Il senso di desolazione, a Dosso dei Galli, è ovunque: finestre rotte, tapparelle divelte, sanitari strappati via dalle tubature. Mani di cavalletta hanno sottratto il più al luogo, mentre il tempo ha fatto il resto; a regnare, resta il silenzio estremo della montagna, che tutto custodisce e nulla nasconde. Appoggio la fronte alla mia Olympus e metto a fuoco la cornice vuota di una finestra: mi voglio concentrare sul panorama là fuori, come a sottolineare che negli anni tutto è cambiato, ma la vista è rimasta uguale. Splendida.
Mi trovo sulla cima di una collina, pennacchio circondato da picchi e pendii sepolti dagli abbracci fugaci di nuvole temporalesche. Il Dosso dei Galli lo chiamano ed è giusto un po’ più in là della mia valle, abbarbicato su uno dei punti più suggestivi del panorama. Qui, sulla cima di quest’ermo colle, lo sguardo rimane intercettato da due parabole gigantesche. Agli occhi della mia infanzia, queste sono note come “le orecchie di Topolino”, espressione riportata dall’ironia di mio padre e della quale non mi sono mai voluta liberare. Le noti un po’ ovunque, da molte altre vette e rifugi tutti attorno nelle valli. Come potrebbero passare inosservate due parabole a mosaico da circa 30 metri di diametro a quota 2.196m sul livello del mare? Invisibili da lontano, restano invece gli edifici della base, dove il personale NATO origliava sul mondo, prendeva nota e ritrasmetteva a Nord, verso la Germania e da lì poi su fino a Scandinavia, Groenlandia e Stati Uniti: la stazione Troposcatter.
Per arrivare quassù ci sono un paio di possibilità, tutte abbastanza tortuose. Io ho scelto quella che dal fondovalle camuno ti porta ai piedi delle nuvole, prima in salita, poi snodandosi al piano. Siamo sulla strada del Maniva, meglio nota come “strada provinciale BS 345 delle 3 Valli con il Passo Crocedomini”, meta di motociclisti e buongustai di ragù di cervo e polenta fumante. Una strada che di suo ha già una storia interessante: nata prima della Prima Guerra Mondiale in previsione del conflitto con il vicino austro-ungarico, caduta poi in disuso e tornata in auge proprio grazie a questa (ormai ex) base NATO. La terra ai lati della vecchia mulattiera ampliata è rossa d’arenaria, con presenza di porfido, quarzo e incantevoli laghetti da pesca.
Il dosso dei Galli – in dialetto “Dos dei Gai” – pare prenda il nome dalla popolazione locale di galli cedroni. Toponimo interessante per costruirci sopra una base militare intenta ad ascoltare il mondo dal 1969 al 1995, anno in cui è stata definitivamente smilitarizzata. Il senso di abbandono è però attutito dalla presenza di visitatori semi-clandestini. Su YouTube si trovano video girati con droni e go-pro da mountain-bikers, appassionati di luoghi in disuso e/o decrepiti e da gente impegnata a farsi la guerra per gioco. Pure oggi, lasciato il cancello alla base della salita che si distacca dalla strada principale – d’intralcio unicamente ai veicoli, in quanto l’area tutt’attorno non è cintata – mi sono ritrovata davanti un gruppo di escursionisti sui sessant’anni. In qualche modo sono grata al loro fare loquace: senza questo chiacchiericcio di sottofondo che mi arriva a tratti, ora il mio piccolo viaggio mi sembrerebbe più desolato, immerso com’è in una struttura ancora solida e dipinta di vento e silenzi: come se sotto sotto, grattando via la ruggine, fosse ancora in ascolto.
Le informazioni giungevano alla IDGZ – nome in codice di questa base – dalla stazione del Monte Giogo (IMXZ) attraverso quella di Cavriana, cavalcando l’etere su microonde, che poi andavano re-inviate alla base di Feldberg (detta AFEZ) tramite tecnologia troposcatter, ovvero avvalendosi della troposfera come veicolo per il segnale (che non poteva più viaggiare in linea retta). Per raggiungere le stazioni al nord bisognava infatti bypassare la Svizzera (mai membro dell’Alleanza Atlantica) e la Francia (uscitane dopo un po’) e già che c’eravamo anche la piccola Austria: da qui, l’importanza delle enormi e potenti parabole. Un sistema affidabile insomma, anche in caso di maltempo; ho letto che l’ACE (Allied Command Europe) High System “era stato progettato per disporre di una cintura elettromagnetica in grado di trasmettere informazioni e tracciati radar in tempo reale ed era formato da 49 stazioni poste a 300 km di distanza l’una dall’altra.” Un mondo che nell’era dei satelliti sembra ormai preistoria.
In quegli anni, questo luogo era un fortino: I-N-A-C-C-E-S-S-I-B-I-L-E. Ho sentito racconti su giovani curiosi politicamente motivati che, avventuratisi troppo vicino alla base, erano stati fermati, obbligati ad aprire la macchina fotografica e a strappare il rullino. Vietato guardare chi stava origliando! E poi c’era quell’altra forma d’isolamento, quella data dalla neve, che qui doveva cadere copiosa per parecchi mesi l’anno, coprendo di bianco il mondo, al mondo lasciando soltanto il suono di lingue lontane, raccolte in Turchia. Tento d’immedesimarmi con i pensieri di chi in questa base ha vissuto, di chi è rimasto anche isolato e gli è toccato farsi portare i viveri o il carburante via elicottero, quando la strada a scendere era impraticabile.
Mentre attraverso il locale dei generatori diesel – o così mi par d’intuire – mi chiedo cosa i militari penserebbero ora, tornando in questo luogo che gli ultimi due decenni hanno tramutato in immondezzaio, completo di graffi, autografi e brevi dediche sui muri degli alloggi. Mi piacerebbe che fosse rimasto del materiale, che ci fossero dei nastri, delle apparecchiature, qualsiasi cosa che la mia mente inesperta da sempre affascinata d’intrighi internazionali possa trovare interessante. Ma niente, solo il vuoto, fatto di un passato che non conosciamo e di un presente che pare sempre più incerto; ad ogni passo con il quale mi addentro per corridoi, salgo scalini, verifico se almeno un cesso si è salvato. Il nulla.
L’aria fresca di montagna mi riporta gli stralci delle conversazioni degli escursionisti, ma quando esco a riprendere fiato – in tutti i sensi – scopro che se ne sono già andati, lasciando ora intatto quel silenzio che entrava prima dai pertugi della torretta di avvistamento. Controllo da fuori di avere preso visione di tutta la parte interna dell’edificio – roba per nulla scontata per una che ha un senso dell’orientamento prettamente visivo – e un po’ rattristata vado a fotografare le parabole da sotto. Orecchie immense, perfette, bianche e bellissime, ma restano i padiglioni auricolari, nulla degli organi interni.
Di questo luogo in sostanza si conosce poco, ma si racconta molto. C’è chi dice che oltre alle antenne ci fossero dei missili. Chi afferma che tutta la parte interessante si trovasse in un piano sotterraneo, sul cui accesso pare abbiano poi buttato il cemento. Un bunker insomma. Sarebbe un atteggiamento comprensibile, data l’importanza strategica della IDGZ, che faceva parte della dorsale di allarme immediato della Guerra Fredda. Il mistero della base, a ben vedere, resta; così come restano i forti venti ed il rischio di venire colpiti dalle saette: la struttura era stata infatti ricoperta da una gabbia antifulmine.
Mi fermo ad ammirare i due laghetti alpini che dalla spianata delle parabole si distinguono nitidamente e poi scendo, che quei nuvoloni neri si fanno sempre più vicini e non voglio prendermi una lavata. Mentre mi avvio alla macchina, penso a quanto ci siamo persi, prima a non volerci davvero ascoltare, ma solo origliare, e poi a lasciare che tutto cadesse in malora, portandosi via anche quel briciolo di ricordo che non era coperto dal segreto militare. Osservo le due parabole di Dosso dei Galli nello specchietto retrovisore e rifletto su due cose: il sorriso di Topolino – che secondo me ne ha sempre saputo di più di quanto non volesse dare a intendere – e la polenta fumante che tra poco mi poseranno sul tagliere.
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