Il racconto che segue è stato prodotto durante il Laboratorio Base de Le Balene Possono Volare.
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La mia stanza dell’infanzia è il luogo più triste del mondo.
Quando avevo cinque anni vivevo a Torino con mia madre e andavo in Grecia d’estate a trovare mio padre. A volte senza trovarlo.
Quell’estate mio padre aveva una sorpresa: il plastico realizzato da lui, architetto, della nuova casa, la dimora estiva. Tale magione sorge su un appezzamento di terreno quasi dentro il mare: è distesa su una micro penisola alla periferia di un piccolo paese chiamato Anxialo, provincia di Bolos, Tessaglia. Perfettamente in armonia col territorio e la vegetazione, è un angolo di paradiso in terra. Mi ricordo il plastico come se l’avessi davanti. Quella di avere una casa piccolissima in mano, e l’estate dopo entrarci dentro, è una delle sensazioni più bizzarramente soddisfacenti che mi sia mai capitato di provare.
Ultimati anche i lavori di rifinitura del resto della villa, il genitore cominciò a dedicarsi alla Mia Stanza anima e corpo.
Una bellissima e massiccia porta di legno la separa dal resto della casa. Un ampio balcone pone pochi metri di distanza tra l’interno della camera e il mare: le rare volte in cui mi ci sono affacciata ho pensato seriamente di fare balconing, e non sempre per motivi ludici.
La cameretta è ampia e posta su due livelli. Qualcuno direbbe che è soppalcata. Io preferisco dire che è una stanza e mezza.
Sognavo di riempire il piano superiore di giocattoli, di tappeti e cuscini. Tutt’ora quello spazio è adibito a studio privato, dove il grande capo coltiva la sua passione per la pittura e la sua propensione nel piangersi addosso.
Al piano di sotto c’è un piccolo letto, ma veramente piccolo. Ci ho dormito poche volte e con molto disagio.
L’estate ancora successiva, quella dei miei otto anni, il vecchio testone (che allora vecchio non era), fresco di divorzio, sposò una tizia molto più assimilabile alla strega di Hansel & Gretel che a un individuo di sesso femminile; costei aveva annoverato tra i voti matrimoniali il – non voglio tua figlia tra i piedi nemmeno in foto – e mio padre non è mai stato molto atto a dire le cose, ha sempre preferito “farle capire”. Così, quel torrido agosto, la mia unica possibilità di vedere quella (mia) casa e la mia stanza fu da dietro i vetri dei balconi che la novella mogliettina prontamente mi sprangava sul grugno, nonostante ci fossero 42° interni senza aria condizionata, mentre mia madre urlava e tentava di sfondare la porta d’entrata e il coraggioso ellenico sgommava via da quella situazione incresciosa. A quanto intravidi, i lavori nella minuscola Cappella Sistina continuavano.
L’estate fortunata fu quella del ‘91.
Fui introdotta al cospetto di sua Maestà la Stronza come damina di compagnia della figlia, mia coetanea. Sapendo che avrei finalmente dormito nella mia stanza per la prima volta, cominciai ad essere straeccitata una settimana prima di partire: i germi della mia insonnia gettati e germoglianti.
Arrivò il grande giorno. Ero dentro.
La porta di legno non cigolava più grazie ad un usura a me aliena; al piccolo letto era stato dato un compagno più grande (mica la Delfina poteva dormire scomoda).
Il balcone con la vista talmente incredibile da sembrare un poster. Il soppalco ingombro degli strumenti del Maestro. Il lampadario fantasma e, al suo posto, una lacrima scheletrita di lampadina.
Intorno, su tutti i muri, la sua opera omnia, il suo masterpiece: sulla destra uno scorcio di Topolinia, il grande prato verde, fili d’erba, e fiori dai colori accesi, con Mickey, Pippo, Pluto e più in alto, a sovrastare i sorci pezzenti, il Deposito e zio Paperone. Amelia! c’era anche Amelia la strega sulla sua scopa volante, col suo ghigno malefico.
Poco più in là, Paperino con i tre pennuti nipoti nella 313, sotto un cielo azzurro Egeo.
Sulla parete dirimpetto c’era il Villaggio dei Galli riprodotto al millimetro: cirri di nuvole delicati e precisi in un’aria tenue che usciva dal muro e ti solleticava la faccia; e il rubicondo Obelix che sorride ad Asterix che sta per calarsi la pozione, e Idefix lì dappresso.
Ero nel sogno di ogni bambino. Ma nel mio incubo personale.
Mi veniva da piangere. Avrei voluto avere quella magica bevanda di Asterix e la superforza e sradicare quel pezzo di casa che mi spettava di diritto e portarmela via, in Italia, lontano. Distante dalle grinfie di figliastri viziati.
Che io manco ce l’avevo la mia cameretta in Italia, perché eravamo povere e dormivamo nella stessa stanza; fino a otto anni ho dormito nello stesso maledettissimo lettone con mia madre.
E invece quella stanza è rimasta il mio amore proibito per sempre.
L’ultima volta che ci sono entrata, qualche anno fa, mi ci sono fatta una canna. Era spoglia e quasi immutata da come la ricordo nel ‘91.
Il posto più bello e più triste del mondo.
Però almeno ci sono i fumetti disegnati sui muri.
In copertina: © Cristiana Palias & Yanez Magazine
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