Chicos de Nazca (Cile/Berlino) e Mueran Humanos (Argentina/Berlino) sono due dei gruppi che si esibiranno sabato 7 Ottobre 2017 al festival di musica psichedelica e dark Interkosmos Fest II, allo Zukunft di Ostkreuz.
“Il Cile è come un bastoncino” fa il gesto con il pollice e l’indice a delimitare i confini di quella lunga striscia di terra che sembra una linea spessa.
“E’ lungo e stretto, con il deserto a nord, le montagna ad est e poi la costa, ad ovest. Al nord non hanno praticamente nulla. Il deserto di Atacama è conosciuto per essere uno dei più caldi e secchi al mondo. Ci sono solo rocce bollenti e nient’altro.”
Fuori piove. Da stamattina non ha mai smesso. Berlino è sovrastata da una lastra dura di marmo grigio, che non lascia intravedere molto. La cosa più lontana dal mio immaginario attuale è proprio un deserto caldo e secco. Penso alle rocce bollenti con un desiderio quasi morboso. Per un attimo mi proietto nel deserto, che è come nei documentari, ci sono i serpenti che strisciano veloci e sibilanti, i cactus che spuntano dalle dune, tra le rocce. Ma un’improvvisa folata di aria fredda e pungente mi riporta all’ottobre berlinese.
Davanti a me, seduti sul divano di un Café nel quartiere di Neukölln, ci sono due dei membri dei Chicos de Nazca e un loro amico, in visita dal Cile.
Francisco, il frontman, vive a Berlino. Si è trasferito nel 2014 lasciando tutti i suoi amici in quella sottile striscia di terra sudamericana. “Per chi fa musica, il Cile non è certo una terra fertile. Negli anni ’60 o ’70 la scena musicale era abbastanza sviluppata, ma c’è stato un declino durante la dittatura, e anche dopo non si è ripresa molto velocemente. Negli anni ’90, poi, ci sono stati soprattutto gruppi di musica elettronica o metal, ma niente di più. Quando ho cominciato a suonare io, negli anni 2000, c’erano alcuni altri gruppi interessanti, come i The Ganjas, ma la maggior parte dell’ispirazione continuava a venire dall’estero, soprattutto dall’Inghilterra.”
Gli chiedo se non gli piacerebbe tornare in Cile, portando con sé il bagaglio culturale e di esperienze accumulate qui, per provare a dare slancio alla scena musicale della sua terra natia e mi guarda un po’ spaesato, con gli occhi di chi ha abbandonato la speranza di cambiare le cose.
“Noi siamo stati fortunati. Vivevamo a Santiago quando ci siamo conosciuti tutti, per caso. Abitavamo nello stesso quartiere e ci capitava spesso di organizzare jam session a casa di qualcuno o in studio. E così nascevano sonorità nuove, gruppi, band e amicizie.”
“Pensa che loro due li ho fatti conoscere io.”
E’ il terzo amico a parlare da sotto il cappuccio della felpa che non si toglie per tutto il tempo in cui rimane seduto davanti a me. “Eravamo ad una jam session, loro sono arrivati e non si conoscevano ed io li ho sentiti suonare, allora ho pensato: qui è nato qualcosa. Ed eccoli qua, a distanza di dieci anni, a suonare insieme, ad incidere il nuovo album, il sesto per i Chicos. Anche se sono triste e un po’ arrabbiato con Francisco. Perché se n’è venuto qui in Europa e non torna mai in Cile. E insieme a lui se ne sono andati molti altri. Sai, io ho difficoltà a conoscere gente nuova a Santiago. Non so dove si incontrino i giovani, cosa fanno. Mi mancano i bei tempi dell’Università.”
I due si guardano. Sono seduti vicini. Succede una specie di abbraccio. L’intesa è di quelle che non si possono scardinare. Di quelle che sono il risultato di anni di amicizia ed esperienze vissute e cose viste e fatte. Per un attimo, intravedo quello stesso sguardo tra i due mentre sono in macchina nel traffico di Santiago, in qualche periferia di una città che non conosco affatto ma che non può essere troppo diversa da molte altre periferie di molte altre città.
Francisco dice di stare bene adesso a Berlino. Da qualche mese ha il suo studio di registrazione e così incontra molte persone con cui suonare. Infatti, gli altri membri dei Chicos de Nazca, che non sono presenti oggi, sono un ragazzo di Manchester e un altro ragazzo Svizzero. Il batterista, che è seduto alla mia sinistra, vive ancora in Cile e per questo partecipa solamente ad alcuni concerti e in parte alla registrazione del nuovo album ma, dice Francisco, “non è per niente facile registrare a distanza. Ho dovuto imparare a fare quasi tutto da solo, ma alla fine ce la stiamo facendo, abbiamo finito tutte le tracce ed usciremo con il disco nuovo a fine anno.”
Non è la stessa città di nove anni fa. Certo non è una città facile e non lo è mai stata. Ma prima era più enigmatica, interessante. Era speciale. Era punk.
La sera scivola su una Berlino riflessa nell’asfalto bagnato mentre guido per andare ad intervistare i Mueran Humanos. Passo quasi indenne la Sonnenallee e le macchine parcheggiate in doppia fila. Neukölln con il suo brusio battente mi accoglie come una mamma un po’ arrabbiata che ti vuole comunque bene anche quando si dice pentita di averti messo al mondo. E lo è davvero, probabilmente.
Raggiungo l’ultimo piano dell’edificio che odora di vecchio. Entro.
I due ragazzi hanno finito di cenare e mi offrono un bicchiere di vino bianco.
I Mueran Humanos sono Tomas e Carmen, vivono a Berlino da nove anni e sono originari dell’Argentina. “Ma io forse non voglio più stare qui” mi dice di sfuggita Carmen, mentre continua a spostare degli oggetti da un punto all’altro della stanza, in un modo che a me sembra del tutto casuale. Eppure lei lo fa con talmente tanta sicurezza che comincio a sentirmi in difetto io come se fossi un elemento di disturbo di un ordine o disordine che non capisco. E allora mi sposto in un angolo della stanza che mi sembra neutro.
Sono appena tornati da un tour europeo lungo quasi un mese e tra poco partiranno per il viaggio annuale in Argentina.
“Da quando siamo a Berlino siamo riusciti a tornare in Sudamerica almeno una volta l’anno. L’ultima volta siamo riusciti anche a fare un tour completo. Abbiamo suonato praticamente in tutto il continente. Non è stato facile organizzare, ma alla fine ce l’abbiamo fatta” mi spiega Tomas mentre si siede su una poltroncina girevole bianca e si lascia illuminare dalla luce della piccola lampada poggiata sul tavolo.
Cerco di carpire da Carmen da cosa dipenda il suo distacco nei confronti di Berlino.
“Non è la stessa città di nove anni fa. Certo non è una città facile e non lo è mai stata. Ma prima era più enigmatica, interessante. Era speciale. Era punk. Adesso si sta omologando a cento altre città che si somigliano tutte. Il problema è che probabilmente questa era l’ultima grande città in Europa con una speranza di salvarsi da questo processo. E adesso cosa rimane? Questa è la fine. Non c’è modo di fuggire.”
“Io invece sto bene qui” dice Tomas. “E’ un processo inevitabile questo. Le persone come noi, gli artisti, quelli alternativi si spostano in alcuni luoghi vergini o fertili e poi arrivano i turisti. E poi l’industria IT. E poi le grandi agenzie immobiliari cominciano a speculare e ad aumentare gli affitti e a costruire nuovi palazzi e il processo continua. E non c’è via d’uscita. E soprattutto dobbiamo renderci conto che ognuno di noi ne è responsabile almeno quanto tutti gli altri.”
Quindi spostarsi altrove, mi dice Tomas, non avrebbe altro effetto se non quello di esportare quel processo in altri luoghi. Di nuovo, mi dice, non c’è modo per fuggire.
Chiedo loro se una soluzione potrebbe essere quella di tornare in Sudamerica.
“E’ troppo grande. Non c’è modo di essere in una città e fare un tour e in un giorno, con la macchina, spostarsi in un’altra grande città. Di conseguenza, è molto difficile organizzare date. L’Argentina è un Paese enorme, è alla fine del mondo, in confronto a Berlino. E’ isolata. Ci sono le montagne, che sono la seconda catena montuosa più alta del mondo o qualcosa del genere, e poi c’è l’Oceano. A quel punto la cosa più vicina è l’Europa. Anzi, niente, a pensarci bene. Dalla costa dell’Argentina puoi partire e passare sotto l’Africa e l’Oceania e fare tutto il giro e tornare indietro sulle coste cilene. Non c’è nulla.”
Fa un movimento con le mani che è un movimento stanco.
“Se andassimo a Buenos Aires sarebbe molto difficile avere delle date e fare tour. Dovremmo cambiare vita in un modo che non vogliamo e trovare un lavoro vero. E suonare, allora, diventerebbe una cosa secondaria. Sarebbe la fine della nostra vita così come è ora, forse la fine della nostra musica.” dice Tomas.
“E noi abbiamo sempre fatto tutto in base a cosa fosse meglio per la nostra band, senza mai intraprendere le vie più facili.” aggiunge Carmen.
“Come quando ci siamo trasferiti qui” dicono quasi in coro.
Si scambiano uno sguardo d’intesa, che è totalmente diverso da quello che ho visto poche ore prima tra Francisco e il suo amico, e a cui non riesco a collegare nessun tipo di immagine.
“Nove anni fa abitavamo a Barcellona” racconta Tomas “e siamo venuti a Berlino perché Carmen esponeva all’ACUD i suoi collage e noi dovevamo suonare all’opening come Mueran Humanos. Quella sera c’erano molte persone ad ascoltarci e alcuni avevano dei locali in città e ci chiesero di andare a suonare da loro e così in tre settimane suonammo cinque volte. Una media decisamente superiore a quanto riuscivamo a fare a Barcellona, che al tempo non offriva moltissime possibilità da questo punto di vista. E allora non volevamo più tornare in Spagna e ci siamo detti, restiamo.”
“E poi c’era quella ragazza. Ti ricordi Tomas? Ci aveva visti suonare a Barcellona ed era tornata al nostro spettacolo a Berlino. Lei aveva appena comprato una casa qui e allora ci disse restate, potete stare in affitto nella mia nuova casa.”
“Vero. E alla fine decidemmo di restare davvero. All’inizio fu dura, senza tedesco, senza soldi. Ma poi nel giro di un anno avevamo potuto registrare un album e tutto è cambiato come non ci potevamo davvero aspettare. E a Berlino tutto questo era davvero possibile. Non era facile, ma era possibile. E adesso? Adesso ho davvero paura che non lo sia più. O forse no, ma sicuramente non con le modalità e i tempi che sono stati concessi a noi.”
“Ormai utilizziamo Berlino come un laboratorio in cui metterci ad ascoltare e farci ispirare da ogni tipo di musica. Passiamo parecchio tempo in casa, non abbiamo molti amici qui, ormai. Però è un posto comodo, perché in poche ore possiamo raggiungere quasi ogni città d’Europa. E’ per questo che nonostante tutto ci conviene restare qui. Lo facciamo, ancora una volta, per la nostra musica. Per la band.”
Intanto i Kraftwerk continuano a girare sotto l’impercettibile peso della puntina del giradischi, mentre io raccolgo le mie cose e lascio i due, appena rientrati dal tour, ai loro piccoli spostamenti di oggetti e al loro riposo.
REDAZIONE
Wale Café
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