Arrivo ad Erfurt in una sufficientemente soleggiata mattina di Giugno. L’ICE che in poco più di due ore mi ha trasportato qua da Berlino rallenta a pochi chilometri dalla stazione. Deve moderare la velocità per incunearsi in mezzo ad una piccola vallata verdeggiante punteggiata di piccole case. Sono confuso. Com’è possibile che ci sia una valle? La Germania che conosco è priva di rilievi importanti, le colline a cui sono abituato mi si sono presto rivelate come portatrici di un passato brutale: cumuli di macerie ammassate in periferia per far spazio alla ricostruzione. In realtà sono stupidamente prevenuto. In questa zona della Turingia le colline esistono eccome e donano una grazia notevole al paesaggio intorno alla città.
La stazione di Erfurt ci tiene a ricordarmi con una targa che è stata eletta “Stazione dell’anno 2009” e io mi congratulo con lei tra me e me: per essere la stazione di una città di poco più di 200mila abitanti è in effetti abbastanza imponente e, soprattutto, ben organizzata. Il mio hotel è proprio accanto all’edificio dell’Hauptbahnhof, ho giusto il tempo di lasciare il bagaglio alla reception. Non appena mi giro per sedermi nella hall in attesa della mia guida, mi accorgo che Samanta è già lì ad attendermi. Il locale Ufficio del Turismo mi ha organizzato un programma abbastanza serrato, meglio partire immediatamente.
Venendo da Berlino sono ben contento di poter camminare in lungo e largo per il centro senza necessariamente dover usare i mezzi pubblici, mi fa capire che sono arrivato in una dimensione diversa, più a misura di essere umano. L’avevo un po’ dimenticato negli ultimi 5 anni di vita nella capitale tedesca. A rivelarmi il legame con la città dalla quale provengo è il nome di una delle prime strade che attraversiamo, Juri-Gagarin Ring. Come direbbero gli Offlaga Disco Pax in “Robespierre”, Erfurt mi sorprende subito con la sua meravigliosa toponomastica.
Samanta mi spiega che quel Ring, cosmonauticamente ribattezzato durante il periodo DDR, è una sorta di circonvallazione della città ed è nato su quella che era una vecchia cinta muraria. Erfurt, le cui prime notizie risalgono all’anno 742, già nel 1066 si era dotata di robuste fortificazioni, fra le più antiche di tutta Germania.
Poco dopo aver superato Anger, una delle piazze e degli snodi principali di Erfurt, mi trovo davanti ad una statua scura posta su un piedistallo di marmo rosso. Lo sguardo accigliato e severo della persona ritratta è quello di Martin Lutero. Non sono mai stato un attento studioso dell’uomo della riforma e non avevo mai associato il suo nome alla capitale della Turingia. E invece Lutero trascorse qua una parte importante della propria vita, prima da studente universitario (tra il 1501 e il 1505) e poi da monaco agostiniano. Pare che fu proprio nei pressi di Erfurt che ricevette la chiamata di Dio: durante una tempesta un fulmine cadde a poca distanza da lui incenerendo un albero e Lutero, sufficientemente convinto dal potere coercitivo divino, giurò che se ne fosse uscito vivo avrebbe preso i voti. E così fu.
Percorro solo poche centinaia di metri e già sono sorpreso dalla quantità di chiese che rivestono ed hanno rivestito una certa importanza per la città. Erfurt è sempre stata legata al misticismo, si potrebbe praticamente dire che i suoi fondatori siano stati i frati che nel corso dei secoli hanno costruito monasteri e luoghi di culto un po’ dappertutto. La guida mi racconta che ci sono così tante chiese a Erfurt che alcune sono state riconvertite ad altri scopi per impedire che fossero lasciate in stato di abbandono: la diocesi è relativamente piccola e gli edifici religiosi sono troppi per essere tenuti aperti. Alcune chiese sono ad esempio state trasformate in colombari, ovvero ospitano delle colonne verticali con delle piccole celle in cui sono conservate le ceneri dei defunti. Altre invece sono state più prosaicamente trasformate in locande o convitti.
Ci addentriamo ancora di più nelle piccole vie del centro fino a sbucare nella piazza Wenigemarkt. Sotto la struttura di un’altra chiesa si apre un arco e da lì si snoda una strettissima via leggermente in salita. Se non fosse per Samanta non riuscirei minimamente a capire che in realtà si tratta di un ponte, il Krämerbrücke. Sotto ai nostri piedi scorre infatti il fiume Gera, un tempo chiamato Erfes e rimasto in vita nella denominazione della città.
Le acque scorrono placide sotto le arcate del ponte e finiscono in un piccolo quartiere boscoso con delle case affacciate sui canali conosciuto come piccola Venezia.
Dall’altro lato del canale un piccolo gatto nero miagola nella mia direzione e anche questo mi fa ritornare alla mia dimensione di cittadino umano. Qua posso permettermi il lusso di smettere di far caso solo ai grandi accadimenti urbani e concentrarmi anche su alcune piccole cose belle.
Oltre alla religione, Erfurt ha sempre avuto uno stretto rapporto anche con gli affari. Le gilde commerciali erano molto potenti e potevano addirittura fare la voce grossa quando si trattava di prendere delle decisioni sullo sviluppo della città. Spuntando in Fishmarktplatz saltano all’occhio due edifici riccamente decorati, la Haus zum breiten Herd e la Gildehaus. In città, occuparsi degli affari poteva permetterti di rivaleggiare in prestigio architettonico perfino con il municipio, che si trova a pochi passi.
A poca distanza dalla piazza del comune si trova la Predigerkirche. Altra chiesa, altro predicatore. Qui Meister Eckhart entrò a far parte dell’ordine dei Domenicani a soli 14 anni e successivamente ne divenne priore. Il nome che ho appena sentito non mi è nuovo e infatti, scavando nella mia memoria scolastica, riesco a recuperare la traduzione che conoscevo: Maestro Eccardo. Mi consolo con l’idea che la mania tutta italiana di massacrare le lingue straniere non si limiti solo ai titoli dei film.
Il nostro tour del centro si conclude nella piazza del Duomo. Non mi aspettavo uno spazio così enorme e sono ancora più sorpreso dall’imponenza della scalinata che conduce alla cattedrale, posizionata più in alto rispetto al resto della piazza. Accanto al Mariendom, la Severikirche non sfigura in quanto ad importanza architettonica. Un’enorme chiesa accanto al Duomo, questa è la misura della centralità della religione ad Erfurt.
A poca distanza dalla piazza sorge una collina, un tempo attiva come fortificazione. In questi tempi di pace apparente (o guerra non esplicita, a seconda se si voglia vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto) il Petersberg si è semplicemente trasformato nel belvedere della città. Sulle sue pendici erbose è stata disegnata con dei fiori rossi una ruota di carro: è il simbolo di Erfurt e forse richiama l’anima mercantile della città e il suo posizionamento strategico sulla via Regia, una strada commerciale che attraversava orizzontalmente l’Europa da Mosca fino a Santiago di Compostela.
Dall’alto finalmente mi rendo conto di quanto sia ondulato il territorio intorno. Piccole colline basse la circondano e ne inghiottirebbero il panorama se non fosse per tutti i campanili che svettano verso l’alto. Gli unici altri edifici che emergono dalla valle sono i Plattenbau, i palazzoni dell’edilizia socialista costruiti negli anni ’60.
È ora di pranzo quando decidiamo di riscendere nella piazza del Duomo per mangiare qualcosa. Qua in Turingia la tradizione vuole, o per meglio dire pretende, che a riempire la pancia sia un Thüringer Würst infilato dentro ad una piccola pagnotta da intingere poi in una copiosa quantità di senape. Problema: a me la senape non piace. Per tutta la durata del pranzo cerco con nonchalanche di non dare nell’occhio e mangio il mio panino in versione incompleta. È comunque buonissimo, ma mi sento un po’ in colpa per aver violato il precetto della senape. Ripenso alla frase: “Tutto sarebbe donato a chi rinunciasse completamente a se stesso, anche per un solo istante”. Nemmeno le massime di Eckhart/Eccardo mi vengono in aiuto, l’odio per la senape ha vinto contro il misticismo.
Per il pomeriggio l’ufficio del turismo di Erfurt ha preparato per me una cosa che aspetto con impazienza: una degustazione dei prodotti della manifattura di cioccolato Goldhelm. Ad attendermi nel negozio a pochi passi dal Krämerbrücke c’è Dirk Fromberger, uno dei due gestori dell’attività. Mentre mi racconta di come tutto sia iniziato, a Dirk brillano gli occhi. Da una piccola bottega direttamente sul ponte passando per una gelateria, un secondo negozio ed un piccolo B&B, Goldhelm è diventato un punto di riferimento per il cioccolato anche fuori dai confini cittadini. Prima ancora di aver assaggiato un solo pezzo di dolce, è il coinvolgimento a colpirmi: Fromberger non mi sta raccontando lo sviluppo di un business, ma la costruzione di un sogno in cui ha investito emotivamente moltissimo. La volontà sua e del suo socio Alexander Kühn (l’inventore materiale delle cose che sto per assaggiare) è sempre stata quella di rendere il loro cioccolato uno dei migliori d’Europa partendo direttamente dalla lavorazione delle fave, che si fanno inviare direttamente dal Sudamerica. Ogni pralina, ogni tavoletta e ogni confezione di cioccolato diventano dei pezzi unici, confezionati uno ad uno con un involucro disegnato a mano. Del sapore in sé potrei quasi non parlare, corrisponde esattamente alla passione che ho visto negli occhi di Dirk: stupefacente.
Il resto del pomeriggio lo passo vagando senza una meta precisa per il centro città. Vorrei tentare di capirne lo spirito e non trovo miglior modo per farlo che perdermi nelle sue piccole strade, entrando nei numerosi cortili, inciampando in continuazione sulle pietre che lastricano le strade (mannaggia a loro). Poco prima di rientrare in hotel, sfinito dalla giornata, passo per un ultimo cortile a poca distanza dalla piazza del Duomo. Davanti a me c’è il gatto nero che avevo visto la mattina e che riconosco dal collarino blu. Continua a miagolare verso di me, sembra molto socievole e quindi ne approfitto per cinque minuti buoni di carezze e fusa. Poi un cane spunta improvvisamente da dietro un angolo, solo allora il mio nuovo amico decide di sottrarsi alle mie mani e scappa via.
***
Il giorno successivo mi alzo di buon’ora, ho in programma la visita all’EgaPark, un grande parco poco fuori città che ospita esposizioni botaniche e numerosi spazi in cui i cittadini di Erfurt possono andare a rilassarsi. La direzione mi ha riservato un tour in inglese, utile per capire che questa collina fuori città è stata utilizzata fin dal 1600 come fortificazione, conosciuta col nome di Cyriaksburg. Si tratta del punto più alto della zona con i suoi 272 metri sul livello del mare. Data l’indiscutibile bellezza del posto, durante il periodo DDR si pensò di creare un luogo che potesse ospitare manifestazioni e servire da area ricreativa. Inaugurato nel 1961 come giardino per le esposizioni botaniche, nel corso degli anni l’Egapark è diventato uno dei più grandi parchi botanico/ricreativi della Germania grazie ai suoi 36 ettari di estensione. È così noto da ospitare addirittura le registrazioni di una trasmissione televisiva dedicata che viene trasmessa sul canale MDR.
Nella parte più alta del giardino, sopra una vecchia torre della fortezza, è stato costruito un punto panoramico dal quale si domina la città. Mi sorprendo di nuovo dell’imponenza e del numero dei campanili e immagino i tempi in cui un insediamento così piccolo doveva essere difeso da ben due fortificazioni. Piccolo sì, ma anche incredibilmente cocciuto.
Mentre completo il mio tour dell’EGA Park mi imbatto in una troupe che gira alcune scene del programma con una professionalità degna delle migliori produzioni hollywoodiane. Osservo il tutto con così tanta attenzione che dopo qualche minuto un membro mi raggiunge per chiedermi se ho bisogno di qualche informazione. Rispondo di no, ma in realtà vorrei chiedergli di tutto, in particolare come riescano a mandare in onda un programma del genere da tanti anni e a quale fetta di pubblico possa interessare. Poi penso che col mio livello di tedesco rischierei di spiegarmi male risultando anche un po’ offensivo. Taccio, ma la domanda continua a ronzarmi in testa finché non metto piede fuori dai cancelli del parco.
Anche se la passeggiata sotto il sole mi ha tramortito, proseguo con la visita alla vecchia sinagoga di Erfurt. Se non sapessi cosa sto andando a vedere, a stento mi renderei conto che l’edificio che mi si para davanti era un luogo di culto.
Già intorno al 1100 Erfurt aveva una comunità ebraica piuttosto nutrita. Nel 1349 avvenne però l’irreparabile: a causa di un’epidemia di peste che infuriò in città, gli ebrei furono incolpati dell’avvelenamento di fonti e pozzi e subirono un pogrom che uccise quasi 900 membri della comunità. Tutte le proprietà e gli edifici religiosi furono requisiti dalla città di Erfurt e riconvertiti; la stessa sinagoga fu venduta ad un mercante e trasformata in un magazzino di stoccaggio merci. Ovviamente la sua forma originale fu radicalmente (e architettonicamente) cambiata. Come se non bastasse, nel corso dei secoli l’edificio fu utilizzato anche come ristorante e sala da ballo. Solo negli anni ’90 si è deciso di iniziare un progressivo lavoro di recupero mirato a rappresentarne la funzione originaria, anche se gli stravolgimenti furono così massicci che, se non fosse per l’audioguida, non riuscirei neanche ad immaginare come potesse essere quando fu costruita.
Nel sottosuolo della sinagoga si trova il tesoro, probabilmente la parte più sorprendente di tutto il museo. Durante dei lavori edili nella ex area del quartiere ebraico, nel 1997 un operaio sfondò per errore la parete di una vecchia casa. Davanti a lui apparve un vero e proprio tesoro composto da gioielli d’oro, utensili di gran pregio e migliaia di monete d’argento risalenti al periodo del pogrom di Erfurt. Un ricco mercante aveva infatti deciso di nascondere tutti i suoi beni in una nicchia per cercare di salvarli dal sequestro; la memoria del tesoro era poi andata persa per centinaia di anni, fino ad essere riscoperta per caso con un colpo di piccone.
Mentre mi muovo in direzione dello Zoo, la mia ultima tappa della giornata, continuo a ripensare all’Egapark e al tesoro della sinagoga. Riconosco quanto poco sapessi di Erfurt prima di arrivarci e quanto sia rimasto sorpreso nello scoprire una città densissima di luoghi ed eventi sorprendenti. Le storie particolari, di qualsiasi tipo, mi affascinano da sempre e quando ne scopro di nuove cerco di capire come potrei raccontarle. E in questo caso parliamo addirittura della scoperta di un tesoro nascosto, la realtà che supera la fantasia e il racconto! Mi convinco che non riuscirei a fare meglio di così.
Perso nei miei pensieri quasi non mi rendo conto di aver raggiunto lo Zoo di Erfurt (per fortuna il tram fa capolinea). Sono ai piedi di un’altra collina chiamata Rote Berg, (collina rossa) sulle cui pendici boscose si estende il giardino zoologico. Vengo ricevuto con enorme cortesia (devo dire la verità: non sono abituato a riceverne così tanta) dalla Dottoressa Merz, la direttrice. Il ghiaccio della conversazione si rompe immediatamente quando le dico che sono nato a Firenze, una delle sue città italiane preferite, ma che vivo da tempo a Berlino. Frau Merz mi spiega che il giorno stesso sarebbe dovuta essere proprio nella capitale per l’arrivo dei due nuovi panda dalla Cina. È molto contenta di ricevermi e di presentarmi le varie aree davanti ad una mappa. Ammette che lo Zoo si sta progressivamente rinnovando e ingrandendo perché alcune delle strutture in cui sono ospitati gli animali sono obsolete ed è sinceramente dispiaciuta che essi possano soffrire a causa di queste condizioni. Le chiedo informazioni su uno dei motti del parco, Der Zoo der grossen Tiere (lo Zoo dei grandi animali), e mi conferma che sono effettivamente molti gli animali di grandi dimensioni che si trovano a Erfurt; mi spiega però che lei preferirebbe aggiornarlo in “Lo Zoo dei grandi spazi”: nei lavori di rinnovamento sono infatti previsti grandi ampliamenti delle aree per fare in modo che gli ospiti possano avere un habitat sempre più confortevole. Con (forse) poco tatto le dico che è una cosa ammirevole dato che gli Zoo hanno spesso una cattiva reputazione tra le persone. La dottoressa Merz con pazienza mi spiega che è vero e che è compito di direttori e impiegati fare in modo che questa percezione sia mitigata e che un ruolo fondamentale è giocato proprio dai lavori di miglioramento che sono in atto nello Zoo da lei diretto.
Saluto la direttrice e inizio la mia visita passando attraverso la gabbia dei lemuri, che saltano impertinenti da un ramo all’altro della foresta privata a loro disposizione. Poco dopo uno struzzo addormentato a terra mi ricorda quanto anche io stia soffrendo il caldo e la stanchezza. Cerco di non farmi convincere dal suo cattivo esempio: stringo i denti e procedo con la mia salita sulla collina, tra gli sguardi bovini (ça va sans dire) di Gnu e Bisonti mansueti. Arrivato in cima mi fermo a riposare e a osservare i segni che la Germania Est ha lasciato su Erfurt: una distesa di plattenbau, decorati con temi animaleschi, si stende davanti a me. È in questa periferia a nord della città che scopro quello che già ben conosco della DDR: il cemento, gli appartamenti-alveari e, probabilmente, l’alienazione. Gli elefanti nel recinto sottostante si muovono placidamente, incuranti del tramonto e delle mie riflessioni architettonico-sociali. Mi sembra di essere il protagonista di un film post-apocalittico: gli animali sono gli unici sopravvissuti, la natura si è riappropriata di tutto. Sullo sfondo, le macerie di un’umanità sconfitta. Un bambino mi salva dalle mie cupe riflessioni: “Papà, lì c’è un Dumbo grande!” Sorrido e decido che è ora di scendere e tornare verso l’hotel.
Appena tocco il letto mi accorgo che lo struzzo in realtà aveva avuto un’ottima idea e decido di stramazzare. Mi risveglio ore dopo, quando ormai fuori è già buio. Non ho ancora visto Erfurt di sera e decido di fare un ultimo sforzo.
Fa caldo, ma un vento leggero mi permette di stare comunque in maglietta. Passo da Anger e guardo la statua di Lutero: non è illuminata e lui guarda in alto, verso un punto lontano. Erfurt non gli interessa, la conosce bene e sa quanto gli ha dato e quanto tolto. Adesso il suo interesse è altrove.
Le ombre dei campanili si allungano sulle piccole piazze, la gente è seduta nei ristoranti e mormora senza disturbare la città che si prepara alla notte. Molti ragazzi sono distesi sui prati intorno al Gera, vicino al Krämerbrücke. Solo adesso mi accorgo del rumore che fa il piccolo fiume quando scorre. Nelle case della piccola Venezia alcune luci sono accese, mi fermo a riposare un secondo seduto su un muretto e immagino le vite delle persone che le abitano.
Decido quasi immediatamente che, se mai dovessi iniziare a scrivere un libro, mi ritirerei ad Erfurt per avere un po’ di pace. Non so spiegarmi perché, ma credo che sarebbe un ottimo posto in cui trovare l’ispirazione necessaria.
Vengo distratto da un miagolio. Alle mie spalle c’è il gattino nero che ormai conosco bene. Non sono sicuro si tratti del mio amico, stavolta non ha il suo collare, ma le dimensioni e il muso mi convincono che sia proprio lui. Si avvicina anche stavolta per ricevere la sua dose di coccole e io cedo miseramente. Mi piacerebbe pensare che sia venuto a salutarmi, ma forse fa così con tutti i visitatori pensierosi che passano da Erfurt.
Per una sera però voglio essere ottimista: è venuto proprio per me. E se dovessi mai scrivere un libro, parlerò anche di lui.
Foto di copertina: © Francesco Somigli
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