Quando Rostam mi porta sul terrazzo della sua casa, il caldo denso del giorno non è stato ancora inghiottito dal buio. Mi appoggio al parapetto a scrutare le luci della città: riconosco l’asse che la taglia da nord a sud, Chahar Bagh, Quattro Giardini, saturo del traffico inverosimile della sera, e il tracciato cieco del fiume Zayandeh, in secca da alcuni anni, che l’attraversa da ovest a est; davanti a me, sulla sinistra, è il quartiere armeno di Jolfa, con il suo decoro europeo, alla mia destra è il colle roccioso di Soffeh, ai cui piedi, tra fonti e macchie d’alberi, gli abitanti di Esfahan passeggiano e fanno merenda nei giorni di festa; in fondo è una poltiglia luminosa in cui credo di scorgere la cupola della grande moschea dell’imam.
La casa di Rostam è in un complesso recintato nei quartieri residenziali meridionali. Con l’oscurità, che vela le macchine impolverate e le facciate neglette, sembra quasi di trovarsi in una città occidentale.
Rostam mi offre ciliegie, albicocche e la višnovka, un liquore alle ciliegie e al miele preparato clandestinamente dagli armeni. Nonostante ci siamo appena abbuffati di costine d’agnello alla griglia e di khoresh-masti per rinfrancarci dalla lunga giornata di lavoro (e io mi sia anche concesso una coppa di gelato allo zafferano con pistacchi e confettura di ciliegia), la frutta offerta da Rostam è così dolce che, mentre lui parla a ruota libera, non posso lasciarla inviolata sul vassoio.
Da bambino, negli anni ’80, Rostam abitava a due passi dal bazar, il cui sistema di gallerie, vicoli e piazzette improvvise s’innesta sullo snello rettangolo di quella che, dopo Piazza Navona, considero la piazza più bella del mondo. Allora nel bazar lavoravano calderai, smaltatori, ciabattini e conciatori, annodatori di tappeti, rilegatori di Corani, fornai e venditori di yogurt. Non esistevano negozi per turisti e i prodotti industriali non avevano invaso le vetrine. Un fratello della madre di Rostam era cucitore di trapunte, un amico del padre era miniaturista. I macellai non avevano sistemi di refrigerazione elettrica e vendevano la carne all’aria aperta. La mattina presto giravano con i loro carretti a mano i venditori di ghiaccio.
“Non pensi che fosse meglio prima” gli chiedo,”quand’era tutto più autentico?”
“Autentico?”, ripete lui e senza attendere risposta mi racconta della morte del padre in un incidente stradale: l’incidente non era stato grave, lo erano state le complicazioni intervenute per l’eccessiva perdita di sangue a portarselo via. Oggi questo non sarebbe successo.
Poi ci fu la guerra con l’Iraq di Saddam, che aveva pensato di fare un solo boccone della neonata repubblica islamica. L’invasione fu respinta, ma a prezzo di una smisurata carneficina. Ben pochi, tra gli amici e i compagni di scuola di Rostam, furono quelli a non aver perso un fratello maggiore, un cugino o addirittura il padre. Anche la famiglia di Rostam pianse i suoi morti.
Lo zio Ali Reza, cui la guerra aveva rapito il figlio maggiore e restituito il minore senza le gambe, si prese cura di Rostam, gli fece finire la scuola e lo mantenne mentre studiava ingegneria a Teheran.
Fu duro lasciare la famiglia ed Esfahan, ma negli anni ’90 la capitale, rispetto alla sonnacchiosa provincia, era il posto in cui stare.
All’università Rostam fece amicizia con Hossein, figlio di un ufficiale dei pasdaran. Hossein lo introdusse in alcune case in cui si tenevano feste private, luoghi nei quali dove Rostam bevve whishy, mangiò salumi, incontrò italiani, tedeschi e francesi e conobbe ragazze che indossavano minigonne e vestiti attillati. Questa libertà era tollerata solo in quelle case e al di fuori vigeva (e vige tuttora) la shari’a. Per le strade di Teheran girava la polizia religiosa, che non esitava ad arrestare le donne che lasciavano un paio di centimetri di capelli scoperti sopra la fronte. Non erano pochi gli arresti e la punizione erano settantaquattro frustate.
“Settantaquattro frustate per lasciare due dita di capelli scoperti”, mi dice Rostam con due dita alzate verso di me, come se mi volesse benedire.
Oggi le donne portano il velo coprendo solo gli ultimi centimetri di capelli prima della nuca e le ragazze della provincia studiano da sole alle università di Teheran, come qualsiasi fuorisede europea. Ma le iraniane sono ancora lontane dall’avvicinarsi alla condizione delle donne occidentali.
In quegli anni anche Fara, una studentessa di musica, frequentava le feste. Per il colore dei suoi occhi e la dolcezza del suo carattere era chiamata Asal, miele, e i giovani facevano a gara per farle regali, per ballare con lei ed erano pronti a esaudire qualsiasi suo desiderio. Anche Rostam ne era un po’ innamorato, ma era intimorito dal suo splendore e poi non aveva soldi per farle regali. Hossein invece ne era pazzo e la riempiva di doni preziosi. Ma a far breccia nel cuore di Asal furono gli occhi azzurri di un giovane diplomatico francese. Già si parlava di fidanzamento. Hossein, che non aveva digerito che Asal gli avesse preferito uno straniero, prese a dire strane cose, che Asal doveva stare attenta a come andava in giro, che non doveva sfidare l’autorità, che la sua bellezza non l’avrebbe protetta dalla legge. Nessuno gli diede retta.
Asal fu arrestata un pomeriggio mentre tornava dall’università e nemmeno le conoscenze in altissimo loco dei diplomatici riuscirono a salvarla: Asal fu una delle ultime a subire il castigo della frusta, poco dopo la legge fu cambiata.
Lo zelo rivoluzionario a quei tempi portava l’applicazione della shari’a alle soglie del ridicolo: erano velate persino le donne ritratte sulle confezioni dei prodotti per la cura del corpo, le cui chiome erano coperte con tratti di pennarello nero.
Nelle foto del matrimonio dei genitori di Rostam erano velate solo le zie di provincia e nelle sue prime foto la mamma aveva sempre il capo scoperto.
Rostam disertò le feste e cominciò a prendere le distanze dai pasdaran. Non ruppe l’amicizia con Hossein, ma i loro rapporti si raffreddarono. Cercò di dimenticare e l’unica cosa che conservò fu il desiderio di bere alcool, ma non osava cercarlo. Desiderava solo tornare a casa.
Durante le vacanze, Rostam tornava sempre a Esfahan e passava giornate nelle piccole sale da tè sul secentesco ponte Khaju a guardare il fiume, finché l’acqua che fluiva con dolcezza tra le arcate del ponte non aveva portato via con sé le scorie dei suoi soggiorni a Teheran. Rostam studiava sodo per onorare la generosità dello zio Ali Reza e lo zio ne onorava l’impegno con sonore ciucche di višnovka.
Dopo la laurea Rostam ha rinunciato a un posto a Teheran offertogli dal padre di Hossein ed è tornato definitivamente a Esfahan. Ha trovato lavoro. Si è sposato con Soraya e ha avuto due bambine. Ha passato anni tranquilli e l’elezione del riformista Mohammad Khatami a presidente dell’Iran ha portato, per la prima volta nel Paese, la speranza. In realtà ben poco delle promesse di aperture democratiche è stato mantenuto, ma più per l’ostilità della guida suprema e della nomenklatura conservatrice che per l’incapacità di Khatami.
A Khatami è succeduto nel 2005 un uomo vicinissimo ai pasdaran, Mahmud Ahmadinejad, l’unico laico finora ad aver raggiunto questa carica. La sua presidenza è stata fallimentare sotto ogni aspetto e durante il suo primo mandato l’Onu ha adottato tre risoluzioni in cui ha elevato sanzioni economiche contro l’Iran. E’ in questo momento che Rostam si è totalmente disinteressato alla politica e ha consumato il distacco definitivo dai pasdaran.
Le elezioni presidenziali del giugno del 2009 erano l’occasione che gli iraniani attendevano per voltare pagina, ma la guida suprema non gradiva un nuovo presidente riformista e si è servita di tutti i mezzi per far trionfare il suo pupillo: dall’esclusione all’arresto dei candidati riformisti più autorevoli, fino ai brogli. Ahmadinejad è stato rieletto. La protesta è esplosa a Teheran già alla proclamazione dei risultati e si è subito propagata a Esfahan e alle altre città. La repressione del regime è stata repentina e brutale. Il simbolo di quei giorni è il video della morte di Neda Agha-Soltan, una studentessa universitaria colpita a morte da un cecchino durante una manifestazione.
È stato allora che Rostam ha ricevuto una telefona da Hossein.
La notte è piena. Il brusio di motori dalla Chahar Bagh si è attenuato. Anche la temperatura è calata, ma la višnovka ci tiene caldi. Le stelle sopra di noi hanno strane posizioni: il Cigno è volato in alto, la Lince sembra aggredire la Giraffa.
“Ho dovuto pensare a Soraya e alle bambine”, dice Rostam.
Nonostante migliaia di arresti e più di cento esecuzioni capitali, senza contare gli ottanta dimostranti uccisi durante le manifestazioni, il regime ha domato gli iraniani solo dopo molti mesi. Non c’è stato giorno, allora, in cui Rostam non pensasse di ricevere un’altra telefonata da Hossein.
Gli iraniani hanno ricominciato a sperare con l’elezione di Hassan Rouhani, succeduto nel 2013 ad Ahmadinejad. Rouhani, che quest’anno ha cominciato il suo secondo mandato, vanta senz’altro maggiore talento comunicativo del suo predecessore, tanto che all’estero ha fama di moderato. Non a caso, durante il suo primo mandato è stato concluso il cosiddetto deal sul nucleare, che ha portato alla rimozione di molte sanzioni, di cui hanno finora hanno beneficiato, in verità, soltanto i pasdaran e, di riflesso, la classe media.
È tardissimo e la bottiglia di višnovka è vuota. Scendiamo senza fare rumore. Le bambine dormono nella loro stanza, Soraya si è addormentata davanti a un talk show. Tutte le donne sono senza velo e la conduttrice indossa un abito fasciato che ne esalta le forme.
È un canale californiano in persiano: “i canali nazionali non li guarda più nessuno”, mi sussurra Rostam mentre con Snapp, un’app iraniana simile a Uber, chiama una macchina.
L’autista non batte ciglio davanti al mio fiato greve d’alcool e filando per la città addormentata mi riporta in hotel.
Qualche giorno fa ho chiamato Rostam. Dice che sta bene.
Alla fine di dicembre è scoppiata una protesta a Mashhad, innescata dall’aumento del prezzo di alcuni generi alimentari primari. A reclamare sono i giovani e i giovanissimi che non hanno un lavoro e non sanno come tirare avanti. La protesta è dilagata alle altre città iraniane e ha assunto subito toni politici: la svolta conservatrice di Rouhani durante il suo secondo mandato ha scontentato molti.
La repressione del regime non si è fatta attendere e già si contano più di venti morti negli scontri, quattrocentocinquanta arresti nella capitale e centinaia nelle altre città.
Il pensiero mi torna al giugno del 2009. “È diverso”, dice Rostam. Allora alla guida delle dimostrazioni c’erano politici di primissimo piano, mentre al momento queste proteste non hanno capi, non si sa che fine faranno, né se farà gola a qualcuno il capitale politico che cominciano ad accumulare.
Non ho il coraggio di chiedergli se ha paura di ricevere un’altra telefonata da Hossein. Forse Rostam mi legge nel pensiero, perché mi dice che milioni di iraniani, come lui, hanno ricevuto un sms da un numero sconosciuto che li diffida dal prendere parte alle proteste.
Anche il regime si è aggiornato.
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