vennero per lo più utilizzati come magazzini.
Oggi, nei 27.000 metri quadrati di spazio, trovano casa circa 40 società commerciali, diverse istituzioni culturali, un cinema, un teatro, un club e persino delle abitazioni private, che dopo i lavori di ristrutturazioni sono diventate tra gli immobili più costosi della capitale tedesca. Ma, a livello culturale, la vera memoria storica ebraica di Berlino è lo Jüdisches Museum, il Museo Ebraico, sulla Lindenstraße 9-14, nella Kreuzberg che confina con il limite meridionale di Mitte, da molti considerato il quartiere ebraico a Berlino. Progettato dall’architetto polacco Daniel Libeskind, uno dei maggiori esponenti viventi del decostruttivismo, è il più grande museo ebraico d’Europa e ripercorre due millenni di storia ebraica in Germania.
Il nome della collezione permanente è proprio Due millenni di storia degli ebrei in Germania e parte dai primi insediamenti medievali per arrivare fino alla contemporaneità. Si racconta la storia di personaggi di origine ebraica che hanno segnato la vita culturale, politica e intellettuale della Germania. Tra questi, Glickl baas Judah Leib, vissuta nel XVII secolo e passata alle cronache come la prima donna tedesca a scrivere un’autobiografia, e il filosofo Moses Mendelssohn, padre dell’illuminismo ebraico Haskalah, nonno del compositore Felix e sostenitore di una concezione estetica basata sulla cosiddetta poesia del sentimento. Quando lo visitai per la prima volta, nel 2013, fu la struttura dell’edificio che ospita il museo ad impressionirmi. Innanzitutto per la costruzione, tutto meno che funzionale, ma affascinante. Vista dall’alto ha la forma di una linea a zig-zag e per questo è stata soprannominata Blitz (fulmine): dovrebbe ricordare una stella di David decomposta. Le finestre, sottili e lunghe, sono disposte in maniera completamente casuale e tutto è ricoperto da lastre di zinco. Sin dall’entrata ci si immerge nella storia del popolo ebraico. Si percorrono tre corridoi in pendenza, detti assi. Gli spazi vuoti, voids, che attraversano l’intero museo e si formano nei punti di intersezione delle linee, i dislivelli e le cavità impervie, contribuiscono a creare un’atmosfera greve e pesante, che si percepisce ovunque all’interno della struttura.
Se lo Jüdisches Museum rappresenta il testamento spirituale di Israele in Germania, per concludere il viaggio entro la comunità ebraica a Berlino, decido di visitare uno dei quattro cimiteri ebraici della capitale tedesca. Secondo i dettami dell’ebraismo, non c’è più nulla dopo la morte, perché la vita non finisce mai, piuttosto si eleva, liberando l’anima dal corpo e avvicinandola alla sua fonte. Per questo, non essendo mai stata in un cimitero ebraico, non ho idea di quale tipo di atmosfera aspettarmi. Il cimitero è quello di Schönhauser Allee, vicino a Senefelderplatz, nel quartiere di Prenzlauerberg, zona nordorientale di Berlino. Qui non viene seppellito più nessuno dal lontano 1880, per questo non mi stupisce il fatto di non trovare visitatori in giro, a parte il custode. Proprio lui mi offre, controvoglia, una piantina su cui viene indicata la posizione delle tombe più celebri del camposanto. Non conosco nessuno dei nomi segnati sulla mappa, mi fermo quindi ad osservare il monumento alla sinistra dell’entrata principale, un blocco in arenaria disegnato da Ferdinand Friedrich nel 1961 per commemorare la distruzione degli edifici circostanti durante la Seconda Guerra Mondiale. Sul monumento si legge: “Hier stehst du schweigend, doch wenn du Dich wendest schweige nicht!, “Qui resta in silenzio, ma quando te ne vai non restare zitto”.
Seduta su una panchina del cimitero, mi rendo conto di quanto sia difficile provare a raccontare la comunità ebraica berlinese; un’impresa titanica, ostacolata dalla miriade di materiale a disposizione, complici i due millenni di storia degli ebrei nella città, e da istituzioni a volte ostili, incastrate dentro un ambiente talmente geloso delle sue tradizioni da, talvolta, non volerle neppure spiegare o condividerle. Forse è solo una forma estrema di Ahavath Israel, “Amore per il popolo ebraico”. E forse io, che quella eredità non l’ho ricevuta, non riuscirò mai a capire sino in fondo.
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