Se i percorsi della transumanza sono stati gli avamposti di scambi, di culti religiosi, di abitudini alimentari, di dialetti e di tante forme di produzione culturale, lo dobbiamo alle grandi autostrade del sapere pastorale che per secoli hanno intersecato l’Italia, antiche viabilità rimaste intatte per millenni. Sono le vie della transumanza, cammini di genti e di pecore che hanno attraversato il nostro territorio seguendo il ritmo delle stagioni, in cerca di pascoli fertili: uno dei processi economici che dall’addomesticamento degli ovicaprini fino ai nostri giorni è rimasto pressoché invariato.
L’economia pastorale ha contraddistinto l’Europa, definendo le sue base rurali. Persistente in forma residuale e marginale, la pastorizia, nella sua forma stanziale, sopravvive in lacerti di territorio.
La trasversalità con cui si incardina la transumanza ci permette di raccontare un’Italia interstiziale, di percorsi e di scelte di vita. Come le storie intercettate dai registi che, negli ultimi anni, si sono confrontati con uno dei temi storicizzati dell’antropologia e della sociologia rurale.
Raccontando le storie degli ultimi pastori transumanti che dall’Abruzzo si muovono verso la Puglia, lungo il percorso storico del Tratturo Magno, Michele Bertini Malgarini ci consegna uno spaccato contemporaneo della vita privata dei pastori, in In Pecore Pecunia (2012). Nel suo lavoro troviamo una riflessione sul ruolo del pastore oggi, sulla marginalità con cui sopravvive tutto ciò che sta intorno al commercio ovicaprino, riportando a un principio di realtà tutte le storie.
La trasformazione economica che ha interessato l’Italia nell’ultimo secolo ha dismesso una delle risorse legate al mondo tessile, che per molto tempo è stata la fonte di guadagno e di approvvigionamento per chi lavorava con le pecore. Presente come mercato nidificato, la lavorazione della lana sopravvive oggi in contesti microeconomici e appare come una sfida verso un mercato più competitivo e generalista. La capacità di resistere all’erosione di questa fetta di mercato economico legato alle lavorazioni transumanti è presente in forma residuale e si estrinseca in quelli che venivano codificati come mestieri erranti. Intercettare questi mercati nidificati, non è semplice. Recuperare tali lavorazioni, che persistono in territori aspri e impervi, potrebbe essere una leva economica per ridare dignità ai pastori locali.
Per Manuele Cecconello, un altro dei registi ad essersi misurato con questo tema, i simboli recuperati costituiscono una continuità, una trasmissione, per ristabilire un dialogo tra un prima e un dopo. Il senso di appartenenza territoriale, il silenzio, il passato condiviso, fanno sempre appello all’esperienza. “Olga e il tempo” è, in questo senso, un lavoro documentaristico in cui si mostra come i concetti di pietas e pathos, in questo ambito, si fondono e si ripetono da millenni. Nelle parole di Manuele – “L’amore per la montagna, una devozione simbiotica con la natura, una dignità salda fondata sul lavoro, rappresentano il mondo di Olga, icona solitaria di tutti i pastori di questa parte del Piemonte. Il film cattura e restituisce al pubblico il quotidiano rito per la Terra di una persona che ha scelto il proprio Tempo per sondare l’enigma dell’esistenza.”
Transhumance, di Roberto Zazzara, è un documentario del 2015, girato lungo il Tratturo Magno, in cui si mette a fuoco l’esperienza del camminare, del viaggio e della moltitudine di genti che lo affrontano. Un viaggio lento, in cui si mette in evidenza l’effetto diacronico del tempo attraversato dalle umanità precedenti. Attraverso tre regioni, l’Abruzzo, il Molise, e la Puglia, viene percorsa un’arteria di duecentocinquanta chilometri d’erba, di sabbia e di asfalto, incrociando antichi tracciati, stazioni di posta, scolte di quelli che sarebbero diventati centri abitati e luoghi di culto. Un patrimonio che ci rende più consapevoli del valore strutturale della mobilità arcaica, per ripensare i legami sociali, economici, e la loro potenziale scomparsa. Un viaggio recente, che comincia con il ground zero dell’esperienza più vicina e devastante del terremoto dell’Aquila, dove lo stato delle cose oscilla tra la ricostruzione e l’immobilità.
Pastore: femminile plurale, di Anna Kauber, scrittrice, regista e paesaggista, ha recuperato invece, nelle sue ricerche, l’eredità di mondo rurale, indagando sulle relazioni personali e la trasformazione di un mondo legato a un’economia pastorale. Sottolineando che ciò che abbiamo imparato da un mestiere è la sua pratica, Anna Kauber ha raccontato le storie di più di cento pastori donne, con interviste in cui si discute dei valori, delle strategie e dell’imprenditorialità di queste donne, che sono pioniere nel recuperare l’allevamento di diverse razze, spesso in via d’estinzione. Riflessioni ecologiche, sulla rigenerazione dei pascoli, sul rispetto dell’ambiente e sul recupero di antiche mobilità legate alla transumanza.
Dalle Alpi all’Aspromonte, fino alle isole, vengono messe a nudo numerose criticità, tra cui lo spopolamento delle aree interne, l’isolamento, l’abbandono, e l’impoverimento delle colture, spesso dovuto alla mancanza di strategie territoriali. Restare e resistere sono scelte radicali, non semplici, ma in grado di saper restituire una dimensione umana, creando relazioni sociali che ristabiliscono un contatto con il territorio.
La vita del pastore, spesso isolata e mitizzata nell’epoca arcadica, è una delle professioni in cui l’uomo si confronta o si identifica con la propria solitudine. Spesso i pastori sono artigiani, intagliatori del legno, musicisti, lettori o riparatori. Il tempo trascorso con le pecore, relativo al pascolo, è fatto di lunghi silenzi, di osservazione e di ascolto.
La conduzione di un gregge varia da regione a regione, e dal tipo di cane pastore che lo aiuta. Nonostante il ricambio generazionale e la trasformazione economica di molte valli, i nuovi pastori hanno mantenuto invariati i percorsi e i pochi oggetti che portano con sé. Un ombrello, un impermeabile, il pranzo a sacco, un cappello per ripararsi. I nuovi pastori sono oggi per lo più stranieri e hanno saputo integrare la loro cultura con la produzione casearia, producendo anche yogurt o kefir.
Il sincretismo votivo che emerge nei percorsi d’erba e lungo le arterie viarie, nasce dall’incontro di culti, di preghiere, di santi, di richieste di protezione e grazie ricevute lungo il cammino. Ma anche di oggetti votivi che sono custoditi tra i tesori dei patroni locali, e che sono datati in epoche storiche, provenienti spesso da città o da paesi, teste di ponte della transumanza.
I percorsi sono intervallati da edicole, piccole chiesette, o piccoli ripari che nel corso del tempo oltre ad essere un luogo di riposo, hanno accumulato immagini, storie e culti di santi, che sono diventati anche santi patroni.
Il culto di San Michele, per esempio, all’interno del Tratturo Magno che collega l’Abruzzo alla Puglia, è una delle devozioni più forti e più rappresentata iconograficamente. Ma ancora più interessante è intercettare la devozione spontanea lungo i tracciati, fatta di croci, di piccole cappelle e di statuine depositate anche nelle nicchie di pareti rocciose. La richiesta di protezione, di conforto, è una consolazione spirituale, un modo per consegnare “oltre” le proprie preoccupazioni, le incertezze e le sofferenze di un lungo cammino, spesso affrontato subendo le coercizioni dei più grandi.
La transumanza a lungo raggio poteva durare anche otto mesi, si partiva dalle zone più fredde muovendosi verso le coste, le regioni meridionali o semplicemente verso la pianura. Aveva una gerarchia rigida, dove spesso la sottomissione e la durezza dei compiti non andava di pari passo con l’età. Gli ultimi testimoni della transumanza raccontano di quando ancora avevano dieci anni ed erano costretti a partire e lavorare come adulti. Difficilmente si dormiva, la preoccupazione dei ladri o dei lupi poteva far rimanere svegli, rendendo ancora più duro il cammino del giorno seguente. Una pastorizia maschile, che ha tenuto separati gli uomini dalle donne per molti mesi all’anno e per secoli, e che ancora, in alcuni dialetti, si riflette nel dimorfismo linguistico: maschi e femmine parlano lo stesso dialetto, ma con flessioni diverse. Sottili differenze, che riecheggiano nel modo in cui gli uomini e le donne si aggregano e vivono la socialità. Le vie delle nostre transumanze umane percorrono invece tratturi virtuali, connessioni digitali e piattaforme aggregative, che sono gli antichi stazzi o i ricoveri dei pastori.
Anna Rizzo, antropologa, studia ed esplora contesti culturali arcaici, vivendoci. Si occupa della trasformazione economica in aree a forte spopolamento in Europa e di forme residuali di culture rurali.
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