Noto all’inizio dell’autunno è un bagno di sole, con i più vari idiomi in chiacchiera, che salgono le scale, entrano nelle chiese, respirano l’incenso fin sotto la mascherina.
Nei negozi di souvenir si vendono Modica e Bronte confezionate in carte e cofanetti dalle scritte dorate in rilievo. I raggi assorbiti dalla pietra dorata degli edifici restituiscono perle di acqua e sale sulla fronte. Il mare compare solo se ci si sporge in punta di piedi dai parapetti della città alta, dove i vicoli sono tanto stretti da doversi strusciare alle pareti, come i gatti.
Nel primo pomeriggio ai davanzali si affacciano i grilli e le cicale. I portoni delle chiese restano chiusi, proteggono al loro interno l’ombra e il fresco.
Da uscio a uscio una donna urla alla dirimpettaia; il petto le si alza e appresso le va il vestito casalingo con un motivo floreale: “Cca nnenti c’è, nnenti c’è”.
Più che niente nessuno. Nella parte alta di Noto non c’è nessuno: questo deserto assolato è riempito da un calore inappropriato per ottobre, dall’odore della minestrina delle case al primo piano, e dalle voci del telegiornale. Nella parte inferiore del centro, invece, una sfilata di pannelli che ritraggono la Vucciria di Guttuso si susseguono lungo il corso; lì di gente ce n’è, tutti turisti che viaggiano da una sponda all’altra della strada per visitare palazzi, chiese, teatri.
I pannelli conducono ad una mostra, Novecento, curata da Vittorio Sgarbi e inaugurata il 4 febbraio di quest’anno. Interrotta poco dopo, durante il lockdown, ha riaperto il 30 maggio al pubblico, e chiuderà infine il 30 ottobre. Il titolo completo della mostra è Novecento. Da Pirandello a Guccione. Artisti di Sicilia e propone uno spaccato dell’arte siciliana prodotta nel ventesimo secolo o da artisti nati nel corso del Novecento.
Compro il biglietto all’ingresso mentre sbircio distrattamente il cortile interno, caratterizzato da quella stessa pietra chiara che riveste la città per intero; salgo poi le scale del Convitto delle Arti, dove la mostra è ospitata.
Non ci sono premesse, non ci sono cartelli esplicativi. Non viene indicato un percorso specifico, nulla. Sono da sola, di nuovo, fisicamente sola al primo piano di un palazzo con almeno cinque sale espositive. E sono lasciata sola, senza istruzioni in merito a quello che sto osservando.
Apprezzo moltissimo tutto questo silenzio.
Le pareti sono chiare, beige; c’è odore di tele e olio, e sapone per le mani. Dentro le cornici, invece, i colori sono squillanti, provocatori, urlano fin dalla prima sala. Richiamano l’attenzione come i pescivendoli al mercato. Ma in questo esplodere di rossi e blu e visi pallidi, c’è ancora silenzio, c’è altra solitudine.
È la solitudine del periodo storico a cavallo tra i due conflitti mondiali, un’epoca ferita dalle battaglie, vinte o non vinte, comunque perdute. Generazioni disilluse dall’idea esaltante, esaltata, della guerra. La guerra incoraggiata e combattuta dai futuristi, presentata in forme dinamiche e aerospaziali. Lontana dalle scene allegre della Bella Epoque e dalla potenza espressiva dei Fauve, eppure in accordo, per il suo spirito irruento, col vigore delle avanguardie artistiche di inizio Novecento.
La solitudine del post guerra è fatta di piombo. Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta i quadri sono scatole di latta da riempire con oggetti-ricordo pieni di ruggine. Palazzi gialli, finestre squadrate, cortili deserti, cieli incontaminati. Due figure su un lato, un adulto e un bambino: gli angoli delle loro bocche tendono al basso, allungando le linee che accompagnano i movimenti dei muscoli facciali. La luce sotto i loro occhi rende il loro sguardo stanco, una stanchezza temporale più che fisica. Sono Caratteri (Daniel Schmiedt, 1930) corporalmente pesanti, solidi e soli.
Tutti i personaggi nella schiera di opere di questa prima sala sono caratteri silenziosi; avrebbero da raccontare, ma ne hanno perduto la voglia. Si raccolgono al bordo di un tempo lento, che tende all’eterno. Gli accadimenti, nel bene e nel male, non mutano più il loro stato d’animo.
All’albeggiare degli anni ‘80, la solitudine diventa cronica. Le lande inviolate del gruppo di Scicli (movimento artistico originario del comune di Scicli, in provincia di Ragusa), appannate dalla foschia del mattino e immerse nei colori della natura siciliana assolata, ne catturano uno squarcio campestre o marino; sono paesaggi che tuttora si lasciano mirare e ritrarre nelle composizioni delle nuove generazioni.
Scavallato il 2000, la solitudine è consolidata nell’insieme dei suoi modelli: passeggeri urbani dei trasporti pubblici, passanti, madonne con lo smartphone in braccio (Cronotipo 39, Croce Taravella, 2018). Il grigio topo è il colore della contemporaneità, come nel ‘37 era il colore di Guernica.
Il rapporto con Picasso è costante in questo Novecento siciliano esposto, specialmente con Guernica e in modo sinestetico. Non sono gli occhi terrorizzati e le bocche spalancate a risaltare, ma le urla e le bombe e l’odore della cenere che si alza, il bruciore agli occhi e una silenziosa confusione, gli elementi che tornano lungo il corso di un secolo intero. E i cavalli, impazziti come quello al centro della composizione del pittore spagnolo.
Senza averne una piena conferma, delle ipotesi rilevate dall’interpretazione di alcuni scritti di Renato Guttuso lasciano intendere che Picasso, già prima di concepire Guernica, avesse visto quantomeno una raffigurazione dell’affresco Il trionfo della morte (metà del XV secolo), custodito nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo: protagonista un cavallo scarno e dalla dentatura forte che contorce la lingua, piantando gli zoccoli sui corpi a terra di ecclesiastici e gentil dame.
Ma forse l’interscambio tra Picasso e i Siciliani è più emotivo che figurativo, e il cavallo diventa solo un simbolo di questa muta intesa.
A Catania il cavallo corrisponde a un altro tipo di arte, che si svolge a tavola: polpette di carne equina al pistacchio, salsicce, bistecche, fettine, filetti. Carne saporita, vagamente selvatica, tenera al coltello, da assaporare nei ristoranti e da comprare nelle macellerie di strada: un bel tocco di muscolo rosso-violaceo, tra i banchi, predominanti, del pesce al mercato.
Le voci della piazza si rincorrono nella confusione delle strade e delle piazze addobbate con odori e sapori, e irrompono nell’ultima sala della mostra al primo piano: pende sulle scale che conducono al pianterreno, dove il percorso prosegue, un altoparlante che ripropone in loop le onde del mare, seguite da una voce invadente che richiama l’attenzione dei passanti. Non si distinguono le parole, accompagnate dalle note ascendenti di un organo; non importa cosa dicano, è bello immaginarlo: chi parla ha già catturato i suoi clienti e ora si mette a cantare con delicatezza e una nascosta mestizia i prodotti del mare e della terra che ha da offrire al loro palato, e al palato dei visitatori per cui le scale sono uno scivolo verso il quadro-copertina di Novecento, La Vucciria di Renato Guttuso (1974).
La Vucciria, dal francese “boucherie” (macelleria) è il nome con cui è conosciuto il mercato di Palermo, nel quale un uomo dagli zigomi fortemente pronunciati e dalla capigliatura folta e scura, si fa notare per la sua quotidiana malinconia più che per il suo lupino vividamente giallo. È un invitato solitario a questa festa di colori, e il bisbiglio delle arance e il brusio dei pomodori, l’odore penetrante delle trecce di salami alla sua sinistra e quello fresco e intenso dei tranci di pesce spada alla sua destra, gli sono familiari, ma lui non se ne accorge. Una donna avanza verso di lui e, per ogni passo, delle pieghe morbide compaiono sul vestito all’altezza dei fianchi. Un uomo dalla carnagione scura spicca dalle piastrelle nivee retrostanti e confonde il suo camice bianco con i cartocci di giornale e le uova, prima che il candore si perda tra limoni e sedano e finocchi e olive. Le casse della verdura sul bordo sinistro sono innaturalmente esposte, ribaltate secondo una prospettiva che, passando per i cubisti, era appartenuta a Cézanne. E poi le carrube, le mele, i capelli scostati, dietro l’orecchio, della ragazza bionda che sta decidendo se comprare o meno le pere. Le banane, i meloni, i polipi, le noci, i gamberi, le seppie, i formaggi, il costato di una vacca che pende da un grosso uncino, le buste di plastica, i sacchi di juta.
È una natura viva che appassisce appena fuori i bordi del quadro, dove si perde la fantasia e si incontra la scena quotidiana, in cui un dialetto dalle vocali lunghe e aperte si assopisce a fine giornata: i mandarini rotolati sull’asfalto aspettano di essere raccolti dagli spazzini, che non porteranno via – per fortuna – la puzza del pesce non venduto, né le tracce della cicoria calpestata dagli avventori e ripassata nelle pozze d’acqua in cui sguazzano le galosce gialle dei banchisti che smontano all’ora in cui nelle case già si prepara la cena. E poi i Cachi caduti (II, Nino Cordio, 1989), le triglie avvolte nella carta lucida plastificata (Ugo Attardi, anni ‘80) che l’acquirente tiene sotto braccio allontanandosi: è tutto ciò che accade quando la Vucciria si spegne, il sole se ne va, le cicale continuano a cantare e le campane suonano otto rintocchi.
Dopo il tramonto, di nuovo torna il silenzio nei vicoli; la notte trasporta il brusio nelle piazze e nelle vie più larghe e illuminate. La solitudine riabbraccia quei passanti che mentre camminano ascoltano il rimbombo dei loro tacchi e sentono addosso lo sguardo fosforescente e indispettito dei gatti che li guardano sfuggire al loro disappunto. Dentro e fuori dalla cornice, dentro e fuori il percorso curato da Sgarbi e che raccoglie la storia di un secolo, la Sicilia è un tableau vivant nel quale i turisti passeggiano spalancando la bocca di fronte a delle meraviglie che per alcuni costituiscono, incredibilmente, un’abitudine.
Tutto scorre, prosegue, con estrema e invidiabile lentezza. La lentezza del passo, delle espressioni dialettali, delle giornate calde, costantemente calde, dell’autobus che va da Catania ad Acitrezza, e che non passa mai.
La Sicilia vive una stabile, perenne, imperturbabile attesa, in un tempo straordinariamente dilatato; un tempo in cui, se ci si siede alla banchina della stazione di Acireale alle undici del mattino, la familiarità delle circostanze sa rispondere ai più grandi dilemmi dell’esistenza.
REDAZIONE
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