“A riot is the language of the unheard” disse Martin Luther King Jr in un discorso del 1967, le cui parole in questi giorni sono spesso ripetute sui social media:
“E cos’è che l’America non ha saputo ascoltare? Non ha saputo sentire che…le promesse di libertà e giustizia non sono state rispettate. E non ha saputo sentire che ampi segmenti della società bianca sono più preoccupati di mantenere la tranquillità e lo status quo che per la giustizia, l’uguaglianza e l’umanità “.
Nell’antica Grecia, dove l’idea di governo democratico ha avuto origine, il popolo che poteva accedere agli strumenti decisionali della democrazia diretta non era costituito dall’intera comunità di tutte le persone che condividevano la stessa area geografica, ovvero il luogo dove le decisioni prese sarebbero state effettive per tutti, ma solo coloro considerati all’altezza di prendere parte al processo decisionale, che erano circa il 10% della popolazione. Per avere diritto di voto dovevi essere un cittadino di sesso maschile e aver compiuto l’addestramento militare; donne, schiavi e stranieri erano invece totalmente tagliati fuori. L’esclusione di una parte di popolazione è uno dei tratti della democrazia che da sempre si protrae nel tempo: infatti, se, come affermò Abraham Lincoln, la democrazia è “the government of the people, by the people, for the people”, dobbiamo però sempre domandarci “who are these people”?
Fino alla seconda metà del XIX secolo, ad esempio, negli Stati Uniti gli schiavi non erano considerati parte integrante del popolo, quindi, tra le altre cose, non potevano votare. Sino agli anni quaranta del XX secolo in Francia e in Italia le donne non avevano diritto di voto, e in Italia erano considerate praticamente delle minorate: oltre al diritto di voto, era loro negato diventare giudici o accedere alle cariche pubbliche più importanti. In Inghilterra, ai detenuti viene tuttora temporaneamente sospeso il diritto di accesso alle urne. O ancora, pensiamo a tutte quelle persone che vivono in un paese di cui non possiedono la cittadinanza, o in uno diverso da quello di nascita: nel 2015 erano al mondo 244 milioni. Questi non fanno parte del popolo su cui si fonda la democrazia dello Stato in cui vivono e in cui pagano le tasse, ma subiscono invece le scelte prese da altri: già da questi esempi si evince quindi quanto sia fondamentale, quando si fanno riflessioni a proposito della democrazia, domandarsi chi siano effettivamente le persone incluse nella definizione di “popolo”.
Sit-in, Greensboro
L’1 Febbraio del 1969, quattro studenti afro-ameicani del North Carolina Agricultural and Technical College – Ezell Blair Jr., David Richmond, Franklin McCain e Joseph McNeil – decisero che si sarebbero seduti al bancone del ristorante di Woolworth, che seguiva la politica di servire solo i bianchi, e che non se ne sarebbero andati sino a che non fossero stati anche loro serviti. I ragazzi, influenzati da Gandhi e dai Freedom Rides organizzati dal Congresso per l’Eguaglianza Razziale (CORE) e con l’aiuto e il supporto di Ralph Johns, un uomo d’affari bianco, sedendosi al bancone fecero la loro ordinazione, che gli fu rifiutata, ma decisero comunque di non lasciar i loro posti. Fu allora richiesto l’intervento della polizia, la quale però non poteva fare nulla, perché non vi era un reato in quello che i ragazzi stavano facendo. Il sit-in sin da principio ricevette un grande interesse da parte dei media, che diffusero la notizia in tutta l’America. I quattro ragazzi restarono seduti ai loro posti da Woolworth sino a chiusura e il giorno seguente si ripresentarono all’ora dell’apertura: non erano più solo in quattro, erano in molti di più. La storia andò avanti per giorni e ogni volta il sit-in si espandeva, sempre di più: il 5 febbraio erano in 300 studenti, e alla fine di Marzo le proteste si erano diffuse in 55 città di 13 stati. Alcune persone furono arrestate, ma la copertura mediatica nazionale della rivolta pacifica stava procurando una crescente attenzione al movimento per i diritti civili. In risposta al successo del sit-in iniziato dai ragazzi, le strutture per la ristorazione in tutto il Sud furono aperte ai neri entro l’estate del 1969. Alla fine di luglio dello stesso anno, quando per molti studenti universitari locali c’erano le vacanze estive, anche il Woolworth di Greensboro cominciò silenziosamente ad integrare il servizio di ristorazione alle persone di colore. Tra i primi serviti figurano Geneva Tisdale, Susie Morrison, Anetha Jones e Charles Best, impiegati della stessa catena.
Un secondo aspetto della democrazia che da sempre è strettamente legato a questo sistema di governo è lo spazio pubblico, l’area dove i cittadini vivono e interagiscono tra di loro. La stessa parola “politica” deriva dal greco “polis” – città – e sin dai tempi della sua ascesa nell’antica Grecia, la democrazia come mezzo di organizzazione della polis è da sempre stata associata alla comunità di cittadini dotata di diritti inalienabili e allo spazio in cui questi cittadini esistono come entità politica. Se nell’Antica Grecia le decisioni venivano prese nella piazza dell’epoca, l’agorà, e a Roma nel foro, storicamente e ancora oggi gli spazi pubblici e le piazze sono uno strumento politico che si evolve e si modifica a seconda del tipo di governo vigente, a dimostrazione del fatto evidente che la pianificazione urbana sia tuttora intrinsecamente interconnessa alla politica. Le piazze, le strade, i parchi sono, sotto tanti punti di vista, una valvola di sfogo per la popolazione e fanno parte dell’esperienza urbana dei cittadini e della loro vita di tutti i giorni. Quando una parte di popolo non è riconosciuta come tale, è negletta o è trattata ingiustamente dalle decisioni politiche, le persone che si sentono escluse, arrabbiate, offese, hanno un solo modo per fare sentire la loro voce: unirsi e protestare. Per questo gli spazi pubblici devono essere non solo i luoghi dove la comunità s’intrattiene, si riunisce e si esprime, ma anche spazi che danno la possibilità ai cittadini di dimostrare il loro malcontento.
Utopicamente, quindi, architetti e urbanisti dovrebbero dare forma a luoghi che favoriscano l’interazione sociale, ma anche politica, per onorare l’idea propria di città che nasce con la democrazia. I progettisti, però, sono invece spesso usati come la mano che rende esplicito l’aspetto tangibile del potere. Se una vera democrazia si riconosce anche dalle piazze delle sue città, dai luoghi e dai regolamenti che favoriscono le riunioni di persone e la loro libera espressione, in una dittatura, al contrario, le piazze e gli spazi aperti saranno declinati a favorire di altri scopi, saranno ad esempio ampi, alle volte enormi, per poter essere usati come teatro di manifestazioni militari cui fare assistere l’intera popolazione, o per scoraggiare con il loro design poco invitante le assemblee pubbliche. Un esempio a questo proposito si ha con piazza Tienanmen a Pechino: dopo la dimostrazione del 1989 le panchine e gli alberi che la ombreggiavano sono stati rimossi, per disincentivare gli incontri tra i cittadini. La piazza oggi appare come l’opposto di uno spazio pubblico. Evans Osnos, giornalista del New York Times, la descrive come una “Strange emptiness”, una strana vuotezza, quarantaquattro ettari di spazio che appare immenso e che in chiunque può indurre un senso di spaesamento simile all’agorafobia.
Madres de la Plaza de Mayo, Buenos Aires
Plaza de Mayo a Buenos Aires è un luogo fondamentale nella storia argentina: oltre che centro politico, finanziario e amministrativo del paese, è stato negli anni un importante fulcro di rivolte, terribili disastri e forti speranze che hanno caratterizzato la storia del paese. Uno dei simboli più emblematici di Plaza de Mayo sono le Madres de la Plaza, le madri della piazza. A partire dagli anni Settanta questo luogo è infatti diventa il punto di riferimento abituale per l’incontro, ogni giovedì, delle donne che reclamavano i loro figli scomparsi durante la dittatura (1976 – 1983). In un primo momento le madri scendevano in piazza per chiedere il rilascio dei figli spariti, i desaparecidos; poi le loro dimostrazioni pubbliche sono continuate, affinché i responsabili delle uccisioni dei dissidenti fossero chiamati a rispondere della loro morte davanti alla giustizia.
Oggi anche il liberalismo è una delle forze che scolpiscono gli spazi pubblici. Storicamente sia lo Stato che i privati cercano di ridurre le possibilità di proteste e di dimostrazioni nei luoghi pubblici. E’ in questa tendenza che si collocano, in Inghilterra e negli Stati Uniti, i cosiddetti POPS, privately owned public spaces, cui è legata la più grande svendita di terreno pubblico, sin dal 1800, nei due paesi. Si tratta di aree che oggi includono, nel Regno Unito, un grande numero di piazze e di vie dello shopping, in zone spesso connesse a progetti di riqualificazione, come a Londra, che è l’epicentro di queste vendite, con il More London, gli spiazzi che circondano la City Hall e Granary Square.
Se i POPS sono apparentemente degli spazi pubblici, dove i cittadini possono transitare e incontrarsi, allo stesso tempo sono però governati da regolamenti peculiari che spesso sono tenuti segreti, e sono controllati da guardie private che a loro discrezione possono bloccare manifestanti, persone che giocano a palla, skateboarder, senzatetto e persone che bevono alcool in strada, quindi sono luoghi che funzionano al di là della legge che normalmente vige sugli spazi pubblici.
Come scrive Sabino Cassese nel suo libro “I limiti della democrazia”, se nel passato le democrazie sono state degli organismi imperfetti nel funzionamento e limitati nell’applicazione, questo è vero ancora oggi e in tutto il mondo si cerca ancora di perfezionarle, nonostante si sia spesso inconsapevoli della loro incompletezza. Uno dei modi per creare migliorie in un governo democratico è proprio quello di ascoltare i suoi cittadini. Infatti, la stragrande maggior parte delle persone non si unisce alle proteste, di qualsiasi tipo esse siano, per puro divertimento, ma lo fa anche a sacrificio della propria sicurezza e alle volte mettendo a repentaglio persino la stessa vita, quando sentono di non avere altri modi con cui esprimere le loro richieste e il loro disappunto. Come Stephen D’Arcy scrive in “Language of the Unheard”, protestare è l’ultimo dei baluardi degli oppressi e degli esclusi, e allo stesso tempo è un’opportunità per insistere su ciò che molto spesso la politica officiale tende a ignorare: che si protesta per la dignità di ogni cittadino e per il benessere di tutti. Infatti, non ci sarebbe ragione di creare tumulti e dimostrazioni pubbliche se la democrazia funzionasse in maniera efficiente ed equa, ma se ne sente invece necessità dove questa è lacunosa e dove ha cessato di tenere in considerazione la totalità e la complessità dei suoi cittadini. E questo è proprio quello che sta succedendo oggi negli Stati Uniti: a 53 anni dal discorso di King, le pratiche razziste nei confronti dei cittadini di colore non sono affatto terminate, e anzi sono intrinseche nel sistema politico statunitense più profondamente di quello che si è portati a credere. Per rispondere alla rabbia che questo tipo di iniquità provocano, l’unico modo per fare valere i propri diritti è quello di gridare a gran voce all’ingiustizia, all’omicidio, alla perpetuazione della supremazia dei bianchi sulle altre etnie.
La protesta di Piazza Tienanmen, Pechino
Il 15 aprile del 1989 muore l’ex segretario generale del PCC, il riformista Hu Yaobang, stretto collaboratore di Deng Xiaoping, licenziato nel 1987 per “gravi errori politici”. A due anni di distanza dal suo licenziamento gli studenti scendono in piazza Tienanmen per chiedere la sua riabilitazione politica. A maggio la protesta si estende ai lavoratori e agli studenti delle scuole e coinvolge un numero sempre crescente di province cinesi, cui si aggiungono anche Hong Kong, Taiwan e diverse comunità di cinesi all’estero in tutto il mondo. Ma le risposte da parte del governo non sono convinceti: il 13 maggio gli studenti proclamano lo sciopero della fame a oltranza, e si entra così nella fase più drammatica della protesta. Il 19 maggio viene proclamata la legge marziale. Zhao Ziyang, il segretario di orientamento riformista che aveva cercato di aprire un dialogo con gli studenti, è destituito e condannato agli arresti domiciliari, Pechino viene circondata dall’esercito. La situazione precipita in un’aperta guerriglia tra militari e militanti, sino alla sconfitta totale del movimento, dichiarata il 4 giugno. Il governo cinese ha sempre negato che la rivolta sia sfociata in una carneficina. Eppure, ancora oggi i numeri sulle morti durante la guerriglia e nel periodo di epurazione che l’ha seguita non sono stati chiariti: le stime vanno da 400 sino a 2500 morti.
Da sempre cittadini scontenti e ignorati da leggi e governo, sono scesi in piazza per fare valere i propri diritti, utilizzando vari modi per protestare; la violenza non è sempre stata necessaria per arrivare alla conclusione voluta, ma la nostra percezione dei fatti spesso dipende dalla narrazione che se ne fa. Ad esempio, le proteste delle donne per il suffragio universale sono spesso evocate come dimostrazioni non violente, ma questo non è del tutto vero. Anche se spesso viene dimenticato, persino le suffragette hanno dovuto, a un certo punto, alzare il tono della loro voce e “infrangere qualche finestra”. E anzi, quello delle suffragette è l’unico movimento di massa della storia inglese dopo il luddismo che ha fatto uso di violenza, legittimata come tattica necessaria. Diverse organizzazioni di suffragette avevano iniziato a formarsi durante l’era Vittoriana, e ognuna combatteva a modo suo per convincere il governo a concedere il diritto di voto alle donne. Fu nel 1903 che nacque la WSPU, Women’s Social Political Movement, che faceva riferimento alle quattro donne della famiglia Pankhurt: Emmeline la madre e le sue tre figlie Christabel, Sylvia e Adela. Le Pankhurt credevano fermamente che sarebbero state le morti, e non le parole, a far sì che il governo avrebbe finalmente concesso il voto alle donne: “Se gli uomini usano esplosivi e bombe per i loro scopi, la chiamano guerra”, scrisse Christabel Pankhurst nel 1913, “e lanciare una bomba che distrugge altre persone viene quindi descritta come un’azione gloriosa ed eroica. Perché una donna non dovrebbe usare le stesse armi degli uomini? Non è solo la guerra che abbiamo dichiarato. Noi stiamo lottando per una rivoluzione!”.
Un’altra delle proteste in corso oggi, a partire dal giugno del 2019 sta avvenendo ad Hong Kong. Hong Kong, che è stata colonia britannica sino al 1997, è ritornata da allora sotto controllo dell’autorità cinese, secondo una politica detta “un paese, due sistemi” (one country, two systems). Questo ha assicurato agli abitanti di Hong Kong una certa indipendenza dal governo di Pechino, e una conseguente maggiore libertà ai suoi abitanti. La legge contro cui i militanti protestano e che ha scatenato la prima rivolta avrebbe consentito l’estradizione di sospetti criminali nella Cina continentale, in determinate circostanze. Chi si è opposto alla legge l’ha fatto affermando che questa rischiava di esporre Hong Kong a processi iniqui e trattamenti violenti, e sostenendo inoltre che il disegno di legge avrebbe dato alla Cina una maggiore influenza sul paese e sarebbe potuto essere usato per colpire attivisti e giornalisti. Per protestare centinaia di migliaia di persone sono scese in strada: dopo settimane di tumulti, il leader Carrie Lam ha concesso di sospendere la legge a tempo indeterminato. Lo avrebbe fatto se nessuno avesse protestato? Se nessuno fosse sceso in piazza per proteggere i propri diritti?
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