Berlin Places è un progetto di Mauro Mondello e Loris Rizzo che documenta
in tempo reale, con parole e immagini, i luoghi di Berlino
Testo e foto sono stati realizzati a Gleisdreieck Park, il 16 marzo 2017, fra le 13.30 e le 15.30
Mi viene in mente Paranoid Park. Mi ricordo la sera che l’ho visto e mentre rientravo a casa, percorrendo a piedi l’ultimo tratto di via Torino, su quel piccolo pezzo di marciapiede che separa il cinema Eliseo da corso Genova, avevo una sensazione di lieve e piacevole dolore che mi prendeva, passo dopo passo, come una colata di lava che lentamente, nel tepore, da lontano, venga a travolgere la tua casa di legno e di yogurt alla fragola e di cemento armato. Ogni volta che passo da Gleisdreieck Park devo tornare a immaginare lo strano ragazzo del film di Gus Van Sant, il suo sguardo vuoto, i movimenti temperati, lucidi, immobili. E il ferro, devo necessariamente concentrarmi sul ferro dei ponti che tagliano in due le aiuole, sul ferro dei treni che sbucano improvvisi da dietro le recinzioni, sul ferro odoroso e costante che si incastra ovunque nell’asfalto, sino a insinuarsi sottopelle, per tutto il tempo, durante tutto il tempo, passato fra le le larghe strettoie del parco.
Sono seduto, meglio dire accartocciato, su degli spalti di legno. Lunghe lastre grigie, somigliano a quelle che in Sicilia si utilizzano vicino alle docce in spiaggia, che comunque poi le docce non funzionano quasi mai, quando ci sono. Vedo carrozzine spinte da mamme troppo giovani per essere vere, palazzoni che sembra possano cadere da un momento all’altro sui tavoli da ping-pong, proprio di fronte a me, sul lato che si apre verso Schoeneberg, in Kurfüstenstrasse. Vedo montagne di terra di colori diversi, accumulata in ordinate collinette che paiono formare, se ci si mette nella corretta prospettiva, una minuscola catena montuosa. Una ragazza con una giacca sportiva gialla ed un cappello bianco, la striminzita coda di cavallo a dondolare appena sopra le spalle, se ne va di corsa, da destra verso sinistra. Non posso fare a meno di chiedermi cosa accadrà nella sua vità fra due anni, se verrà ancora qui a correre con la sua mantellina da jogging o se invece sarà ormai in un altro momento, in un altro istante, della sua esistenza.
C’è il rumore delle Ubahn a riportarmi nel mondo. Un ponte più grande, con travi triangolari che sbattono sulle passerelle e poi si rialzano (irregolari, forti) va a sbattere dentro una grande bocca di cemento: sembra che i treni possano finire nei soggiorni degli appartamenti. Più in là un altro ponte, meno impetuoso, ma più lungo, ha forme geometriche rassicuranti e ripetute, pilastri sottili, linee che si perdono dentro l’orizzonte. Il giallo dei vagoni luccica contro le nuvole, il sole si lascia afferrare solo per un istante. In lontananza, volgendo lo sguardo verso il lato del parco che si apre sull’Ufer, si distinguono le architetture moderne di Potsdamer Platz. Cinque o sei adolescenti, tutti ragazzi, ballano una musica che da qui non riesco a sentire: potrebbe essere hip-hop, a giudicare dall’intensità elettrica dei movimenti. Se ne stanno sotto uno degli enormi basamenti di cemento pieno di graffiti colorati: OMB, CZK, Fear Yourself, c’è scritto. Accanto un tappeto elastico, bambini che prendono il volo ed atterrano. Prendono di nuovo il volo e poi di nuovo atterrano. Un uomo infreddolito, berretto azzurro, una giacca acetata piena di tasche, al guinzaglio un cane marrone di taglia media, cammina rasente ai saltatori e li guarda come uno che di salti ne ha fatti già tanti, e ora non ha davvero più voglia.
Mi alzo, cambio posto. A Gleisdreieck c’è una stradina larga come una lingua di pterodattilo, a collegare le due anime del parco. Si attorciglia, aspra e argentina, su se stessa. A camminarci sembra di essere in un pezzo consistente di vuoto: non vedi e non capisci il punto in cui potresti arrivare, eppure continui ad andare.
Scorgo dei fossati e dei ragazzi che appaiono e scompaiono muovendosi come se avessero le ruote ai piedi. E in effetti ce le hanno davvero, le ruote, e gironzolano acrobatici nel grigio di questo primo pomeriggio. Appoggiato al palo lucido che sostiene il canestro da basket c’è uno zaino consumato, con le bretelle nere e l’odore inconfondibile di chi la scuola non l’ha frequentata molto. Una ragazza, sulla ventina, indossa una maglietta nera su cui campeggia la serigrafia di un bassotto con la cresta, ha gli occhi verdi (la ragazza) ed i capelli blu che si arrestano all’altezza delle spalle. Sta appoggiata a una grata di ferro bianca, vicino a una palizzata di legno su cui si apre il vecchio deposito ferroviario. Ogni tanto sorseggia del liquido scuro da una bottiglia di vetro che non riconosco. Poi appoggia la bottiglia sul cemento. Poi la riprende. Intanto guarda nel vuoto e, penso, pensa.
Qui, dal lato del parco affacciato su Kreuzberg, il ferro lascia spazio a un prato che mi sembra più fiorente e rigoglioso. Vedo bambini caracollarsi verso le altalene e le aree attrezzate, padri con le barbe curate e gli occhiali rotondi che accompagnano altri padri con le barbe curate e gli occhiali rotondi, ma con uno zaino frontale, un marsupione, che, scoprirò una volta oltrepassato il profumo velleitario e i vestiti puliti che li accompagnano, trasporta un piccolo bambino.
Vicino alla scalinata che precipita su Möckernstraße c’è una specie di baita di legno con un bar, sembra un posto che potresti trovare su una spiaggia, ma come se fosse caduto da un altro pianeta: le traverse sono imbrunite dal sole, eppure a Gleisdreieck il sole non c’è stato mai. Ho fame, in tasca 1 euro. Compro una barretta biologica con l’amaranto e il cioccolato, che mi si incastra ovunque in mezzo ai denti. Valuto come sconsiderato il mio acquisto. Adesso ho la bocca completamente impastata, non posso comprare dell’acqua e non vedo fontane intorno a me. Probabilmente morirò qui, come un supereroe, a Gleisdreieck, ricoperto dai chicchi di grano di centinaia di barrette biologiche giustamente coalizzatesi contro di me.
C’è una sensazione di abbandono diffusa nel parco di Gleisdreieck, come di estate che finisce: le sedie a sdraio si chiudono, gli ombrelloni solitari rimangono a osservare il mare. Uno sfinimento limpido, inquietudine distesa che ti si attacca addosso, diventa uggia dolce e necessaria, lo spleen che si fa bello per venirti a cercare, quella mattina in cui la testa è piena di acciaio e di alberi dai rami troppo lunghi per pensare che non si spezzeranno.
REDAZIONE
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