Sono sempre stata una persona ambiziosa. Quando da bambina mi veniva chiesto cosa volessi fare da grande, io rispondevo “Niente”.
Con gli anni sono rimasta fedele al mio ideale di successo, sono riuscita a non lavorare o a lavorare poco o almeno a smettere di lavorare dopo poco, fino a quando sono arrivata a Berlino, tre anni fa.
Qui sono entrata nel giro delle start up. Ne ho passate al vaglio tre, più o meno una per anno, occupandomi di online marketing per il dipartimento italiano di turno. Tra i miei compiti più appassionanti hanno figurato:
– Copiare ed incollare liste infinite di numeri in autostradali colonne Excel. Più in generale, copiare ed incollare cose. Sempre. Ovunque.
– Controllare giornalmente tutte le pagine del sito web aziendale per assicurarmi che non avessero qualcosa di strano. “Qualcosa di strano” aveva un carattere vago, in un anno non ho mai capito cosa esattamente dovessi cercare, infatti non ho mai trovato niente.
– Scrivere e tradurre testi su argomenti avvincenti come “auto alluvionate a Vicenza”, inserendo appositamente parole grammaticalmente scorrette per andare incontro alla capacità cognitiva dell’utente medio del sito.
– Andare a comprare la plastica da imballaggio con le bolle che scoppiano.
– Pulire macchine alle fiere turistiche.
– Aspettare che mi venisse affidato un compito fingendo di avere già un compito, perché chi aveva il dovere di affidarmi un compito e non lo aveva fatto, doveva pensare che io fossi occupata. Inception.
– Poi scoprire che quel compito consisteva nel copiare e incollare cose.
L’80% dei miei incarichi si riduceva a questo, per otto ore al giorno, per cinque giorni a settimana, con occasionali sbalzi di impegno che attivavano quattro neuroni invece di due.
Poi, finalmente, un mese fa, mi hanno offerto una promozione. Un passaggio ad un ruolo più analitico, con aumento di stipendio annesso e un impiego intellettivo che richiedeva almeno una preparazione da diploma di licenza elementare.
Per due ore sono stata contenta.
Poi per due settimane sono stata miserabile. Andavo al lavoro lentamente, trascinando i piedi, e alle sei mi scaraventavo fuori da lì come un proiettile. Quelle otto ore erano otto boia in cerchio, che contavano i secondi come una cantilena di condanna, e dietro di loro una bambina pigra mi guardava dal divano, mentre strafottente sgranocchiava un pacchetto di patatine San Carlo con la sorpresa. Il mio benessere in una scala da uno a dieci si posizionava a livello “meltdown di Britney Spears del 2007”.
Allora un giorno mi sono alzata, sono andata al lavoro, di fretta questa volta, ho salito le scale che portano all’ufficio delle risorse umane irradiando un sorriso che obbligava la gente a mettersi le mani davanti agli occhi a mo’ di schermo protettivo, e mi sono licenziata. Come licenziarsi? Come salutare i colleghi quando si cambia lavoro? Senza pensarci.
Perché, vi chiederete voi, subito dopo aver ricevuto una promozione mi sono licenziata? Perché, mi chiedo io, adesso che posso stare sul divano a fare niente, le patatine San Carlo con la sorpresa non ci sono più?
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Per rispondere alla prima domanda la prendo larga, parto dalla Roma Antica, da Seneca e dagli stoici. Nel De Otio scrive Seneca: “è lecito vivere in ozio, non dico accettare l’ozio, ma sceglierlo. I nostri dicono che il saggio non si accosterà mai ai pubblici uffici”.
Detta così sembra che Seneca volesse stare tutto il tempo a panza all’aria a bere vino e mostrare pollici versi ai gladiatori. Invece no. Il termine Otio in età antica aveva un carattere positivo, designava il tempo dedicato allo studio, all’arte, alla riflessione e alla costruzione di una morale. Nella cultura tradizionale l’ozio era necessario per raggiungere uno stato d’animo buono e giusto, ovvero saggio, ed era inconcepibile passare all’azione buona e giusta, se prima non si fosse raggiunto quello stato. Smettere di lavorare, insomma.
Riferendoci a Seneca, dobbiamo anche inquadrare il concetto politicamente: egli scrive il De Otio dopo una vita passata in politica e dopo aver visto tutti i suoi sforzi per educare un Principe mite ed indulgente andare in fumo. Andare in fumo letteralmente, considerando che il suo pupillo era Nerone. Preso atto del fallimento, Seneca si ritira a vita privata, sostenendo che, sebbene il dovere del saggio sia partecipare alla vita pubblica, se le condizioni non sono favorevoli, egli deve rinunciare: “Se lo Stato è più corrotto di quanto dovrebbe essere per potervi collaborare, se è invaso dai mali, il saggio non si sforzerà verso l’inutile”. In uno Stato in cui non è possibile la partecipazione si moltiplicano i neg-otia, i non-ozi, i negozi, ossia tutte quelle attività in cui ci si affaccenda per necessità di sopravvivenza e che tolgono spazio al tempo davvero importante, ovvero quello libero. Accanto ai negozi, poi, prosperano i vizi, l’indulgenza nei piaceri effimeri, nella goduria fine a se stessa.
Il De Otio è stato scritto quasi 2.000 anni fa, ma a parer mio, in alcuni aspetti si applica benissimo anche ai giorni nostri.
Sono le nove del mattino, è il mio primo giorno di lavoro. Johanna è la mia capa, è una creatura esile e nervosa, fatta di spighe di grano scosse dal vento, che quando mi parla mi chiede scusa con gli occhi. Scusa Margherita se ti sto dando degli ordini, scusa se ti sto spiegando come fare le cose. Io indosso un maglione rosso che si intona perfettamente con i miei occhi assonnati, aspetto seduta alla scrivania, Johanna mi dice che non c’è un computer pronto per me. Scusa Margherita.
Fino alla pausa pranzo non ho nulla da fare. Guardo gli altri che lavorano, tutto è scandito, tutto è meccanico, chiedo ai miei compagni di banco di cosa si occupino. Le risposte che mi ritornano sono chirurgicamente specifiche, me li immagino che misurano con diversi strumenti la capocchia di un ago. Mi afferra alla gola un sentimento di spaesamento.
Alienazione: per Marx l’alienazione è conseguenza della divisione del lavoro e della sua specializzazione. Il sistema che viene messo in atto distacca l’uomo dalla visione globale del processo di produzione, impedisce il riconoscimento nella propria attività e il controllo sul prodotto.
Nel pomeriggio mi viene portato un laptop, Johanna mi dice che devo correggere delle bozze di testi per il sito web. Trattano tutti della stessa cosa. Sono 40. Quando esco è già notte, sulla metro mangio un panino, ho la sensazione di non aver fatto assolutamente nulla in tutto il giorno, ma allo stesso tempo non ho le energie per dedicarmi a nessun’altra cosa. Per tutta la settimana il ritmo è lo stesso, le cadenze sono prevedibili, i compiti l’uno la copia dell’altro. Di venerdì sera esco, scordo, e non torno a casa fino a quando il sole scende il giorno successivo.
Se lo dovesse spiegare Seneca, lui direbbe che la ragione per cui mi sono licenziata, è perché la stragrande maggioranza del mio tempo era impiegata in un neg-ozio, in una negazione del tempo che mi avrebbe aiutata a capire me stessa, il mondo e la mia morale, e la restante parte del mio tempo era impiegata nel vizio, nel tempo che spendevo per lavare via l’alienazione.
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Se un tempo l’ozio aveva una caratterizzazione così nobile e vitale, se veniva celebrato come la parte della vita che incoraggiava al pensiero, al gioco, all’uso della ragione, cosa potrà mai essere successo dopo di catastrofico a stravolgere le cose? Vi do un indizio: cercate “dignità del lavoro” su Google.
Il Cristianesimo svaluta il concetto di ozio fino addirittura a listarlo fra i deplorevolissimi peccati capitali, sotto l’etichetta della più sofisticata “accidia”. L’ozio impedisce di operare il bene e rende indolenti. Nella Bibbia si legge che l’uomo è chiamato sin dall’inizio al lavoro, perché creato a immagine e somiglianza di Dio al fine di dominare la terra. Le prime pagine del libro svelano non solo che è stessa natura dell’uomo lavorare, ma anche come deve farlo: “Col sudore del tuo volto mangerai il pane”. Il lavoro deve essere duro e faticoso, solo allora quel pane sarà meritato.
Da allora il termine non si è più scrollato di dosso questa accezione avvilente, che lo ha reso una pratica vergognosa, da evitare a suon di zappate o di battiti di dita sulle tastiere. Nel corso della storia, però, ci sono stati vari tentativi per riabilitarlo. Il mio preferito è quello effettuato da Bertrand Russell, intellettuale, filosofo e matematico inglese, che nel 1932 pubblica L’Elogio dell’ozio.
Il testo inizia così: “Io voglio dire, in tutta serietà, che la fede nella virtù del lavoro provoca grandi mali nel mondo moderno, e che la strada per la felicità e la prosperità si trova invece in una diminuzione del lavoro”. Le pagine successive sono un impegno a chiarificare questa considerazione.
Perché il lavoro è un valore così importante, tanto fondamentale da definire la nostra vera essenza? Noi non facciamo gli operai, noi siamo operai, non facciamo gli insegnanti, siamo insegnanti, non facciamo i manager, siamo manager. E perché se non sgobbiamo ci sentiamo in colpa, se finalmente abbiamo del tempo libero non sappiamo che farcene?
Secondo Russell questa etica affonda le proprie radici nel sistema pre-industriale: prima della Rivoluzione Industriale, essendo il lavoro non specializzato e non automatizzato, l’uomo di regola riusciva a produrre solo lo stretto necessario alla sopravvivenza. Il surplus doveva essere destinato alle classi dominanti: i sovrani, gli aristocratici, la chiesa. Nella civiltà post-industriale le cose cambiano perché la tecnica moderna consente una redistribuzione della ricchezza e, di conseguenza, del tempo libero. Le classi al potere, però, riescono a perpetuare l’antico sistema attraverso la manipolazione delle masse. Spacciano il lavoro per qualcosa di attraente, per un dovere etico e morale. Il valore giudaico cristiano del duro lavoro viene propagandato e diffuso come legge divina, cosicché sia l’uomo stesso a desiderare di rompersi la schiena, solo così la classe operaia riceverà il suo tanto agognato posto in paradiso. “Il concetto del dovere, storicamente parlando, è stato un mezzo escogitato dagli uomini al potere per indurre altri uomini a vivere per l’interesse dei loro padroni anziché per il proprio.”
La situazione si evolve ulteriormente nel dopoguerra. Secondo Russell la Prima Guerra Mondiale dimostra come la quantità di fatica necessaria per assicurare a tutti i mezzi di sostentamento sia drasticamente diminuita grazie alla tecnica: nel periodo bellico tutti gli uomini impiegati nella guerra, sia come soldati, sia come burocrati, vengono distolti dalle loro attività produttive abituali. Nonostante ciò, il benessere materiale rimane costante. Ma a guerra finita, si ritorna comunque alle otto di lavoro al giorno, per Russell, inutilmente, in quanto quattro ore sarebbero sufficienti per garantire condizioni di vita dignitose per tutti.
Da allora il processo non ha fatto che escalare. Invece di sfruttare il miglioramento di produttività dato prima dalle macchine, poi da tecnologie sempre più avanzate, per godere di maggiore tempo libero, esso è stato impiegato nell’inventare lavori sempre più fantasiosi, sempre più disconnessi dalla realtà, sempre più alienanti. Passiamo otto ore al giorno della nostra vita a far quadrare i conti di bilancio di qualcun altro, a spostare merci che non possiamo toccare in magazzini che non possiamo vedere davanti a un computer, a inventare nuovi modi per convincere la gente a volere qualcosa di cui non ha bisogno. A copiare e incollare cose da una colonna Excel ad un’altra. E siamo persuasi che questo sia quello che effettivamente vogliamo.
Nella seconda parte del saggio Russell indaga i benefici di cui godrebbero la società e il singolo individuo se l’ozio venisse rivalutato e, 2.000 anni più tardi, lo fa usando termini molto simili a quelli di Seneca, in supporto all’intuizione che, se un’idea ha del vero, essa non conosce il passare del tempo. “In un mondo dove nessuno sia costretto a lavorare più di quattro ore al giorno, ogni persona dotata di curiosità scientifica potrebbe indulgervi, ogni pittore potrebbe dipingere senza morire di fame, i giovani scrittori non sarebbero costretti ad attirare su se stessi l’attenzione con romanzacci sensazionali … Soprattutto ci sarebbe nel mondo molta gioia di vivere invece di nervi a pezzi, stanchezza e dispepsia. Il lavoro richiesto a ciascuno sarebbe sufficiente per farci apprezzare il tempo libero, e non tanto pesante da esaurirci. E non essendo esausti, non ci limiteremmo a svaghi passivi e vacui”.
Il 20 aprile esco dall’ufficio per l’ultima volta. È l’ultimo giorno di lavoro. Saluto quel mio superiore che starà rinchiuso là dentro fino alle otto pur non avendo nulla da fare, per dimostrare ai suoi capi che sta lavorando duro. La sua voce mi risuona nella nuca mentre si lamenta della noia, degli orari impossibili e della mancanza di riconoscimento. È come se avesse tracciato sul pavimento un rettangolo con il gesso, ci fosse entrato e ora gridasse aiuto perché non ne riesce più a venire fuori. Sulle scale incrocio un mio collega di 26 anni che mi lancia un’occhiata nervosa e tira su col naso. Non è l’unico ragazzetto che si fa di cocaina nei bagni dell’azienda per lavorare più a lungo, per essere più sicuro, per avere più successo. Passo di fianco alla sala riunioni. Si parla di tecnicismi, astrusità e meccaniche di business che non hanno nulla a che vedere con il mondo. Mi chiedo quante di queste persone abbiano capito che tutto quello di cui discutono durante il giorno è una pura astrazione che le separa dalla vita vera, alla quale poi non hanno più il tempo e le energie per fare ritorno.
Se non si fa parte dei pochi fortunati che amano il proprio lavoro, una promozione è più un raggiro che un premio, e accettarla è un modo per non prendere una decisione. Forse Russell direbbe che mi sono licenziata perché, ad analisi ultimata, semplicemente non sono riuscita a trovare nessuna ragione razionale per non farlo.
Per quanto riguarda le patatine San Carlo con la sorpresa, invece, sembra siano ancora in commercio ma, dal mondo, nessuna notizia della loro effettiva presenza sugli scaffali.
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