“Se in alto la sensazione dominante è di tipo visivo e in basso, a livello della strada, di tipo uditivo, nelle profondità del metrò a essere saturato, e ad avere la peggio, è l’olfatto.”
Quando stacco gli occhi dalla prima pagina di Felicità di Will Ferguson ho lo sguardo di chi si è improvvisamente illuminato. Penso a quanto sarebbe stato più facile interpretare alcuni luoghi delle città in cui ho vissuto se avessi avuto queste parole a guidarmi.
Tre strati, tre livelli sovrapposti che si incontrano e si sfaldano e sfumano nei punti in cui confinano, per diventare sempre più netti man mano che ci si immerge o si risale. Come un ascensore di odori, rumori, immagini. Semplice e geniale.
A Berlino, dove vivo da quattro anni, ci sono innumerevoli luoghi che non ho ancora capito a fondo. È una città che, in generale, non mi ha mai dato l’impressione di essere facilmente comprensibile. Ogni volta che ho pensato di averne messo a posto un suo tassello mi è parso che altri si scombinassero. Un rompicapo, un irrisolvibile cruciverba fatto di vie, strade, persone e cantieri aperti ovunque, con le gru che svettano nel cielo e si muovono lente come giganti.
La prima volta che ho messo piede sulla Turmstrasse, ad esempio, pioveva forte, abbastanza perché la via mi si presentasse in tutta la sua grigia mostruosità non appena emersa dal sottopassaggio della metropolitana. Ci sono finita, in quella landa desolata, con i miei genitori, all’inseguimento della malsana idea di comprare un appartamento a Moabit.
Malsana, perché Moabit non la conosce quasi nessuno, perché ho visto le espressioni più sorprese sulle facce delle persone a cui ho nominato questo quartiere, dato che, essenzialmente, lì non c’è quasi niente.
Alla fine, all’appartamento ho rinunciato e il quartiere è rimasto nei meandri della mia mente, tra i luoghi di questa città in cui sono passata una volta e mai più. Per lungo tempo, ma non per sempre.
Perché nel 2014, stanca dei miei dieci chilometri di pendolarismo quotidiano casa-lavoro, ho deciso di spostarmi a vivere proprio lì. Da allora è una continua scoperta delle molte cose che in realtà si nascondono sotto il nulla apparente.
A poche settimane di distanza dal mio trasferimento ho potuto apprezzare quanto la massima sicurezza del carcere di Moabit fosse in realtà un concetto piuttosto labile.
Moabit è un’isola. Esatto. È circondata su tutti e quattro i lati da fiumi e canali. C’è anche un porto fluviale, uno dei più importanti della città:Westhafen. È un bel posto, per chi ama i paesaggi industriali e la loro desolazione e il grigiore. Percorrendo il Putlitzbrücke è facile assistere a spettacolari tramonti al sapore di cemento.
La Turmstrasse ne è sicuramente l’arteria principale. Ci passa e ci si ferma la metropolitana, linea U9, l’arancione. La via divide il quartiere in lato nord, confinante con Wedding, e lato sud, che vede la sua fine sulle acque della Spree. Ho sempre trovato buffo però che, nonostante ciò, il quartiere venga solitamente diviso – in maniera ufficiosa – tra Est e Ovest. Reminiscenze, forse, di un passato che qui, in questa parte di città, si fa sentire più lievemente che altrove.
Turmstrasse non ha nulla di poetico né di oggettivamente bello, niente che rimanga dentro. Eppure c’è qualcosa, in questa strada, che le ha impedito di scivolarmi completamente addosso. Qualcosa si è aggrappato. Nella testa è rimasta una mappa di questi luoghi, piuttosto approssimativa e decisamente sfocata, fatta di piccoli e insignificanti eventi, di quelli che non cambiano una vita, ma vanno ad incastrarsi uno nell’altro, fino a portarla in un punto preciso, fisso. A volte è un punto morto, dove la propensione dominante sarebbe quella di rigenerare i ricordi, andarsene, ricominciare.
Nella parte ovest della strada si susseguono negozi, café, bäckerei, pizzerie, luoghi ameni con cibo cinese in vetrina, tutti davvero poco invitanti. Un BOLU, il supermercato turco. Accompagnano i passanti senza lasciare spazio a troppi indugi di occhi languidi ed eventualmente affamati. Davanti alla sede degli uffici comunali hanno anche aperto una specie di hamburgheria, con le sedie dalle linee anni ’60 rivestite in finta pelle rosso scuro. Riferimento ad un passato pacchiano alla Happy Days, che credevo esistesse solo nelle serie televisive e che invece pervade sorprendentemente fuori contesto certi luoghi, come un richiamo a qualcosa appartenente più al mito che alla vita vissuta.
Nel mezzo quasi esatto della Turmstrasse, c’è la stazione della metropolitana. Salendo dalle scale centrali, il ritorno alla luce è nel mezzo del Kleiner Tiergarten – il piccolo Tiergarten. Ogni volta che penso a questo nome, rifletto su quanto il quartiere sia affetto da quello che si potrebbe definire un complesso d’inferiorità. Molte cose sembrano rivendicare una loro autonomia, un’identità. La voglia di essere conosciuto per qualcosa di univoco, permea gli sguardi e le insegne dei negozi. C’è una strada, cortissima, e l’hanno chiamata Tusnelda Allee, dove Allee – viale – indica di solito strade di ampio respiro, lunghe e larghe, come le imponenti Karl-Marx Allee e Frankfurter Allee. Una vera contraddizione in termini. Buffo che alla fine, invece, a me sembri che da queste parti ci sia solo un lento e costante movimento verso qualcosa che non è ancora e che quando è, in un attimo, è già passato.
Il piccolo parco, recentemente risanato nella parte orientale, lascia invece ancora molto a desiderare nella parte occidentale. Risalendo dal sottopassaggio delle metropolitana la visuale è desolante. Ho smesso da subito di attraversarlo di notte e, recentemente, anche di giorno.
Uscendo dalla metropolitana mi trovo ad osservare un grande cantiere. Cerco di ricordare cosa ci fosse prima, ma non riesco. L’occhio si abitua troppo facilmente.
Ultimamente, l’angolo tra la Turmstrasse e la Stromstrasse è stato al centro di un acceso dibattito: la Brauerei Schultheiss, l’ex-fabbrica di birra che si trova in quel punto, fino a poco tempo fa ospitava una serie di botteghe e piccoli negozi che sono stati immolati al progresso, al denaro, al consumismo e alla gentrificazione. Tutte parole che non dovrebbero spaventare una grande capitale europea, ma che a Berlino sembrano più un richiamo ad una spada di Damocle pendente sulla testa di chi la città la vorrebbe sempre fedele a sé stessa. Il complesso verrà presto trasformato in un grande centro commerciale. Per il momento questo angolo di mondo giace così, vuoto, illuminato a giorno da fari e abitato da gru, ruspe e operai. C’è anche un’altra cosa però che è successa in questo luogo: da quando è stato abbattuto l’edificio più esterno, un fianco dei palazzi che vi si trovano a ridosso è rimasto totalmente nudo. Ora, appare uno scheletro di quadrati ricoperti di piastrelle dai colori pastello, che risaltano contro i mattoni rossi che le incorniciano e abbracciano.
Mi fermo a pensare.
Nella lotta tra chi avrebbe voluto immobilizzare quell’angolo tra due strade in un’epoca che ormai non esiste più – per salvare, tra gli altri, il piccolo negozio del Signor Prandzioch, Radio Gluth, aggiustatutto – e chi invece ha votato per la realizzazione di uno scintillante centro commerciale che, con buone probabilità, farà lievitare i prezzi degli appartamenti della zona, io dove mi pongo? Ammesso poi che sia necessario porsi da qualche parte. Quell’angolo di mondo mi piace così tanto che alla fine ho deciso che vorrei che quel pezzo di puzzle restasse così com’è. Spogliato di un ruolo, senza passato o futuro, solo un presente di inutilità e di una bellezza cromatica soggettiva e inspiegabile.
Proseguendo verso la stazione centrale, la Turmstrasse diventa quasi totalmente desolata, trasformandosi nel luogo perfetto per ospitare ciò che effettivamente ospita. Per esempio il LaGeSo, il centro di accoglienza per i rifugiati che si è riempito ai limiti nei mesi passati e adesso appare quasi vuoto, immerso in un silenzio irreale, con le bianchissime cupole delle tende, che sono l’unica cosa visibile dall’esterno, e giacciono sfrontate sfumando contro il cielo. Poche persone si aggirano di fronte al cancello, una eco lontana e sfaldata delle file lunghissime dei mesi passati.
Poco più avanti, sulla destra, si trova il tribunale, che nasconde alla vista dei passanti il carcere di Moabit. Il penitenziario, che di fatto è un’isola nell’isola. È aberrante, così come lo è il pensiero delle vite che contiene e del loro incedere più lento, cadenzato, ripetitivo; del loro assurdo contrasto con la vita che, appena fuori dalle mura di cinta, continua, piena di aspettative e speranze e possibilità. L’ingresso principale è situato sulla Alt-Moabit, la via parallela, mentre chiude il quadrato, sul lato ovest, la Rathenower Strasse.
Quando ho deciso di trasferirmi nel quartiere, come mia abitudine, ho cercato di informarmi un po’ su quanto la zona fosse sicura. Per raccogliere informazioni a riguardo, tra le varie cose, ho chiesto ad un mio collega. Un tipo piuttosto particolare, un ragazzo israeliano che vive a Berlino da circa dieci anni, ha vissuto l’età prescolare senza mai indossare le scarpe e da circa cinque anni si taglia i capelli da solo perché non si fida dei parrucchieri di qui. E, tra le varie e strambe teorie che sostiene, spesso con un aplomb d’altri tempi, trova spazio una presunta superiorità delle informazioni ricevute di persona rispetto a quelle trovate su google. Perché, dice lui, si tende a ricordare meglio le cose quando nel nostro cervello vengono associate al volto di chi ci ha dato l’informazione e alla situazione nella quale ciò ha avuto luogo. Probabilmente ha ragione, però, perché ciò che mi disse lo ricordo ancora a distanza di quasi tre anni. Ma, forse, soprattutto, per il modo in cui ho potuto verificare la falsità dell’affermazione, poco dopo.
Il quartiere è considerato uno dei più sicuri di Berlino – mi disse – molto vicino alla zona ministeriale e governativa. Verso la stazione centrale, c’è un carcere di massima sicurezza da cui non si registrano evasioni da circa venticinque anni. Qualcosa dovrà pur significare.
Ci ridiamo ancora, io e il mio collega, di questa storia.
A poche settimane di distanza dal mio trasferimento ho potuto apprezzare quanto la massima sicurezza del carcere di Moabit fosse in realtà un concetto piuttosto labile.
La mattina del 20 maggio 2014, apprendo dai giornali, che la notte precedente due carcerati, compagni di cella, hanno deciso di evadere. E con una fuga hollywoodiana. Saltano giù da finestre, costruiscono appigli con vestiti e lenzuola, evitano telecamere e allarmi, e con le giuste proporzioni di fortuna e astuzia riescono a scappare. Forze di Polizia, guardie carcerarie e rappresentanti politico-istituzionali, il giorno dopo, si guardano di traverso, si chiedono come sia stato possibile, si gettano addosso colpe e responsabilità. E nel frattempo cominciano a cercarli. Uno dei due uomini era indagato per l’omicidio del proprietario di un club di Charlottenburg e su di lui vigeva il livello massimo di sicurezza. L’altro, invece, era solo un evasore, un piccolo truffatore, insomma robetta da poco, un giovane di venticinque anni che magari si è lasciato coinvolgere dal suo compagno di cella nell’allettante prospettiva di un futuro in libertà.
Il tutto, poi, a basso rischio visto che per una legge del 1880 vigente in Germania – ed Austria – i tentativi di fuga non vengono tramutati in un prolungamento della pena, nel rispetto di un concetto che trovo di una meraviglia filosoficamente sfacciata: la naturale propensione dell’essere umano per la ricerca della libertà.
Il 4 giugno, è un mercoledì mattina. Sono passate appena due settimane dall’evasione. In un Hotel sulla Wilmersdorfer Straße una dipendente si sistema stancamente di fronte al computer e come ogni mattina all’inizio del turno comincia a scorrere le email in arrivo. Ce ne sono parecchie, alcune inutili, newsletter, pubblicità. Qualche curriculum di mezzi disperati alla ricerca di lavoro, incapaci di trovare l’indirizzo giusto a cui inoltrare richiesta. Cominciamo male, pensa. È già annoiata e di certo non si aspetta quello che sta per succedere. Tra i messaggi ricevuti ce n’è uno che la Polizia di Berlino ha inviato a tutti gli hotel e ristoranti della città. Contiene le foto e le descrizioni di due evasi. La receptionist guarda le immagini, poi spalanca la bocca, strabuzza gli occhi, alza il telefono e chiama la Polizia. Ulrich Wolfgang Siegfried Z., 25 anni, accusato di frode, è tra i clienti dell’albergo. La lunga corsa verso la libertà è durata meno di cinque chilometri, che è la distanza tra Wilmersdorfer Straße e il carcere di Moabit.
Rimane dunque a piede libero un solo uomo, accusato di omicidio. E potrebbe essere ovunque. Ma forse non poi così lontano come verrebbe naturale pensare. Perché è lì che porta il concetto di fuga: allontanarsi, con i mezzi a disposizione, il più possibile da ciò da cui si scappa. Che sia fisicamente, che sia mentalmente, si raccolgono le forze e si va verso un nuovo presente. Ma evidentemente qualcosa è andato storto con questi due, come se la scorta di fortuna l’avessero usata tutta per superare gli ostacoli che li dividevano dal resto del mondo.
E infatti anche il secondo fuggitivo viene ritrovato dopo pochi giorni a Reinickendorferstraße.
Anche questa volta a meno di cinque chilometri dalla prigione di Moabit.
La questione si è risolta dunque in poco tempo, lasciandomi però con un palpabile senso di irrazionale sfiducia. Ogni volta che passo davanti alle mura di cinta della JVA mi viene da pensare a questa storia e alzo gli occhi verso i boccoli di filo spinato che sovrastano il muro, immaginandomi di vederne scendere un qualche pericoloso omicida all’inseguimento della propria libertà personale. È tutto completamente senza logica, lo so, ma è esattamente in questo che consiste la paura.
La strada si chiude sul Fritz-Schloß-Park, senza riuscire mai a raggiungere la stazione centrale. Attraversando il parco, si arriva a ridosso di altre mura di cinta; quelle del Geschichtspark Zellengefängnis. A prima vista sembra semplicemente una piccola oasi verde nel caos della stazione centrale. E invece. I sentieri all’interno del parco partono a stella dalle mura e conducono al centro, dove è posto un grande cubo cavo di cemento. Un nulla nel nulla, ripieno di nulla. Sembra una delle figure geometriche impossibili di Escher. Ai lati dei sentieri il prato è interrotto da piccole aiuole rettangolari, di memoria Escheriana anch’esse, delimitate su due lati da bassi muretti ancora di cemento. Solo intorno ad una di queste i muri si innalzano, fino a racchiudere lo spazio vuoto in una stanza claustrofobica. Sulla parete in fondo un ripiano a riprodurre una branda, suppongo dalla scomodità a grandezza naturale. All’interno la sensazione dominante è quella di assenza. Un’assenza che schiaccia. Una voce esce da un altoparlante e spiega la storia del luogo. Tutto il posto infligge la sensazione di volerti sputare fuori, nella città delirante, infantile, aperta.
Moabit è un’isola, e dalle isole non si esce facilmente, non puoi prendere e andartene così. Ci vuole un piano e la forza di volontà di lasciarsi alle spalle qualcosa di certo. L’ultima torre di controllo sulla via della fuga è la stazione centrale che galleggia come un corpo troppo pesante sull’acqua. Ogni volta che la guardo ho l’impressione che affondi.
REDAZIONE
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