brrrrrrrr tratratratra grrrr pfiiiii bum splash.. qual è il suono che vuoi dare a un ricordo? Se dico amicizia cosa pensi? Di che colore è un rifugiato?
Tutto comincia con John Cage in Tv. Bianco e nero. Suona degli oggetti della vita quotidiana: una pentola a pressione, una paperella da bagno, un annaffiatoio. Meglio: usa degli oggetti in diversi modi e il suono che ne esce fuori è il concerto. Annaffia dei fiori, beve dell’acqua, frulla dei cubetti di ghiaccio, butta a terra una radio, sbatte un pianoforte, fa suonare una paperella da bagno. In sottofondo il pubblico della trasmissione si sganascia dalle risate e mi viene in mente il trafiletto della settimana enigmistica “così ridevano negli anni ’60”. Siamo nel 1959. “Water Walk”.
E forse i rifugiati non c’entrano nulla, ma i rifugiati, oggigiorno, pare c’entrino sempre. Rifugiati rifugiati rifugiati. In tutte le salse, in tutti i sapori. Al corso di tedesco il prof spiega il termine “forza lavoro”, e nomina i rifugiati. In un’ex fabbrica hipster dei giovani sedicenti grafici, bianchi e di buona famiglia, mettono all’asta le loro creazioni, e per invogliare i clienti, altri hipster bianchi di buona famiglia, nominano i rifugiati. Anche quando non sembra c’entrino niente, i rifugiati sono sempre lì, pronti a sobbarcarsi sulle spalle pesi, misure e significati di tutto ciò che l’uomo bianco europeo non può sbrigarsi da solo. Basta la parola “rifugiati”, come fossero un genere a sé stante, una cartella in cui mettere un po’ di tutto; come dire gay, nero, cattolico, arabo. Rifugiato. Ma, a volte, questi rifugiati, sono dei bambini. A volte, incredibile ma vero, sono delle bambine. A volte sono neri, a volte solo un po’ latte e cioccolato. A volte sono vecchi, a volte barbuti. A volte hanno una laurea, a volte sono dei contadini siciliani che arrivano in america per cercare fortuna, o per trasformarsi in delinquenti. A volte, sono.
Altre volte, achtung achtung, che siano rifugiati o no, può non importare. A volte quello che in molti chiamano un rifugiato è solo una persona. E’ raro, ma può succedere. E a volte queste persone sono dei giovani ragazzini dai 9 ai 16 anni, arrivati nella mitica Europa senza genitori. Può capitare poi che otto di loro, nel 2014, siano temporaneamente alloggiati presso la “Society for care of minors” di Exarcheia (Atene, Grecia). Alcuni adulti, bianchi, occidentali, artistoidi, mostrano loro il video di John Cage e propongono un gioco: rifare quello strano concerto. Così Abel, Aron, Ehsan, Jawad, Jined, Massoud, Mousse e Omer, invece che rifugiati provenienti da Afghanistan, Eritrea, Pakistan e Siria, diventano dei giovani concertisti, interpreti di un progetto d’arte europeo a firma Daniel Wetzel e Rimini Protokoll, che arriva a Berlino sul palco dell’HAU2 (Habbel am Ufer) nel contesto del Performing Art Festival. Titolo: “Evros Walk Water 1 & 2“.
Perché da quel 2014 ad ora quegli stessi ragazzini sono cresciuti, sono stati trasferiti altrove, e questa nuova versione di Evros Walk Water, rilavorata ed estesa, ne tiene conto, ponendo nuove domande. Il pubblico entra, vede il video di John Cage e poi prende posto tra i vari strumenti: un gommone, una pentola con dei sassi, un mixer, un fucile giocattolo, della palle da biliardo, una macchinina Ferrari telecomandata, una catena, un fischietto a forma di delfino. Lo stage è un quadrato in cui con un prato finto è riprodotta l’Europa con i suoi mari. Il gommone è al centro. Ognuno alla sua postazione, cuffie sulle orecchie, e comincia il concerto.
“Dear audience, we cannot be with you, that’s why you are the musicians and we are the conductors“, dicono le voci degli otto ragazzini in cuffia. Loro, anche se ormai in Europa, non sono autorizzati a viaggiare e muoversi, quindi il pubblico dovrà essere artefice del concerto. In cuffia le loro voci nelle loro lingue, in greco e in inglese. Raccontano le loro storie, poi ci si scambia posto, si sentono altre storie. Concerto, poi altre storie. Per sei volte si sente un campanello, quello della porta della loro casa-rifugio di Atene, e per tre minuti si suona come loro in cuffia ci dicono di suonare. Noi gli esecutori, loro i maestri.
Capita a volte che qualcuno si perda, nelle indicazioni tecniche di cosa fare, e le maschere del teatro sono lì a rimettere gli spettatori al loro posto, nel meccanismo del concerto. Proprio su quello stesso palco dell’HAU2 avevo già visto un altro progetto dei Rimini Protokoll: “Situation Rooms”. Cuffie e tablet, quella volta, e gli spettatori a interpretare e ripercorrere diverse storie intorno al tema delle armi: dal soldato al ministro per la difesa, dalla cuoca della mensa di una fabbrica di armi al tecnico di laboratorio. Il gioco tecnologico, la trovata, a volte distoglie dalla storia, a volte complica e annoia, a volte interessa più della storia stessa. Certo non è uno spettacolo teatrale nel senso canonico, forse un’istallazione. Eppure, questa volta più dell’altra volta, le voci dei ragazzini in cuffia sono riuscite a farmi veramente sentire lì, in quella casa, in mezzo a loro e, alla fine, proprio come uno di loro. Più volte mi sono trovato a fermare il magone, commosso per la loro semplicità, la loro timidezza, la loro voglia di giocare, le loro risate.
Verso la metà dell’esibizione agli spettatori in quel momento nelle postazioni numero 8, 9 e 11 viene chiesto di avvicinarsi, di prendersi le spalle, di guardare tutti e tre verso il gommone ripieno d’acqua. Nelle cuffie sentiamo le voci di quei tre fratelli che, arrivati insieme in Grecia, sono stati un giorno costretti a separarsi per logiche burocratiche. Sentire le loro voci, vedere quei tre corpi di spettatori come marionette mettersi a piangere. Poi di nuovo il campanello, prendi il gong e buttalo in acqua quando te lo dico io, mi sussurra all’orecchio un bambino nella sua lingua, e un altro me lo traduce in inglese. Gong. Inizia il concerto.
Ciao mi chiamo Abel, e tu? Il mio piatto preferito è il cous-cous. Questa canzone la ascoltavo sempre con mio fratello. Quando mettevano questa le ragazzine andavano fuori di testa. Nel video guidano una Lamborghini ma io preferisco le Ferrari. Sono finito in carcere perché ho comprato una birra: è stato lo stesso poliziotto che mi ha arrestato a vendermela. Mi hanno condannato a 8 anni di carcere e lapidazione a morte. E’ venuto mio padre, mi hanno portato nel bagno delle femmine e mi hanno messo una specie di burqa, ed è cominciato il mio viaggio. Il gommone su cui eravamo era un po’ come questo qui. Tre da una parte e tre dall’altra, dovevamo attraversate il fiume. I tre a sinistra all’uno, i tre a destra al due. uno due uno due uno due. Non è stato facile: la corrente spingeva come una Ferrari. Abbiamo visto dei poliziotti, ma ci hanno fatto passare: credo sapessero. Quando sono arrivato in Europa non era come me lo aspettavo: sono andato alla polizia per chiedere aiuto e mi hanno messo in carcere, esattamente come nel mio paese. Mi hanno chiesto se sapevo un numero, ho dato quello di mia madre. Sono tre anni che provo a chiamarlo ma dice ancora che è spento. Qui è meglio che in Pakistan: qui non devo picchiare nessuno. Mio padre mi costringeva a farlo con la pistola; un giorno ho quasi picchiato a morte un bambino. Non lo voglio più fare. Qui sto bene.
Che puzza, negro, smettila con quello spray! Ci mette 20 minuti a pettinarsi e guarda che risultato. Ora lo spettatore alla postazione numero 8 spruzza la lacca per capelli e capisci che vuol dire vivere con questo qui. Go to hell, tu e il tuo hairspray! Come si sta in Svezia? Sono più razzisti? Ce l’hai la ragazza a Goteborg? Skype, Viber, Facebook, Instagram, Snapchat. As-Salaam-Alaikum, negro! Che ti viene in mente se dico rivedersi? Nuvole, ombra, spiaggia, la voce di nostra madre. Quanto ci hai messo ad arrivare? 3 mesi, a piedi, Macedonia e poi Serbia e poi.. Eravamo 12000, poi è arrivata la polizia, ci ha sparato, e ha ucciso un po’ di noi. Mi ha preso alla gamba. Quando sono arrivata non sapevo nulla di me, dei miei diritti. Sono andata a scuola, ho imparato la cultura di qui. McDonald’s. Ahahahah. I want to be rich, I don’t want poverty. Voglio fare il poliziotto: le celebrità non hanno una bella vita, invece il poliziotto fa quello che vuole e può girare libero con la sua macchina per la città. No more torture. Never again.
Qualcuno nella postazione deve stare in piedi, alcuni di noi verso la fine sono stanchi e iniziamo ad ascoltare stando seduti per terra. Abbiamo fatto il giro di 8 postazioni su 25, andata e ritorno. Aspettiamo di poter toccare gli altri strumenti, curiosi, ma non passiamo da tutte le postazioni. Degli schermi sopra le nostre teste ci dicono quando inizia il concerto, un timer conta i tre minuti ogni volta che si suona. Poi altre voci, altra storie, altre risate, altri racconti. Ci si guarda gli uni con gli altri, ci si aiuta a vicenda a capire dove andare e come usare i vari strumenti. Siamo un po’ inscatolati nel meccanismo, un po’ rintronati. I concerti sono rumori quasi senza senso, a volte divertenti, a volte sconclusionati. Che avverrà al prossimo campanello?
Ma alla fine è avvenuto il vero concerto, noi, più ragazzini di loro; noi, nei loro panni: adesso avete usato i nostri strumenti come noi vi dicevamo, ma non è come li avremmo usati noi: siamo bambini, e noi avremmo fatto tanto tanto casino. Have fun and rock the house! Toglietevi le cuffie e suonate come avremmo suonato noi.
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