F40 Künstlerhöfe è uno dei tradizionali cortili interni di Berlino. Collocato in una traversa della Mehringdamm, lo nota solo chi sa che cosa sta cercando. Nulla di particolare spingerebbe un turista, che già per arrivare fino a quasi Platz der Luftbrücke dovrebbe essere particolarmente curioso, ad entrare nella galleria poco illuminata che porta nell’androne. Eppure bastano pochi passi per scoprire due teatri, diversi studi, gallerie d’arte e, naturalmente, un bar.
“Übersetzung/Translation/Traducao” si legge nella lavagnetta posta all’entrata dell’English Theater, la mia meta. Il luogo sembra tutto, meno che un teatro, almeno a prima vista. Luce soffusa, tavoli su cui sono poggiati degli stuzzichini, un bancone da bar improvvisato, foto appese tutto intorno. Lo stile hypster berlinese pervade la stanza. La differenza però è che qui il lato burbero mostrato usualmente dalla capitale tedesca (o forse in tutta la Germania in genere), è sostituito da un atteggiamento più personale:
“Hey”
“Hey, how are you?” chiede il barista. Queste tre semplici parole costituiscono un piccolo evento in una città come Berlino, dove si è fortunati se oltre al prezzo di quello che si sta acquistando ci si sente dire “Danke.”
L’English Theater, come si può già intuire dal nome, ha fatto dell’inglese il suo marchio di fabbrica. Una sorta di “lingua franca” della cultura, nel senso più ampio possibile, visto che gli artisti non devono essere necessariamente madrelingua. Questo è proprio il caso della performance di questa sera, scritta e interpretata da attori portoghesi. Circa quindici minuti prima dello spettacolo la sala inizia a riempirsi. Sono in molti quelli che sbagliano: dovevano andare all’altro teatro, il Thikwa, che è proprio accanto. Anche in questo caso però, niente musi lunghi o atteggiamenti seccati, solo molta disponibilità e indicazioni offerte in un tedesco con accento molto british (o forse americano).
Non trovo informazioni sullo spettacolo. Solo poche righe a spiegare che i protagonisti hanno comprato un biglietto di sola andata Lisbona-Berlino e si sono lasciati alle spalle tutto, pronti ad iniziare una nuova avventura:
One day we bought a one-way ticket from Lisbon to Berlin and left everything behind. The purpose? Start over. The world is a far too good experience to miss. New country. New city. New people. New language(s). A room and then another, and then a flat. Papers to fill, the verbs, the articles, der, die, das, and Europe on the brink.
Un ragazzo si avvicina e mi chiede di pescare una carta dal suo mazzo, interrompendo la mia lettura. È un mago, sostiene. Il trucco gli riesce, indovina che avevo pescato un regina di cuori. Soddisfatto se ne va, alla ricerca di un nuovo “pescatore”. Intanto inizia lo spettacolo, poco dopo le 20 in una sala completamente al buio: come racconta la voce narrante, per parlare d’Europa bisogna partire dall’Inizio, cioè da quando Dio (o chi per lui) creò la luce e poi la Terra. Pian piano la luce inizia a filtrare da una finestrella dietro il palcoscenico e si comincia a intravedere il set. Degli alberi, un pianoforte con appoggiato sopra un laptop, una sedia, su cui prende posto il narratore, un piccolo mappamondo e una torre, posta proprio al centro del palco, sono gli elementi di scena.
Übersetzung/Translation/Traducao si rivela essere un ibrido, un esperimento a metà tra racconto, monologo e musical. La narrazione, mitologica o religiosa che si voglia definire, si mischia con la storia. La Torre di Babele diventa il pretesto per una riflessione sulla (in)tolleranza, sulla lingua e la paura, connessa al non capire. Dio, fiero e severo come quello dell’Antico Testamento, ma allo stesso tempo anche quasi sbadato, o comunque non completamente sicuro di quello che fa, è rappresentato sul palco da una bravissima cantante, portoghese come il resto del cast. La nascita del mondo secondo la Genesi, la storia di Adamo ed Eva, la Torre di Babele, ma anche le Guerre Mondiali e l’attuale guerra in Siria, si mischiano tra loro in una moltitudine di canzoni e di monologhi.
“We are here to talk about Europe” ricorda il narratore più volte, proprio quando sembra che gli attori in scena si stiano allontanando troppo dal tema centrale. Ma l’Europa è solo un pretesto per porre l’attenzione su quella che, forse, è una delle questioni centrali della performance e che potrebbe tornare ad essere un’utopia nei prossimi anni: la libertà di movimento. Una delle attrici si cimenta in un monologo. Come me, ha comprato un biglietto di sola andata per Berlino e si è lasciata tutto alle spalle. Quando è scesa dall’aereo, non le è stato fatto nessun controllo, nessuna domanda è stata posta. La sua avventura è iniziata così, semplicemente, senza formalità, permessi di soggiorno o altre procedure burocratiche.
Si parla di Frauke Petry, Marine Le Pen, Beatrix von Storch: donne che percepiscono la paura, anche quella che nasce dall’incomunicabilità, la canalizzano e poi promettono certezze. Poco importa se queste siano razionali o meno, realizzabili o no. Si propongono come un baluardo e promettono di proteggerci e difenderci. Come se fossimo bambini da convincere: “Non devi aver paura.”.
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