Se c’è un momento, nella vita di un giornalista, in cui il senso del mestiere è messo profondamente in discussione, è il momento nel quale ci si rende conto che in realtà non si ha nessuna voglia di scrivere, di parlare, di raccontare quello che sta accadendo, ma solo di stare in silenzio.
Nel mio piccolo percorso di giornalista mi sono trovato di fronte anche a situazioni molto dure, circostanze che mi hanno fatto dubitare di quello che stavo facendo e del modo in cui lo stavo facendo, che mi hanno fatto riflettere su cosa significhi informare su un avvenimento che ti colpisce come persona, emotivamente, sulla questione del cosa e come si debba riportare, di quale sia il limite umano e professionale di ciò che un reporter deve riferire.
Una risposta vera non me la sono mai data. Ma, sino ad oggi, ho sempre avuto la forza (perché di quello si tratta) di insistere secondo una linea marcata, come di fuoco che incendia la terra: raccontare i fatti, in maniera secca e precisa, in maniera forte e diretta, sempre e soprattutto con umanità, perché solo l’umanità, combinata a una rigida attinenza agli avvenimenti e a un sereno senso di responsabilità pura verso il proprio mestiere di reporter, è in grado di tracciare il limite etico e professionale del racconto giornalistico.
Scrivo tutto questo perché la verità è che poi, alla fine, anche quando avrei voluto, anche quando avrei dovuto, fare soltanto silenzio, ho sempre infine raccolto tutto quello che rimaneva nei miei occhi, nella mia testa e soprattutto nel mio cuore e l’ho buttato giù, convinto da un’idea banale e semplice: se ti attieni a raccontare in maniera impegnata, coscienziosa, salda, allora ti approcci al mestiere di giornalista nell’unica maniera libera dal male, e cioè come un postino che recapita una lettera, come una persona che offre un servizio. Perché il giornalismo, prima di tutto, è un servizio, e per questo motivo, il giornalista, dovrebbe sempre tenere a mente, sempre, l’eccezionale ed enorme responsabilità di cui è investito nel momento in cui comunica un accadimento. Soprattutto quando si tratta di un accadimento di morte.
Non è mia intenzione scrivere un pezzo che illustri la mia idea di giornalismo, ma questa lunga riflessione era necessaria per spiegare che io, in realtà, oggi avrei soltanto voglia di rimanere in silenzio, una voglia che così forte, così potente, non avevo mai sperimentato. Negli ultimi giorni ho pensato più volte “basta, io il giornalista non lo voglio fare più”, travolto dall’abominio che i mezzi di informazione italiani hanno portato avanti dopo l’attentato di lunedì a Berlino e il caso di Fabrizia Di Lorenzo, la ragazza italiana rispetto alle cui sorti abbiamo ormai, purtroppo, soltanto vane speranze.
Senza voler animare polemiche di nessun genere, che non è il caso e non è il momento, e nemmeno con l’intenzione di spiegare agli altri come fare il loro mestiere, una cosa la voglio dire, questa sì, ed è che mi sono sentito molto triste.
Sono partito dal silenzio, perché è quella necessità di silenzio di cui scrivevo sopra che mi ha investito in questi giorni, questa volta in maniera ancora più micidiale. Non l’ho rispettata, la voglia di perdita di contatto che mi ha invaso dopo la notizia dell’attentato al mercato di Natale di Breitscheidplatz.
Adesso la realtà delle cose è molto semplice. Ho cominciato a scrivere questo pezzo immaginandolo come un testo di opinione che facesse il punto sull’attentato di lunedì scorso, un articolo nel quale dare spazio ad alcuni concetti che trovo sia importante tenere lì, fissi e incrollabili, come corpi unici, a darci una mano per elaborare una tragedia che ci ha scosso, tutti, ben oltre i nostri limiti emotivi.
Volevo scrivere ad esempio, ancora una volta, di come sia assurdo non comprendere che dietro ogni atto criminale, dietro ogni azione orribile come quella di lunedì scorso, ci sia innanzitutto una persona, prima che una religione, una nazionalità, un credo politico. E che quell’atto spaventoso di travolgere degli essere umani, passandogli addosso con un autocarro, bisogna, prima di ogni altra cosa, vederlo per quello che è: l’atto di odio di un uomo verso un altro uomo. Perché solo così saremo in grado di elaborarlo, di comprenderlo e di poterlo contestualizzare nella maniera più giusta. Perché solo così saremo in grado di stemperare il rancore e di ripartire insieme.
Volevo scrivere ad esempio, ancora una volta, di quanto è ingiusto puntare il dito a caso, mentre le indagini sono in corso e nessuno ha idea di chi sia realmente responsabile per questa immane tragedia che ci ha investito.
Volevo scrivere ad esempio, ancora una volta, che le parole rifugiato, migrante e richiedente asilo significano delle cose molto diverse fra loro.
Volevo scrivere che è vergognoso sfruttare politicamente una disgrazia come quella accaduta a Berlino per attaccare la politica di accoglienza di Angela Merkel e per cercare di colpire l’immagine multiculturale di una città, Berlino, che (forse è difficile capirlo da lontano, lo comprendo), intollerante non lo sarà mai.
Volevo scrivere che Totò Riina era siciliano, come me, eppure io non sono un mafioso.
Volevo scrivere di quanto sia importante mostrarsi umani, almeno oggi, almeno adesso.
Volevo scrivere che è quando ci si sente così inermi e indifesi che è fondamentale tornare alle emozioni più elementari, quelle che per accendersi non hanno bisogno di parole, ma solo di gesti piccolissimi.
Volevo scrivere che io Fabrizia Di Lorenzo un poco la conoscevo, e mi sento molto, molto, molto triste.
Volevo scrivere di tutte queste cose, e volevo scriverne un po’ meglio di così. Ma non ci riesco.
Mi spiace, non ci riesco.
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