Padova, Piazza Garibaldi, 2018
Due zaini Invicta sono appoggiati per terra mentre una sedia pieghevole blu è accostata ad una bicicletta. Poco più un là un gruppetto di uomini parla; li supero, i nostri sguardi si incrociano.
Quella è stata una delle prime volte che ho notato questo gruppo di persone che chiacchierava, le loro cose lasciate a terra. Giorno dopo giorno è stato sufficiente uno scambio di sorrisi e qualche parola pronunciata per caso perché tra me e loro si stabilisse una conoscenza e iniziassero così delle conversazioni, sorte dalla semplice coincidenza di trovarsi alla stessa ora, nello stesso luogo.
C’era però un arco di tempo, dopo le 11.00 e fino a poco prima delle 13.00, in cui non li incontravo più. Non capivo dove andassero e così glielo chiesi.
«Alla mensa dei poveri», risposero.
Quel giorno mi si aprì una finestra su un mondo che prima di allora non conoscevo: il mondo delle persone senza fissa dimora. Quella finestra non si è mai chiusa, anzi ha continuato ad aprirsi sempre di più, perché incuriosita dalle storie che mi erano state raccontate da alcuni clochard, a giugno di quest’anno ho deciso di vedere questo mondo più da vicino e visitare le associazioni che si occupano di dare assistenza alle persone in difficoltà.
Padova, Stazione Centrale, Giugno 2021
Quando esco dalla stazione c’è molta gente accalcata ai tavolini dei bar, una visione che viene interrotta dal tram in transito. Di solito in prossimità di questa zona riuscivo a incontrare alcune persone senza fissa dimora conosciute in piazza Garibaldi, ma dopo il 2020 segnato dal covid non ho più rivisto nessuno di loro, pur passando ripetutamente per i luoghi che erano per “noi” abituali.
Dalla stazione mi sposto verso il centro, nelle prossimità di Piazza Duomo, dove nei paraggi, in via Bonporti, si trova il centro di ascolto della Caritas, servizio che offre non solo sostegno psicologico, ma anche i contatti dei servizi sociali, un ente fondamentale, in quanto rilascia i permessi per poter accedere alle strutture gestite dal Comune, come ad esempio il dormitorio.
È un venerdì mattina e arrivo un’ora prima dell’orario di chiusura. Ad attendere ci sono solo due uomini. In modo naturale inizia la conversazione tra me e il più giovane di loro. Ha all’incirca 55 anni e con sé ha uno zaino, è vestito in modo sportivo ma con cura, sembra uno dei tanti cittadini che affollano le piazze. La prima cosa che mi dice è: «Sai qual’è il diritto più importante dell’essere umano? La vita. Se non si riesce a preservare e vivere la vita in modo dignitoso smetti di sentirti un essere umano».
Mi “conosce” da pochissimi minuti, eppure le sue parole scorrono come un fiume tormentato.
Mi confida che si trova senza fissa dimora da qualche anno, da quando ha perso il lavoro. A volte riceve i permessi per dormire nelle stanze affittate dalla Caritas in qualche b&b, mentre in generale o è ospite di conoscenti o dorme all’aperto, in uno spazio abbastanza riparato che si trova in provincia di Padova. Mi racconta che per anni ha dormito all’aperto, poi è stato a vivere dal figlio, che risiede in un’altra regione, ma recentemente ha perso il lavoro pure lui e da lì ha dovuto riarrangiarsi e ritornare in Veneto.
«Non sono i padri che devono chiedere aiuto ai figli, dovrebbe essere il contrario, ma se ci fosse la volontà di chi è al potere potremmo vivere tutti con dignità». Già, se ci fosse la volontà.
Gli chiedo com’è vivere e dormire per strada: «Ogni giorno devi pensare costantemente a come sopravvivere: dove mangiare, dove dormire, come spostarti nel modo meno visibile, senza però mai fare l’errore di dare per scontato che gli eventi vadano come il giorno prima. La testa è esclusivamente orientata per soddisfare i bisogni primari, ma questa non è vita. O meglio non è la vita che un essere umano si aspetterebbe di fare».
La sua risposta mi procura il flash di uno scorcio di un racconto di W, un ospite del dormitorio conosciuto in Piazza Garibaldi nel 2018. «Il giorno, siccome il dormitorio resta chiuso, vago per la città. Quando c’è freddo mi rifugio in biblioteca o in qualche luogo pubblico, mentre quando c’è un caldo sopportabile preferisco stare all’aperto. Devo calcolare tutti i tempi e nelle ore libere devo inventarmi qualcosa da fare, senza dare troppo nell’occhio».
La giornata di chi è ospite del dormitorio è scandita da ritmi che si presentano, nella ripetitività delle azioni, identici. I loro orari non seguono un ritmo naturale, ma la programmazione dei luoghi che frequentano, come ad esempio la mensa o le docce. Eppure, come mi ripeteva sempre W, l’imprevisto è dietro l’angolo: è l’inatteso che disegna le esistenze.
Nel tono e nelle parole dell’uomo che incontro agli sportelli della Caritas intercetto un’amarezza profonda che in W era pressoché assente, sembra leggermi nel pensiero e mi risponde: «Non c’è nulla di poetico nel fare questa vita».
La porta della sala del centro di ascolto si apre; è il suo turno, ci salutiamo e le nostre strade si dividono.
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È già la seconda volta in una settimana che passo per via del Carmine, dove hanno sede gli uffici dei servizi sociali. Il mio obiettivo è informarmi su come funzionano gli accessi alle strutture comunali predisposte alla tutela delle persone senza fissa dimora. Da queste due visite non riesco a ricavare molto, anzi, diciamo pure nulla. Malgrado ciò, dopo svariati passaggi burocratici, ottengo l’autorizzazione per accedere alla Casetta Borgomagno, ovvero le docce pubbliche, struttura che dal 2019 è gestita dalla cooperativa sociale Coges don Milani.
È un primo pomeriggio di metà giugno, il sole si ribalta sul piazzale della stazione risucchiando la mia ombra nelle trame del cemento del marciapiede bollente: grido caldo in un’unica luce. La Casetta Borgomagno si trova in via Eremitano, sotto il ponte dell’Arcella, e dista pochi metri dalla stazione dei treni. I murales presenti costeggiano la mia figura che cammina veloce.
Già al mio ingresso un vivace fermento di voci mi accoglie, mentre sullo sfondo si staglia la sagoma di un giovane intento a stendere una maglia che ha appena lavato a mano, affiancato da un gruppo di ragazzi tunisini che in attesa di farsi la doccia chiacchierano nel cortile.
La mia presenza è nuova e viene vista con curiosità, in qualcuno anche con un po’ di circospezione, ma appena viene reso chiaro il motivo della mia presenza e di quelle future, il clima si scioglie e trovo chi è disposto a raccontarmi la propria storia.
La povertà è stratificata, non tutti si trovano a vivere per strada per lo stesso motivo. C’è chi è povero perché ha fatto scelte sbagliate, c’è invece chi, non avendo i documenti e i permessi di soggiorno, è impossibilitato a trovare un lavoro e di conseguenza non ha l’opportunità per pagarsi un affitto. Le docce racchiudono entrambi questi mondi: da una parte i clochard, nel senso tradizionale del termine, dall’altro gli immigrati e i richiedenti asilo.
La Casetta Borgomagno non è l’unico servizio docce presente a Padova, ma sono le sole ad accesso libero, anche per chi è senza documenti o non ha la tessera distribuita dal Comune, indispensabile per usufruire delle mense e, appunto, delle docce. Proprio per questo motivo la Casetta è in gran parte frequentata da immigrati, provenienti perlopiù dal Nord Africa, in particolar modo dalla Tunisia. Tra di loro, comunque, incontro anche alcuni italiani.
Vittorio e Francesco (nomi di fantasia) hanno superato entrambi i 50 anni. Vittorio è veneto, mentre Francesco viene dal Friuli. Entrambi vivono in strada da più di dieci anni ed, esattamente come molti clochard che dormono all’aperto e non nelle strutture, stanno sempre in coppia, perché, mi spiegano, essere in due permette di assistersi a vicenda in caso uno dei due stia male. Inoltre, uno sorveglia le cose dell’altro quando ci si assenta.
Vittorio entra nell’area docce e Francesco inizia a parlarmi. Sul suo viso sono evidenti i segni di una vita non molto generosa, la mancanza di una tregua e di riposo emerge nelle varie escoriazioni che gli percorrono quasi tutto il corpo e che in estate peggiorano, arrossandosi. Gli chiedo se ha male e mi risponde di sì, aggiungendo un rassegnato: «ma cosa posso farci?».
Le vite di Francesco e Vittorio si incrociano molti anni fa, dopo un periodo passato in carcere si sono ritrovati catapultati in una realtà a loro estranea e in cui reinserirsi è risultato impossibile: è iniziata così la vita che continuano a fare ancora oggi.
«In Friuli possedevo una casa di proprietà e anche un lavoro come operaio, poi ho perso il lavoro, sono incominciati i debiti e anche la casa non c’è stata più; tra una scelta sbagliata e un’altra, mi sono ritrovato senza nulla. L’esperienza del carcere ha peggiorato le cose, una volta uscito ero completamente abbandonato a me stesso e la vita in strada mi è sembrata essere l’unica alternativa, specialmente quando non possiedi niente e i rapporti con la famiglia sono da tempo interrotti».
Le parole di Francesco trovano riscontro in una notizia di cronaca che esce proprio mentre sto lavorando al reportage. Abdel Majid Mabchour, un clochard di 45 anni, viene ritrovato morto nel suo giaciglio a Padova, anche lui era da pochi giorni uscito dal carcere ed esattamente come Francesco e Vittorio non ha avuto altra scelta che vivere per strada. Da quanto riportato dai giornali si narra che si riesce a risalire alla sua identità grazie alla tessera della mensa delle cucine economiche popolari, che viene ritrovata nelle sue tasche.
Vittorio esce dall’area docce e ci raggiunge in cortile. Indossa gli stessi vestiti, che cerca di sistemarsi. Gli chiedo cosa faranno una volta usciti dalla Casetta. «Quello che facciamo sempre: andiamo un po’ a zonzo chiedendo qualche soldo in giro e poi, sperando che nessuno ci controlli, prendiamo l’autobus e ritorniamo nella casa in costruzione, dove al momento dormiamo».
Li lascio chiacchierare nel cortile mentre mangiano qualcosa che è stato loro offerto.
La questione del dove dormire è veramente una tra le preoccupazioni maggiori che affliggono i senza fissa dimora. Il dormitorio del Torresino, situato nei pressi del centro, ha infatti la disponibilità di 80 posti letto, numero che aumenta nel periodo invernale con il piano “emergenza freddo”, arrivando a raggiungere 181 letti, distribuiti in altre strutture come l’’ex scuola Gabelli, la cooperativa Lunazzurra, l’albergo Casa a colori e Casa Arcella, postazioni letto che fortunatamente sono rimaste attive anche nel periodo di lockdown.
Per essere assegnatari di un posto, tuttavia, bisogna fare richieste e passaggi burocratici che non sempre coincidono con le esigenze immediate delle persone. È perciò evidente che in estate più della metà dei clochard di Padova, essendo in totale all’incirca 300, è incapace di accedere alle strutture, rimanendo costretto a dormire per strada.
Chi non riesce ad accedere ai dormitori ha due alternative: o dormire per strada e nei parchi o occupare case abbandonate. C’è anche chi è un po’ più “fortunato” e possiede una roulotte usata, ma l’opzione più frequente, specialmente tra gli immigrati, resta quella di occupare le abitazioni in disuso.
«Bisogna che ci nascondiamo, che passiamo inosservati» mi dice un ragazzo tunisino, utente della Casetta. «Nei parchi o all’aperto c’è sempre il rischio di qualche controllo, e anche se alcuni di noi hanno il permesso di soggiorno, abbiamo lo stesso paura».
Tra di loro c’è anche Karim (nome di fantasia), che è tunisino, ha all’incirca 40 anni e ha da poco perso il lavoro come manovale. Non ha soldi e al momento è costretto a dormire in un edificio abbandonato fuori Padova, viaggiando sul treno senza biglietto.
«Mi vergogno tantissimo, ogni volta che mi chiedono il biglietto sono in imbarazzo, la gente attorno mi guarda come se fossi un delinquente, ma non ho altra scelta perché a Padova sono aumentati i controlli ed è rischioso dormire qui. Di recente sono riuscito a fare qualche colloquio di lavoro, e spero che mi chiamino presto. Vivo con la speranza che un giorno qualcosa cambierà. Ma, ad oggi, sono ancora in questa situazione».
«Anche se andiamo a dormire per strada la nostra presenza è comunque poco gradita, e continuamente ci viene chiesto cosa facciamo. L’unica via per evitare problemi è quindi nascondersi» afferma Karim, ribadendo un fatto che mi viene confermato da tutti i senza fissa dimora da me incontrati, siano essi italiani o stranieri.
Mentre converso con Karim una certa vivacità si diffonde in Casetta. C’è chi parla degli Europei di calcio, chi della Coppa d’Africa. Questo scenario “sereno” è però soltanto una scintilla nel deserto, non destinata a durare. Tutti gli utenti della Casetta, una volta usciti da lì, dovranno fare i conti con la realtà, dovranno ritornare a dormire sentendo la durezza del cemento sulla propria pelle e sulla schiena, a rimediare un posto dove poter sbrigare i propri bisogni fisiologici senza essere visti ed evitando di sporcare il giaciglio, sperando che quella notte passi il più in fretta possibile, e auspicando di non stare male, perché anche chiedere aiuto risulterebbe rischioso.
Ricordo che la prima volta che conobbi questi ragazzi qualcuno rimase stupito dal fatto che volessi scrivere di chi vive per strada. Le parole di uno di loro rimbombano come una tragica sentenza: «A pochissime persone interessa di noi». Mi ringraziò inoltre perché gli avevo rivolto la parola. «Molta gente ci evita», mi disse.
Più isolati, seduti sul divanetto di una stanza adibita a salottino, ci sono due ragazzi afgani. Hanno non più di 23 anni e parlano solo inglese, il che li rende maggiormente emarginati. Hanno attraversato metà del Medio Oriente in cerca di una nuova vita. Uno dei due mi racconta delle bombe che ha visto esplodere nella sua città. La Guerra tradotta in parole spezzate, che scolpiscono immagini violente, e io non mi sento all’altezza di questo ruolo.
«Sono già fortunato ad essere qui, ora però mi piacerebbe trovare un lavoretto e poter iniziare un’esistenza diversa». La loro vita è raccolta in uno zaino contenente solo qualche vestito. «In questo zaino deve starci tutto, senza essere però pesante, perché lo abbiamo sempre con noi».
Gli chiedo dove dormono: «Al parco. Lì c’è fresco». Alla loro uscita dalla Casetta mi sorridono con gentilezza, davanti a loro si prospetta un’altra giornata di sopravvivenza, un’altra giornata nella terra degli invisibili.
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Le luci della sera calano su Padova e un buio leggero avvolge gli edifici che si accendono dall’interno, diventando essi stessi fari nella notte. Ed è forse questo passaggio verso una soglia dell’incertezza visuale che fa affiorare un aspetto della città che nel chiarore del giorno non si vede. L’immagine della stazione, svuotata dal via vai dei viaggiatori, muta, svelando così un altro suo lato.
Sono da poco passate le 21.00 e non molto lontano dall’uscita si vede l’ambulanza della Croce Rossa. Il mercoledì è uno dei giorni settimanali in cui la Croce Rossa consegna cibo e mascherine ai senza fissa dimora nei pressi della stazione. Varie persone sono sedute agli angoli dell’edificio centrale, altre invece sono sparpagliate attorno al piazzale; alcune le riconosco, in quanto tra di loro c’è chi usufruisce delle docce della Casetta. Riconosco M, una donna rumena di più di 60 anni. Se ne sta seduta osservando l’orizzonte e mostrandoci orgogliosa il suo vestito nuovo. M non è l’eccezione, ma non è nemmeno la regola. Trovare un fissa dimora di sesso femminile non è infatti improbabile, ma non è così comune. Durante questo mio percorso le donne incontrate sono state in tutto cinque, questo perché, oltre il fatto di essere sostanzialmente meno numerose dei clochard uomini, nel migliore dei casi vengono inserite in qualche struttura protetta, ad esempio per donne vittime di violenza e abusi, mentre negli altri casi, i più comuni purtroppo, molte di loro entrano nel giro della prostituzione e della tossicodipendenza: mondi sotterranei e nascosti che le rendono ancora più introvabili e difficili da intercettare.
Più in là, nelle prossimità dei posteggi delle bici, emerge un gruppetto di uomini e anch’essi, come i molti clochard italiani incontrati, superano i 50 anni. Nessuno di loro ha un passato in carcere o storie di dipendenze, eppure, per una serie di coincidenze drammatiche si trovano ad aver perso tutto quello che possedevano. «Mi sa che moriremo in questo stato, per noi ormai non c’è più via d’uscita». Frasi che precipitano come sassi scagliati nel vuoto. Esattamente come Vincenzo e Francesco, Roberto e Guglielmo (nomi fittizi) stanno sempre assieme per assistersi e sorvegliarsi le cose, anche perché in passato sono stati entrambi vittima di qualche furto.
Questo particolare dei furti mi riporta alla mente C, un senza fissa dimora conosciuto in piazza Garibaldi nel 2018 e che è stato a lungo ospite del dormitorio.
Per timore di essere derubato C non si separava mai dalle sue due borse….”ma pesano”, mi diceva. Ho sempre pensato che a lui, come agli altri senza tetto, mancasse il potersi sentire libero, il non doversi caricare sempre “sulle spalle” il peso di quel poco che gli era rimasto, il ricordarsi costante di non avere un posto dove poter lasciare le proprie cose, in quanto gli armadietti al dormitorio funzionano soltanto di notte e finché ci si trova lì, dopodiché, una volta usciti, bisogna svuotarli.
L’ultima volta che vidi C era Gennaio 2020. Lo incrociai per strada e mi comunicò che era uscito dal dormitorio e che gli era stata affidata una residenza della Caritas in cui vivevano altre quattro persone. Notai però che con sé aveva ancora le sue borse. Quando gli chiesi il motivo, mi rispose:
«In questa vita è meglio non fidarsi di nessuno».
Gli occhi chiusi in direzione del passato si spostano al presente e davanti a me ritrovo Roberto e Guglielmo. Mi raccontano che loro non usano le docce della Casetta, ma quelle presenti all’interno delle Cucine Economiche Popolari, in cui si servono anche del servizio di mensa e dove, essendo presente un guardaroba, spesso trovano anche vestiti di ricambio. Le Cucine Economiche Popolari è uno tra i servizi più importanti della città di Padova per dare assistenza a chi è in seria difficoltà.
Situate in via Tommaseo, vicino la stazione, sono considerate il punto di riferimento centrale per molti senza fissa dimora, in quanto al suo interno sono presenti numerosi servizi, tra cui,l’ambulatorio medico e ginecologico e lo sportello degli Avvocati di Strada, quest’ultimo presente anche in via Bonporti, al centro ascolto della Caritas. A gestire le Cucine è Suor Albina che incontro una mattina di inizio giugno proprio all’interno dell’edificio in via Tommaseo.
Quando entro sono accolta dal sano fermento che giunge dalla cucina. I cuochi e volontari si stanno preparando per servire un altro pranzo, mentre dalle finestre noto il riflesso di chi è già fuori ad aspettare di entrare. Non posso non pensare che il momento della mensa sia per le persone in fila uno dei rari istanti in cui non si sentono esclusi e in cui il loro “esserci” non richiede giustificazioni.
«Per fortuna che c’è Suor Albina» mi dice Roberto. Conversando con Roberto e Guglielmo giungo a capire che tra le problematiche più gravi dei senza tetto non c’è solo quella di trovare un posto dove dormire, ma anche quello di procurarsi dell’acqua potabile.
Se infatti il cibo si riesce in qualche modo a reperire, grazie alle mense delle Cucine economiche e del centro di ritrovo diurno la Bussola, o alla distribuzione mattutina di pane dell’Opera del Pane dei Poveri delle suore del Santo o ancora con la consegna gratuita di ortaggi il sabato mattina presso lo spazio condiviso del Catai, l’acqua, a parte la bottiglia consegnata durante i pranzi e le cene delle mense, resta un miraggio. L’unica via di reperirla è comperarla, ma questa è un’opzione spesso difficile da concretizzare, soprattutto nei periodi estivi, quando una bottiglia non basta. La città inoltre presenta pochissime fontane di acqua potabile e quella situata nei pressi della stazione non è tra queste. Soffermandomi su questo problema scopro un’altra cosa allarmante, ossia che nemmeno i volontari possono distribuire acqua. Tra il bombardamento mediatico e pubblicitario che, talvolta con fare paternalistico, invita a bere acqua, a idratarsi e a non uscire nelle ore più calde, coloro che sono sempre esposti al sole e all’afa sono letteralmente lasciati senza acqua.
Guglielmo e Roberto mi raccontano che anni fa stavano in Veneto soltanto in estate, mentre in inverno, a causa del freddo, si spostavano al Sud o a Roma.
«Abbiamo viaggiato quasi tutta l’Italia, e possiamo dire che al Sud sono veramente ospitali, le persone ti vedono in stato di bisogno e ti aiutano o si fermano perlomeno a parlarti; però negli anni la diffidenza verso la gente come noi è aumentata e da un po’ siamo fermi qui, anche perché con il Covid tutto si è complicato».
Roberto e Guglielmo, come altri clochard, hanno la residenza fittizia (via città di Padova 999) necessaria per usufruire di tutti i diritti e dei servizi assistenziali del Comune, supporto burocratico di cui si occupano gli Avvocati di Strada, e che si è rivelata indispensabile durante il lockdown per non incorrere in ulteriori problemi o in una maggiore ghettizzazione.
Saluto Roberto e Guglielmo dirigendomi con due operatori della Croce Rossa verso un’area limitrofa della stazione, il buio è calato sulla città e sui marciapiedi le ombre artificiali dei lampioni contrastano la notte.
In una zona isolata incominciano ad emergere i primi giacigli vuoti. Coperte sono appoggiate vicino a un materasso e a qualche rivista, tra questi letti che guardano il cielo potrebbero esserci anche i giacigli di Renato e Guglielmo. Non molto distante, in un cortile circondato da uffici, c’è invece chi già dorme, saranno in tutto 10 persone, qualcuno saluta e incomincia a parlare, altri rimangono distesi, ma la serata sta per finire e le forze del giorno hanno lentamente abbandonato tutti.
Quella notte, guardo il cielo dalla finestra e penso ai senza fissa dimora là fuori, e a quanto essi siano creature protette solo dalle Stelle e dalla Luna, mentre una mareggiata di cemento si abbatte su di loro, che inghiottiti dalla solitudine sembrano sussurrare: «non vi scordate di noi».
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