Il pannello pubblicitario gira su un unico piede, giorno e notte. Lentamente. È un parallelepipedo che dal 2009 ha cambiato colore tre volte: quando sono arrivata era arancione spento, poi è diventato verde acido. Ora è di un blu elegante. Cigolando sommessamente sul suo sostegno, pubblicizza lussuosi immobili in vendita: pareti candide, rifiniture antracite, cielo primaverile riflesso su vetri immacolati, alberi lussureggianti. Non so dove sia un posto così idillicamente immerso nella natura. Di naturalistico la mia via ha soltanto il nome. Soprattutto qui al secondo piano, davanti alle mie finestre, nell’unico tratto dove non si staglia un solo albero, ma fioriscono quattro pali della luce. D’inverno lungo gli spigoli colano e si solidificano stalattiti vetrose. Guarda, mi dicevi, i baffi della pubblicità.
Da quando vivo nella Casa Flora – come tu chiamavi casa nostra, che ora è solo mia – la natura non è più quell’esperienza elementare che era prima. Adesso è diventata per me un curioso concetto topografico e urbano. Dal 1892 il Communicationsweg si chiama con il suo nome attuale: Florastraße. Un nome leggiadro, vezzoso: alla fine del diciannovesimo secolo pare attraversasse campi coltivati a fiori e vivai. Compresa fra la Wollankstraße a ovest, che conduce al quartiere centrale Mitte, e al lato opposto la Berliner Straße, che la chiude in direzione nord-sud, la mia via sta nella zona più a est del vasto quartiere cui appartiene: il secondo più esteso della capitale.
Pankow, con 103 chilometri quadrati e con più di quattrocentomila abitanti, è l’area più popolosa di tutta Berlino: qui ci vive circa l’11% dei berlinesi. Oggi la Florastraße e il Florakiez – il gruppo di isolati che la circonda – sono diventati l’emblema del lusso discreto, ma sempre più tangibile, che sta pian piano trasformando la capitale tedesca.
Gentrificazione è una parola e un fenomeno che fa paura a molti. Qui dove abito apparentemente ne sono cadute le briciole. Per ora. Ma forse non significa molto il fatto che ancora si incontrino degli anziani, che sopravvivano un paio di osterie fumose, che ai tavolini della macelleria siedano operai e muratori in tuta, che i cani non si mostrino nella forma più smagliante della propria razza, e che sporchino quel tanto che basta da tenersi all’erta mentre si cammina. Una dimessa normalità impone una palpabile, moderata resistenza. Dal 2013 all’inizio del 2019 il valore indicativo dei terreni qui intorno è aumentato del 600%. È sufficiente scartare nella quieta Neue Schönholzer Straße, per incontrare il luccicante nuovo che avanza, sotto forma di una ex fabbrica di malto riconvertita in un complesso abitativo di pregio.
Non è però questo lusso per pochi che detta la sua legge nella Florastraße. Con otto fra negozi di vestitini e scarpine, due asili, un caffè dove gli adulti sono considerati più ospiti occasionali che veri avventori, sono i bambini i veri padroni della strada. Una terrazza con tanto di cassone con sabbia, secchielli e formine, seggioline verde mela intorno a microtavoli, minilavagne alte meno di un metro, tracciano la mappa del potere di Pankow. Sotto il profilo della natalità, il quartiere è imbattuto. Un corposo esercito di minuscoli cittadini si aggira intorno a Florastrasse: nel 2017 ci sono state 5027 nascite, record berlinese assoluto. Non c’è da stupirsi, visto che qui si concentra il maggior numero di abitanti di tutti i quartieri della città e che l’età media supera di poco i quarant’anni.
Eppure, non tutto è perfetto. Proseguendo dalla Florastraße verso laWollankstraße, svoltando a sinistra, bisogna percorrere soltanto duecento metri per raggiungere la cicatrice del Muro storico, caduto il 9 Novembre 1989. Oggi al suo posto una doppia striscia di blocchi di acciottolato rosso-grigio, inserita nel pavimento stradale, segmenta in modo irregolare la città: ormai dal 2018 questa traccia ha superato in anzianità il Muro crollato, che tagliava la Wollankstraße, correva parallelo alla Brehmestraße chiudendo le arcate del ponte della ferrovia, e proseguiva poi verso nord, lungo la Schulzestraße, lasciandole entrambe nella Germania socialista.
Il Muro – il mio Muro – si ferma invece molto prima. Le cicatrici del mio Muro – quelle che mi restano se le emozioni ci si infrangono – le tengo accuratamente nascoste. Come le due Germanie nel cuore di Berlino, anche il mio Muro separa ciò che prima era unito. A volte me lo scordo, e quando sono baldanzosa e frizzante, mi spingo dall’altra parte. Mi consolo pensando che di qui, dalla mia parte del Muro, mi rimangono ben due fioristi, malgrado di là ce ne siano altrettanti, lo so. Quattro negozi di piante in soltanto 1130 metri totali. Ecco dove si condensa la vocazione naturalistica della Florastraße, e come subdolamente tenta di giustificare il suo nome. Bouquet già confezionati, piantine in vaso, fiori recisi e, a parte i fioristi, qua e là un’aiuola, curatissima, e ostentata: un po’ poco per far sognare l’idillio campestre. Magari alla fine del diciannovesimo secolo, per cittadini del centro angosciati dalla novità della piovra metropolitana in espansione incontrollabile, queste erano le porte verso la quiete della natura. Con 1341 ettari calcolati a fine 2017, più del 12% del totale berlinese, Pankow vanta la maggiore superficie di verde pubblico. Insieme con il primo posto per estensione degli orti urbani, i Kleingärten (484 su 2993 ettari complessivi), rispetto agli altri quartieri, e ovviamente, a una miriade di biciclette.
Nel 2018 a Berlino si è registrato un picco di presenze di ciclisti che non si verificava dagli anni Cinquanta. Con una media di più di 500.000 persone ogni giorno sulle due ruote, la capitale tedesca si conferma una città bicycle-friendly. All’incrocio della mia strada con la Berliner Strasse, si stimano circa 12.000 passaggi al giorno. Se si cercano oggi nella Florastraße testimonianze della natura selvaggia, si trova che l’unica vera selva è quella delle biciclette. Apparentemente inestricabili, compongono la giungla metallica del parcheggio a due piani a sinistra della stazione di Pankow, manubri spuntano come fitti cespugli, spesso a occupare una buona metà del marciapiede.
La prima volta nel mio futuro quartiere, in un pomeriggio del giugno 2009, uscendo dalla stazione di Pankow – una facciata di mattoni viola cupo di inizio Novecento – mi aveva accolto una piazza ariosa, su cui si librava un nome esotico e gentile, tracciato in graziose lettere di metallo: la Garbátyplatz. Da un paio d’anni zaffate di urina si mescolano all’odore rancido di birra versata, schegge di vetro scricchiolano sotto le scarpe. Una donna e un uomo in sedia a rotelle bevono birra dalle bottiglie, fumano, strascinano una lingua rauca che non so riconoscere: sono comuni scene di vita urbana. Il proprietario turco di una piccola gastronomia che da anni appartiene al paesaggio familiare di chi entra ed esce dall’ingresso della metropolitana di Pankow, dal banco frigorifero del suo camion ribadisce: «La situazione non è migliorata, anche se una volta al mese la polizia si piazza lì di fronte per fare informazione. Ma continuano lo spaccio di droga, le aggressioni. I furti di biciclette». Pochi mesi fa un rivestimento di plastica ha coperto le pareti interne della stazione. Blu elettrico, con lampi fucsia. Pare che così i graffiti saranno lavati via facilmente. Dovrebbe essere una misura risolutiva del degrado percepito.
Intanto è il monastero francescano, attraversata la mia strada verso la Wollankstraße, a mettere a disposizione docce, abiti puliti e un pasto caldo a chi vive per strada. Di inizio marzo 2019 è la decisione di rafforzare la presenza della Caritas in zona. In che modo la disoccupazione, l’alcolismo, la piccola criminalità, la percezione soggettiva della pericolosità del quartiere compongano un quadro decifrabile nelle vite singolari, è arduo determinarlo. Somiglia a un nastro di Moebius, e percorrerlo diventa un processo infinito. Una cosa però si può affermare. Passeggiandoci oggi, non è immediato rappresentarsi il Florakiez come un operoso quartiere produttivo. Di un passato industriale infatti, qui non si incontrano molti appigli per la memoria: eppure quasi 1600 operai negli anni Trenta lavoravano all’angolo fra la Berliner Straße e la Hadlichstraße, a poche decine di metri dalla Florastraße, nella vicina fabbrica di sigarette Garbáty. Una delle tante espropriata dai nazisti agli ebrei – e che dal 2010 alberga 160 appartamenti. Per il suo impegno sociale, a Josef Garbáty dal 2000 è intitolata la piazza che sta di fronte all’entrata della metropolitana. O meglio stava, perché dal 2012 è stata soffocata da un edificio grigio scuro, anzi nero nerissimo, che assorbe ogni raggio di luce nelle vicinanze. Più di una dozzina di studi medici e una farmacia, collocati in questo nuovo blocco dirimpetto l’entrata della metropolitana, con la strada di mezzo e soltanto un generico ricordo dello spazio precedente, non bastano a far dimenticare le proteste degli abitanti e dei politici che avevano approvato il progetto originario – poi tradito. Esito del conflitto: qua e là delle sottili barre metalliche chiare per dissimulare il nero. Magra consolazione. Il monumento a Garbáty ha infine ripreso posto su quel che resta della piazza, inghiottita dal mostro scuro. E non è l’unico mostro che si sia insediato nella Florastraße. Indizi, quasi impronte, ne incidono il ricordo nel suolo.
Da questa parte si trovano le quattro pietre d’inciampo delle 51 attualmente presenti a Pankow e delle finora 8176 in tutta Berlino. Appartiene all’artista berlinese Gunter Demnig l’idea di incastonare nel selciato dei blocchi d’ottone a memoria dei deportati dai nazisti, nel luogo della loro ultima abitazione. Recano il loro nome, la data di nascita, quella del trasporto e della morte, quando è stato possibile accertarla. Finora sono state posate settantamila pietre in tutta Europa.
I sampietrini collocati davanti all’ingresso dei palazzi ai numeri civici 42 e 61 nell’agosto del 2010 rilucono come un corpo estraneo. Eppure sono state le prime a comparire, nell’intera Pankow. Quando nevica, qualcuno si china e rimuove la neve dalla piastra. Bastano poche Stolpersteine in un quartiere per ricomporre una diaspora mondiale. Come verso l’allora Palestina e l’Argentina, per tre dei fratelli ebrei Nudelberg. Non per il resto della loro famiglia, che viveva al numero civico 42, la madre Paula, casalinga, e la figlia Anna, segretaria, deportate nel 1942 e uccise a Riga. Il padre era stato operaio nella fabbrica di Garbáty. Ed è proprio dalla piazza Garbáty che si dipana la via: la piazza, che non è più una piazza, prende il nome dalla fabbrica, che non è più una fabbrica. Solo l’orrore è rimasto intatto.
Se mi incammino verso ovest, oltrepassando questa soglia che rimane insormontabile, e poco più avanti alzo gli occhi verso una finestra del pianoterra in una facciata giallina, incrocio altri occhi, che portano un enigma silenzioso. Le due piccole sfingi gemelle sanno forse esprimere qualcosa che sovrasta i mortali. Ma sono soltanto gatti bianchi, che mi fissano fra un ficus e una lampada a forma di cavallo. Talvolta sgusciano dalla finestra socchiusa, dal davanzale sembra veglino un istante sui destini degli esseri umani. Sembra, dico.
Subito scivolano via indolenti, due ombre al contrario, strofinano il fianco contro la gomma delle ruote delle auto parcheggiate, uno salta nel cestino di una bicicletta legata a un palo, facendola traballare, da lì si allunga per annusare il sellino e poi spicca un balzo, indispettito. Peccato non muoversi liberamente come i due felini e non attraversare la strada fino all’angolo opposto della Mühlenstraße: ci si potrebbe comprare del pesce da Jones Fischladen. A volte il profumo arriva fino al semaforo da cui osservo i clienti mangiare un panino, sotto l’insegna blu. Aringa, lattuga e cipolla.
Torno a casa, venti passi. Quando sul portone mi cade l’occhio sui nomi del citofono, so che in dieci anni l’unico che è restato invariato è il mio. Il nostro. Che poi è solo il mio. Se qualcuno ha notizie più aggiornate dell’altra parte, mi faccia sapere. Forse un giorno anche da me crollerà Il Muro. Festeggeremo la Riunificazione della nostra via.
Florastrabe, la chiamavi.
Chantal Salis non è francese e non è sarda. Abita a Berlino. Quando non rappresenta l’Italia, legge e ascolta musica.
REDAZIONE
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