“La tua settimana può essere brutta, ma non sarà mai brutta come quella di Martin Schulz.” Questo è uno dei tweet più virali degli ultimi giorni in Germania. Il 7 febbraio Schulz ha raggiunto un accordo sulla nuova Grosse Koalition CDU-CSU-SPD. L’8 febbraio Schulz ha però dovuto abbandonare il ruolo di Segretario del suo partito per poter entrare in un nuovo governo Merkel come Ministro degli Esteri. Il 10 febbraio, infine, Schulz è stato costretto a rinunciare allo stesso ministero degli Esteri, per poter fare in modo che un nuovo governo Merkel possa almeno vedere la luce. Una potente fronda interna del partito, infatti, gli ha intimato di fare un passo indietro per favorire l’approvazione della GroKo da parte dei 460 mila iscritti SPD. Gli iscritti voteranno entro il prossimo 2 marzo e, 48 ore dopo, si capirà finalmente se ci sarà un nuovo esecutivo Merkel IV.
Guardandola complessivamente, la storia recente di Martin Schulz è quella tipica di chi viene nominato a capo di un gruppo dalle stesse persone che, eventualmente, già pensano di utilizzarlo come capro espiatorio. Certo, negli ultimi mesi Martin Schulz non ha dimostrato molta intelligenza politica e ha confermato di essere inadeguato alla realpolitik di Berlino. Un’inadeguatezza frutto di una carriera fatta lontano dal governo nazionale, dalle parti di Bruxelles e Strasburgo, dove signoreggia la tecnocrazia e bastano spesso le grandi dichiarazioni d’intenti. Detto questo, incolpare Schulz per il disastro socialdemocratico degli ultimi mesi resta analiticamente sbagliato e non è meno ingeneroso di quell’appellativo, “Kapò”, che gli fu affibbiato da un vecchio Presidente del Consiglio italiano. I problemi della SPD tedesca sono tanti e non basterà cacciare il leader dell’ultimo anno per risolverli: la crisi socialdemocratica è ideologica, profondamente politica, drammaticamente culturale, visceralmente sociale.
Gli accordi della GroKo dimostrano come i socialdemocratici sappiano ancora contrattare tatticamente, ma che, al tempo stesso, non abbiano più una strategia. E la tattica senza strategia, come insegna Sun Tzu, è la strada verso la sconfitta, con o senza Martin Schulz. Secondo un sondaggio Civey-Bild delle ultime ore, 2 tedeschi su 3 considerano la SPD incapace di governare, anche all’interno di una coalizione, mentre le intenzioni di voto hanno fatto precipitare i socialdemocratici sotto al 17%.
Non è quindi da escludere che Schulz abbia lasciato quasi con sollievo la guida di un partito in cui è sempre stato un outsider e in cui non aveva più prospettive di autorevolezza. Il testimone andrà probabilmente ad Andrea Nahles (il voto interno per la leadership ci sarà il prossimo 22 aprile). Anche Nahles dovrà gestire l’opposizione interna, ma è una donna che ha grinta da vendere e che conosce come le proprie tasche gli equilibri e i giochi di potere della socialdemocrazia tedesca.
Il passo più difficile della settimana nera di Martin Schulz, però, è stato il secondo, quello di venerdì scorso, quando ha rinunciato al ruolo di Ministro degli Esteri. L’Auswärtiges Amt era diventato per Schulz un obiettivo personale perfettamente in sintonia con la sua biografia politica: una posizione ottimale da cui far valere un’agenda europeista tout court. Anche questo obiettivo è fallito, miseramente. Le motivazioni del fallimento, in questo caso, non sono solo da cercare nella crisi interna alla SPD, ma sono anche legate al dibattito strategico su quella che sarà la politica internazionale della Germania nei prossimi anni. Perché, a questo punto, il prossimo Ministro degli Esteri tedesco potrà essere europeista quanto vuole, ma non lo sarà mai così convintamente e rumorosamente come Martin Schulz. Esatto: Schulz rischiava di essere rumorosamente europeista, forse troppo rumorosamente, anche per la SPD, anche per la Germania, anche per chi dichiara di volere più Europa.
Il divieto di puntare sull’Europa in campagna elettorale
Quando, circa un anno fa, Schulz è stato nominato alla guida della SPD, i sondaggi erano già pessimi e nessuno dei notabili del partito sembrava in grado di metterci la faccia. Schulz è stato chiamato dall’estero come una sorta di “re straniero”, o come uno di quei super-manager che le multinazionali chiamano da un’altra sede, per affidare a un tizio venuto da fuori un vespaio che non si può più gestire da dentro. Accettata la candidatura al Cancellierato, la scommessa narrativa di Schulz è stata la sola che conoscesse davvero: l’europeismo militante, a tratti quasi fondamentalista, certamente idealista, inconfondibile, legato alla tradizione più novecentesca del progetto europeo. I problemi, però, sono iniziati quasi subito, quando alla SPD hanno scoperto che gli elettori tedeschi sono sì europeisti, ma con calma, vale a dire senza esagerare, senza andare contro gli interessi ruvidamente economici della Germania (per capirlo prima, a dire il vero, sarebbe bastato ricordarsi come Wolfgang Schäuble fosse perennemente in testa agli indici di gradimento tra i ministri dell’esecutivo Merkel III). Così il neocandidato Schulz, dopo la prima vampata iniziale fatta di hype social e meme che recitavano “Make Europe Great Again”, ha lentamente accettato di accantonare i suoi proclami pro-UE, perdendo contemporaneamente la propria spinta carismatica e diventando velocemente una copia sbiadita di Angela Merkel.
Nel maggio 2017, poi, Emmanuel Macron ha festeggiato l’elezione all’Eliseo con l’Inno alla Gioia e le bandiere dell’UE che sventolavano in primo piano. Quel giorno Schulz deve aver detto ai suoi: “Ma vedete che l’Europa funziona?”. Qualcuno, però, deve avergli subito risposto che Macron aveva appena sfidato una certa Marine Le Pen, una signora che è facile additare come pasionaria anti-europea da dover fermare, mentre lui, Schulz, sfidava Frau Merkel, una signora che è impossibile da additare come pasionaria di qualunque cosa e che, quindi, andava fronteggiata senza alzare i toni.
Sono così arrivate le elezioni del 24 settembre 2017, che per la SPD sono andate male, malissimo, con il peggior risultato dal 1949 a oggi. Il giorno delle elezioni Schulz ha dichiarato tra gli applausi che era arrivato il momento di andare all’opposizione. Due mesi dopo, in seguito al crollo dell’ipotesi di governo Jamaika, Schulz ha ripetuto con enfasi di non voler entrare in un governo di grande coalizione, convinto di poter traghettare la SPD in 4 anni di salutare opposizione ricostituente.
Poi Schulz, però, ha cambiato idea, letteralmente, velocemente. Perché? Il motivo è presto detto: di fronte al fallimento Jamaika, il Segretario e tutta la SPD sono stati fatti oggetto di una pressione istituzionale enorme, in cui è stato chiesto di compiere un atto di responsabilità per dare al più presto un governo alla Germania, senza passare di nuovo per le urne e senza presentarsi sullo scenario internazionale con un fragile esecutivo di minoranza. L’avanguardia riconoscibile di questa campagna per salvare il country brand tedesco, fatto di efficienza e stabilità, è stata fin da subito la Presidenza della Repubblica Federale, nella persona del socialdemocratico Frank Walter Steinmeier, mentre il peso sociale decisivo è stato messo in campo da gran parte del gotha industriale tedesco.
All’appello alla responsabilità di Steinmeier per una nuova GroKo ha così acconsentito tutta la dirigenza SPD. Schulz, da parte sua, è stato nuovamente convinto dalla prospettiva di poter far pesare una politica ultra-europeista in un governo Merkel IV. Non a caso, lo scorso 7 dicembre, dopo aver riaperto alle trattative con Merkel, d’un tratto Schulz ha detto tutto quello che non gli era stato permesso dire durante la campagna elettorale, arrivando ad annunciare l’obiettivo di creare gli Stati Uniti d’Europa entro il 2025.
Slogan europei, surplus tedesco
Quello che però Schulz non ha mai capito fino in fondo, probabilmente, è che la sua idea di governare a Berlino senza dimenticare Bruxelles e Strasburgo non è mai piaciuta troppo in Germania, nemmeno ai suoi compagni di partito. La nomenclatura SPD, al pari dell’elettorato socialdemocratico, è certamente europeista, ma non è per questo felice di un legame così forte con le stesse istituzioni UE, soprattutto se intese come vero e proprio gruppo di potere, come specifico network di contatti personali e come concreta struttura politica sovranazionale.
Ovviamente, anche all’interno della CDU l’europeismo non abbastanza tedesco di Schulz non ha mai entusiasmato nessuno (tantomeno dentro alla CSU bavarese).
Scegliere un Ministro degli Esteri che punti agli Stati Uniti d’Europa nel 2025, del resto, non è certo quanto emerge dallo stesso programma/contratto tra SPD-CDU-CSU, reso pubblico lo scorso 7 febbraio. Nelle 179 pagine in questione, le dichiarazioni d’intenti sull’Europa sono cosmeticamente in bella vista, ma sono molto meno chiare di quanto s’immagini. Complessivamente, l’accordo per un eventuale nuovo governo Merkel si basa su un paradosso emblematico: i miglioramenti delle politiche sociali e i nuovi investimenti che vengono rivendicati dai socialdemocratici sono resi possibili dai miliardi di euro attinti dal surplus mercantilista figlio del capitalismo d’esportazione tedesco.
Considerando gli equilibri economici su cui si basa il surplus della Germania, e parafrasando i dibattiti interni all’ex Unione Sovietica, si può dire che i soldi messi a disposizione per le nuove politiche sociali tedesche siano il risultato di una “socialdemocrazia in un solo paese”, vale a dire politiche tendenzialmente difficili da utilizzare come modello direttamente replicabile in un progetto sul genere degli Stati Uniti europei. Il meccanismo che ha permesso l’accordo per la nuova Grosse Koalition è quindi fortemente nazionale e non primariamente indirizzato a un certo idealismo europeista, a meno che non si consideri come unica pietra angolare europeista la crescente dipendenza bilaterale tra Germania e Francia (dove la prima mette a disposizione la sua economia globalmente competitiva e la seconda offre la sua impagabile presenza al tavolo internazionale della deterrenza nucleare).
In altre parole, ora che è stato estromesso quasi completamente, si capisce che se Schulz era diventato scomodo come segretario della SPD per i suoi chiari fallimenti tattici, forse era anche potenzialmente e trasversalmente scomodo come Ministro degli Esteri, in un governo che, se mai nascerà, parlerà tanto di Europa, ma che ha in mente un europeismo diverso: bilaterale, attuale, contingente, improntato alla realpolitik strategica, orientato verso alleanze a macchia di leopardo, sostenitore di evoluzioni a più velocità. Un europeismo, per intenderci, in cui Berlino telefona a Parigi senza dover passare per il centralino di Bruxelles. Non solo: alcuni socialdemocratici di ferro vorrebbero anche rispettare la loro tradizionale apertura verso la Russia, nel solco dell’Ostpolitik e in nome dei preziosi gasdotti Nord Stream. Scenari verso est che Schulz avrebbe potuto mettere in crisi con il suo ultra-europeismo, invertendo il trend del Ministro degli Esteri uscente, quel Sigmar Gabriel che piaceva tanto ad Angela Merkel e che negli scorsi giorni ha proprio lanciato l’attacco finale contro lo stesso Schulz.
Sul piano geopolitico l’estromissione di Schulz non è quindi solo il risultato della crisi della socialdemocrazia europea, ma anche un segno della crisi dell’europeismo più classico, astratto e idealista. Un europeismo che potrà eventualmente reinventarsi, ma che al momento sembra superato da un mondo multipolare sempre più complesso, intricato e imprevedibile.
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