‘All of which are american dreams’
Rage Against the Machine
Prologo. Mi ricordo di Qualcuno.
Sono stato bocciato due volte. Due su due il primo anno all’Istituto Tecnico Industriale Statale.
In quegli anni avevo per la testa moltissime cose, per la maggior parte farfalle e riccioli di fumo truccato. Ma non sono mai stato un fancazzista, ero uno a cui non piaceva gli si insegnasse qualcosa. Tutto quello che ho imparato, l’ho letto sui libri che volevo leggere. Durante il secondo primo anno di ITIS, ho avuto un professore che ho detestato e apprezzato in egual modo. Non ne ricordo il nome. Lontano dagli occhi lontano dal cuore. Insegnava Fisica. Era uno di quegli insegnanti che per ottenere ciò che voleva, ovvero essere seguito, era disposto alle peggio cose. Con il senno di poi lo considero un vigliacco, perché è più semplice imporre il proprio potere che insegnare.
Però era anche un uomo che riusciva, quando voleva, a sedersi al nostro livello. Per questo provavo anche una parte di rispetto.
Di lui non potrò mai dimenticare due cose.
La prima è una frase che mi disse, durante l’ennesimo rimprovero verso una verifica consegnata in bianco o una scena muta a cui avevo reagito ascoltandolo con quel mio sorriso impercettibile fra le labbra. Un sorriso di una sfida che avevo perso in partenza, ma che non avevo mai mollato.
La frase era questa: “Grigolo, c’è una cosa che non ho mai capito di te e che mi fa molto incazzare: ogni volta che ti parlo mi guardi in un modo che non riesco a capire se sei uno stupido o se mi stai prendendo per il culo.”
Era un osso duro lui, utilizzava un gergo scurrile perché poteva permetterselo. Il secondo indimenticabile episodio accadde durante una seconda ora di lezione di Fisica, in laboratorio.
In classe eravamo una quindicina, solo ragazzi, di questi in quattro o cinque formavamo un gruppetto a parte. Non ricordo nessun nome, cognome o soprannome, ma ricordo che tra questi c’erano due ragazzi come me bocciati il primo anno. Li chiamerò per convenienza Marchino e Albertone, perché uno era magro come un chiodo, capelli biondi lisci lunghi e uno sguardo da volpe, l’altro una montagna di adolescente, con il volto punteggiato di acne e gli occhi stupidi e spiritati. Una volta mi costrinsero a pippare del gesso da lavagna sbriciolato, utilizzando una Bic smembrata, giurandomi fosse cocaina. Fu divertente. Per loro.
Quel giorno, durante la lezione di Fisica, successe che qualcuno praticò un piccolo buco in uno dei grossi banchi da Laboratorio, utilizzando la lama di un temperino da matita, poi ci svuotò dentro del bianchetto liquido e, non contento, qualcuno o qualcun altro decise di disegnare lungo gran parte del banco, sempre utilizzando il bianchetto, la scritta SATAN.
Qualcuno, qualcun altro oppure io utilizzò il proprio accendino per incendiare la scritta. La vampata fu incredibile, come anche la piccola esplosione generata dal bianchetto inserito nel piccolo foro.
Naturalmente La Banda dei Qualcuno fu veloce a scomparire dalla scena un attimo prima dell’esplosione. Lo zaino di un compagno, appoggiato sullo schienale di una sedia davanti al banco prese, naturalmente, fuoco. Una cosa da niente, si spense da solo qualche secondo dopo.
Successe poi che il professore si arrabbiò molto, giustamente, e altrettanto giustamente non volle lasciarla passare liscia. La nostra era una ‘buona classe’ e nessuno spifferò nulla.
Poi accadde una cosa che solo dopo molti anni compresi nella sua totalità. Suonata la campanella, finita la lezione, il professore chiese a me e a un altro gruppetto di ragazzi di fermarsi nel laboratorio. Tu, tu, tu e pure tu.
Tra questi c’ero io, c’erano Marchino e Albertone, c’era qualcun altro. Quell’ometto piccolo e volgare che tanto ho detestato e tanto amato e di cui infine ho dimenticato il nome, non stava cercando i colpevoli. Stava cercando Il Colpevole. Non si era nemmeno posto il dubbio che quella deplorevole vigliaccata fosse stata pensata e messa in atto da più persone in modo, diciamo, armonico.
E aveva ragione.
Marchino aveva avuto l’idea per il buco. Aveva svitato il temperino ed estratto la lama. Si era messo a scavare, con pazienza. Albertone ci aveva svuotata dentro il correttore universale, così, all’improvviso, senza pensarci molto. Io conclusi l’opera dilettandomi nel mio pasticcio satanista. Poi qualcuno aveva acceso e pum.
Ciò che era successo non era stato armonico, era stato il frutto di una serie di individui con teste diverse, capitati lì intenzionalmente ma in momenti differenti. Marchino era un annoiato prodotto della classe agiata della provincia milanese, Albertone era stupido e aveva bisogno di una guida, di essere il braccio operativo di una testa più funzionante della sua. Io volevo essere accettato, far parte di un gruppo. Volevo una banda.
Quindi chi cercava davvero il nostro professore? Chi era davvero il colpevole? C’era un solo colpevole? C’era qualcuno colpevole di aver forato un banco, qualcuno colpevole di aver cosparso di bianchetto l’intero banco, qualcuno di aver acceso il bianchetto fresco.
Come andò a finire la vicenda non lo racconterò, perché sono riuscito a tenerlo nascosto ai miei genitori fino ad oggi, ma credo che in parte fu causa della mia seconda bocciatura.
Primo atto. Molti sono i rivoltosi, una è la rivolta.
C’è un video interessante che sta girando in rete. Questo:
È il prodotto di un drone o di un elicottero – stando all’audio originale è più probabile il secondo – durante le proteste che stanno dilaniando gli Stati Uniti a seguito della morte dell’afroamericano George Floyd, avvenuta durante le fasi di arresto da parte dell’agente Derek Chauvin, agente della Polizia di Minneapolis.
Nel video si nota uno schieramento di volanti bianche abbandonate che vengono saccheggiate e danneggiate da un fitto gruppo di riots afroamericani. Alcuni ragazzi spingono una delle auto vuote lungo la carreggiata, facendole prendere velocità per poi schiantarsi contro un’altra volante. Gli agenti, inermi, la lasciano sfilare, come fosse una palla da bowling sul lane. Alcuni riottosi sfondano i parabrezza delle volanti saltandoci sopra a piedi uniti. Pietre contro i finestrini. Un cofano viene aperto, cosparso di gasolio e incendiato. Un ragazzo fruga in un bagagliaio, trova un cappello della divisa della Polizia, lo indossa. C’è una donna, è in pigiama e pantofole. In molti sono a volto coperto. Altri a volto scoperto. Il video dura 3.34 minuti e l’audio, se ascoltato per intero, a qualsiasi volume settato, è assordante.
Di testimonianze come questa ce ne sono a migliaia sui social. Ciò che sta succedendo ha dei precedenti, ma in qualche modo è raro nel suo genere. Forse per via dell’intensità degli scontri, oppure per la figura controversa che siede, in questo momento storico, dietro la scrivania presidenziale della Casa Bianca. Probabilmente per la stanchezza, la rabbia e la paura che ha portato a tutto ciò.
Si assiste a una rivolta. La ribellione è una sola, volta ad un unico scopo rivoluzionario, il cambiamento, che diventa però multiplo di se stesso nel momento in cui i personaggi hanno scopi differenti. Sono simili ma non uguali. È la legge stessa della rivolta. Potrebbe sembrare un concetto semplice, ma a quanto pare non lo è, perché nell’immaginario comune la rivolta parte da uno o più episodi legati tra loro ma isolati – ed è assolutamente vero – e ha uno scopo solo, protestare a seguito dell’episodio scatenante. E questo, in parte, non è vero.
L’essere umano fa parte di un branco, ma è anche un individuo con la sua storia, la sua formazione, la sua cultura. La sua guerra.
Ho fatto un piccolo viaggio mentale, riguardando più volte, in loop, il video di cui sopra. Mi sono chiesto chi fossero i ragazzi, gli uomini e gli adolescenti che, passando attraverso l’occhio della telecamera, lasciano quell’impronta così violenta nell’immaginario storico di un’epoca, una brutalità che, se circoscritta ai quei tre minuti e mezzo, sembra quasi fine a se stessa. Chi è il ragazzo che fruga nel bagagliaio della volante distrutta trovando un cappello della divisa di un agente? Perché lo indossa con noncuranza, come se fosse parte di un processo naturale e autonomo. È un gesto che sembra compiere senza pensarci, visto da quassù, dall’elicottero e fin dentro la mia stanza, a Berlino.
Dove è nato il gigante a volto scoperto, incappucciato in una felpa rossa che fruga all’interno di un’altra auto e ne esce a mani vuote aggirandosi poi lì intorno, in cerca di qualcos’altro da danneggiare o saccheggiare? Ha studiato? Dove? Chi sono i suoi genitori, sempre che abbia ancora dei genitori?
Per diversi minuti, non ne conosco con precisione il motivo ma credo di supporlo, sono rimasto a guardare, in fermo immagine, la donna in pigiama e ciabatte, anche lei in strada. Ho cercato di carpire quale fosse la fantasia disegnata sui suoi pantaloni grigi. Volevo sapere qualcosa in più e quello poteva essere un dettaglio. Forse non è così assurdo.
Ciò che voglio dire è che lì in mezzo, in quel video come in tutti gli altri che ogni giorno mi fermo a guardare, ci sono degli esseri umani e c’è una rivolta. Tra quegli esseri umani c’è gente arrabbiata, che protesta, in modo violento oppure in modo pacifico, contro un male profondo della nostra società. Esprimono la loro frustrazione verso il danneggiamento dei loro diritti civili. Tra questi uomini e donne in rivolta c’è, però, anche una parte che ha come scopo quello di sabotare la protesta – sono infiltrati, sono pedine, ma non li puoi distinguere. Sono lì, simili se non uguali a tutti gli altri.
In quell’oceano che esprime la propria furia ed esasperazione ci sono poi gruppi di attivisti pacifici, pronti al dialogo, e gruppi di militanti in cerca di gloria o di qualcosa su cui sfogarsi: una vetrina, un palazzo, una volante della Polizia. Ci sono le gang, che sono sempre state presenti, a fare alla luce del sole quello che hanno sempre fatto nascoste nell’ombra. C’è una parte dei white people che si vuole lavare la coscienza e una parte dei white people che ci crede davvero, che lo sente sotto quella pelle di un colore più fortunato quanto è difficile.
Ci sono quelli che saccheggiano, si riversano in strada, nelle vene della rivolta, come dei coyote sono pazienti e aspettano che le fiamme si spengano per prendere ciò che vogliono o ciò che non potrebbero avere in altro modo.
E tra questi multipli ci sono sottomultipli e sotto-sottomultipli ancora. Non c’è un nucleo, se non la rivolta stessa. Non c’è mai stato. Ci sono quelli in cerca di un posto di rilievo nella gang, quelli che hanno perso il lavoro, quelli che sono cresciuti nel quartiere sbagliato, quelli cresciuti nel quartiere giusto. Quelli che hanno tutto e quelli che non hanno niente, quelli che un padre non ce l’ho e quelli che mio padre è stato ucciso dalla Polizia. Quelli che non guadagno abbastanza spacciando. Quelli che hanno bisogno di essere accettati, come me all’ITIS. I violenti, i pacifici e i pacifisti, gli stupidi, gli intelligenti, i libri, i miti, le armi, l’età, la mia donna, il mio uomo, i miei figli, il futuro e il passato, la saggezza, la galera, la giustizia, i miei diritti, il mio giardino, la mia coscienza, la mia rabbia.
Nessun epicentro, nessun detonatore. C’est la vie, se mi consentite la provocazione.
Secondo atto. Il caos.
C’è un però.
Un uomo di nome Derek Chauvin, agente di Polizia al servizio del Minneapolis Police Department per 18 anni, si inginocchia letteralmente sul collo di un uomo afroamericano di nome George Floyd per quasi 9 minuti, soffocandolo fino alla morte. Ho provato, pentendomi di averlo fatto e poi vergognandomi dell’essermi pentito, ad avvicinarmi il più possibile a quella che deve essere stata la sensazione provata da Floyd durante quei minuti in cui, disperatamente, ha provato a liberarsi dal peso del suo carnefice. Una sensazione. Come si fa ad immaginare una sensazione del genere? Non è possibile. È come arrendersi disperatamente alla fine. Ho immaginato che per lui, gli ultimi minuti devono essere stati di accettazione. C’è una frase che mi ha colpito molto di un fumetto che ho letto recentemente, Sputa tre volte di Davide Reviati:
“L’hai mai vista in faccia la morte? L’hai visto il corpo ribellarsi indemoniato e poi, un attimo prima, capire che è finita e arrendersi, quasi grato?”
Un uomo, un afroamericano, è morto in un modo assurdo, strozzato da un ginocchio di un altro uomo, un bianco, accovacciato su un marciapiede e su una testa, con le mani in tasca.
Donald Trump ha parlato di caos. Ha minacciato di invocare l’Insurrection Act, una legge federale del 1807 che approva, da parte del Presidente, il dispiegamento di forze militari al fine di reprimere un’insurrezione. Ha dichiarato: “L’America ha bisogno di giustizia. Non di caos.”
Il discorso viene proclamato, in diretta su CNN – e quindi davanti a tutta l’America – corredato da una passeggiata agghiacciante di Trump affiancato dai suoi scagnozzi – quasi tutti uomini e tutti bianchi – dalla Casa Bianca fino a Piazza Lafayette dove, di fronte alla St. John’s Church ha mostrato una Bibbia pronunciando parole di poco senso o poco conto. L’intento del Presidente era quello di mostrare una piazza sgomberata dai manifestanti. Donald Trump ha voluto esibire il proprio potere.
Nei suoi discorsi, Trump ha parlato di anarchici, di saccheggiatori, di caos.
E molti dei media nazionali lo hanno riportato sulle loro testate – affiancando, di fatto, alla parola protesta, una parola che è l’esatto opposto. L’utilizzo comune della parola caos è riferito al disordine che viene creato a seguito dell’abbandono di una logica.
Trump e ancora più ingiustamente i media, hanno processato la rivolta definendola illogica.
Una irrazionale rivolta per i diritti civili. Ma come è possibile?
La giornalista Megan Garber scrive in un articolo per The Atlantic: “Le proteste hanno un linguaggio e una logica: ‘Una rivolta è il linguaggio dell’inaudito’, lo diceva Martin Luther King Jr. Hanno la loro grammatica. Rendono i loro messaggi scansionabili attraverso i segni. Sono leggibili; il loro scopo, infatti, è la leggibilità.” Continua dicendo che la maggior parte dei manifestanti che stanno scendendo in strada in molte delle città americane, lo fanno in modo tutt’altro che caotico. Protestano contro l’assassinio di George Floyd e quello di altri afroamericani morti in modo identico. Protestano contro l’impunità della Polizia.
Avevano un messaggio, ce lo hanno sempre avuto e ce lo avranno ancora: Black Lives Matter. I Can’t Breathe.
Terzo e ultimo atto. Le parole sono pietre.
Penso a due citazioni simili, ma diverse fra loro.
Nanni Moretti ha detto “Le parole sono importanti.”
Carlo Levi intitola la sua quarta opera letteraria “Le parole sono pietre.”
Il Presidente degli Stati Uniti e diversi media hanno, di fatto, annullato il diritto della maggior parte dei manifestanti ad arrabbiarsi e a urlare per una causa giusta, sacrosanta. Hanno semplificato il piano del discorso distruggendo il messaggio che portava con sé. Non è la prima volta che accade e non è accaduto solo negli Stati Uniti. È successo in Italia, a Genova nel 2001; è successo in Europa, in America Latina. È successo e forse succederà ancora, perché è un giochino semplice che funziona alla perfezione. E questo loro lo sanno bene.
Hanno risposto alle molotov, ai saccheggi, alle barricate, alle devastazioni con l’arroganza di chi pensa di essere dalla parte più conveniente, perché non è mai stato nella parte debole della ragione. Quella in cui sei legato, bloccato, soffocato dal potere.
Hanno soppresso la protesta, la manifestazione di un disagio antico, la rabbia e la sofferenza, cancellandone il messaggio.
Epilogo.
Ricordo come se fosse oggi quando partecipai alla mia prima manifestazione, a Milano. Saltammo in massa la scuola. Prendemmo il treno che dalla Provincia ci avrebbe portato fino alla stazione di Rogoredo. Poi la metropolitana fino a Porta Romana. Portammo da bere vino in cartone. Ci unimmo al corteo e partimmo a marciare. I Celerini ai nostri lati mischiati alla Digos in borghese. Nella testa mi risuonavano le parole che una sera, a cena, mi disse mio padre: “A metà degli anni Settanta, partecipai ad una manifestazione. Era una protesta operaia. A un certo punto la Celere ci caricò. Volava di tutto. Mi sfiorò, a un palmo dalla mia fronte, una chiave inglese grossa come una mazza da Baseball. Probabilmente, colpendomi mi avrebbe mandato all’ospedale. Una chiave inglese che qualcuno di noi lanciò verso lo schieramento della Polizia era tornata indietro.”
Ci muovevamo lenti, cantando le canzoni di Manu Chao, bevendo vino pessimo e caldo, intonando cori che ascoltavo una volta per impararli e poi li risputavo fuori. Lanciavamo quelle parole contro i muri dei palazzi anneriti dallo smog milanese. Eravamo una cosa sola, una massa uniforme di persone che non si conoscevano, che avevano una loro storia, un loro vissuto e ognuno di noi gridava verso qualcosa che era unico, ma era anche personalissimo. Una ragazza dai capelli rosa, poco distante da me, si mise a piangere mentre cantava. Piangeva con le mani aperte sopra la testa. Un mio amico, ubriaco, la prese in giro. Avevamo tutto e non avevamo niente. Ci mancava un pezzo eppure lo avevamo appena trovato. Stavamo lanciando un messaggio ognuno a suo modo, nel bene, nel male, nel giusto, nell’errore. Un unico messaggio che per ognuno era un pezzo di vita differente.
Io non riesco ad immaginare che cosa possano provare i manifestanti afroamericani che stanno scendendo nelle strade prendendosi i lacrimogeni, i proiettili di gomma, gli arresti. E la verità è che spero di non scoprirlo mai. Per una forma di egoismo, forse; perché anch’io sto dalla parte comoda della società, probabilmente. Oppure perché ho paura. E so che la paura e la rabbia, quando si abbracciano, diventano qualcosa che non puoi fermare.
Le immagini con cui è stata costruita l’immagine di copertina non sono coperte da copyright. L’autore è Mike Von.
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