Al Volksbühne di Berlino è quasi tutto esaurito per il concerto del primo dell’anno. Sul palco Volker Bertelmann, aka Hauschka.
Hauschka è un ottimo pianista, un compositore che è ben riuscito, soprattutto negli ultimi lavori, a combinare la sua formazione classica a uno stile più sperimentale. La sua ricerca sonora, le ambientazioni, il taglio sempre più contemporaneo delle sue composizioni, lo hanno portato a guadagnarsi un posto di riguardo fra i migliori autori di musica contemporary classical del nostro tempo.
Calexico, Múm, Kronos Quartet, sono solo alcuni fra i grandi nomi con i quali Hauschka ha collaborato nel corso degli ultimi anni, imponendosi all’attenzione della critica e raccogliendo, in qualche misura sorprendentemente, un successo importante, anche in termini più commerciali.
Guardando in rete le sue foto, prima del concerto, non si riesce ad avere un’idea precisa sul personaggio, sul suo carattere, sulla sua sessualità: elementi che mi piace indagare, prima di mettermi all’ascolto. Una volta salito sul palco, invece, Hauschka mi ha subito dato un’impressione più netta, più rotonda, più decisa.
Dando un’occhiata in giro noto un’atmosfera frizzante, un pubblico trasversale che supera stereotipi ed etichette, come spesso capita a Berlino. Gente che apre bottiglie di Sekt in sala, qualche coppia di über 60 convinta di andare al concerto di musica classica di Capodanno, degli hipster (che non mancano mai) vestiti in maniera indecorosa, due giovani pasionarie marxiste, una serie di coppie sperdute che non sanno nemmeno perché si trovano al Volksbühne e poi, naturalmente, tutti quelli che sono qui, adesso, perché sanno bene che questo è il miglior concerto in città per il primo dell’anno. E difatti lo è.
Durante i primi quaranta minuti suona Ava Bonam: i suoi pezzi al piano non convincono e la sua voce in inglese la ascoltiamo soprattutto durante i numerosi intermezzi nei quali ritiene fondamentale spiegarci il perché della composizione.
Superato il momento difficile, gli sguardi in sala tornano sereni con un paio di pezzi degli Alma Quartett, un quartetto d’archi elegante e dinamico che apre la seconda parte della serata con due movimenti di Erwin Schulhoff del 1924. Gli Alma Quartett, olandesi, sono raffinati, sono soffusi, sono in grado di far avvicinare un suono classico al beat techno, attraverso un violino. Con loro si passa dalla velocità di passaggi che ti lasciano senza respiro a bruschi ripensamenti di calma, come se di colpo la loro musica volesse ritirarsi, come se timidamente, dopo un exploit fantastico, il suono avesse voglia di tornare a passare inosservato, stretto in una malinconia imperturbabile.
Gli Alma Quartet, di origine olandese, hanno già collaborato con Hauschka in diversi concerti e alla registrazione di numerosi dischi e restano sul palco, finita la loro esibizione, per accompagnare il protagonista della serata.
Hauschka tiene bene, conversa amabilmente con la platea e inizia con due pezzi del suo ottimo ultimo disco, What If, un lavoro sofisticato, nel quale viene fuori la peculiarità espressiva di un musicista che è in grado di tirare fuori dal pianoforte dei suoni che sembra arrivino da un sintetizzatore. C’è di tutto sul piano di Hauschka: nastro adesivo, palline da ping-pong sulle corde, un telefono cellulare, eppure sembra impossibile che quel suono stia davvero arrivando dallo strumento. Bisognerebbe salire sul palco e guardare meglio dentro il pianoforte, ispezionare i tasti, per capire dove stia il trucco. Via via che il concerto cresce, Hauschka ci riporta, ogni tanto, a sonorità più classiche; mi piacerebbe continuasse con questo set, mentre per il resto del concerto si diletta insieme agli Alma Quartett.
C’è un’urgenza improvvisa, nei suoni di Hauschka, una potenza che somiglia al vetro e al ferro e alla sabbia, abbandonati su una spiaggia ventosa d’inverno. La musica che arriva dal pianoforte colpisce come una gelida tormenta, eppure, allo stesso tempo, le note sincopate, le melodie che si strozzano amorevolmente nel cuore della struttura musicale, si manifestano come degli indispensabili riferimenti, delle luci che orientano l’ascoltatore nel meandro sonoro della serata. Ecco, il suono in arrivo dal piano è come miele che scivola sul marmo freddo, mentre muove le mani sulla tastiera, Hauschka dà la sensazione di una spugna spremuta, una spugna da cui escono fuori suoni di tutti i colori, suoni di tutti i sapori. Agrumi e metallo, ghiaccio e turchese, mandorle e odore di benzina.
Tutto sembra tecnicamente perfetto. Buoni ritmi, pubblico entusiasta, la sensazione di poter restare qui per sempre.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin