Il silenzio mi affascina. È qualcosa di delicato.
Chi riesce a sopportare un assoluto silenzio, chi non si pone il minimo problema a romperne uno, con quante persone riesci a stare in silenzio senza provare quella sgradevole sensazione di dover per forza trovare qualcosa da dire?
Gli ho creato tutta una mitologia attorno per dare un senso ai miei. L’ho romanticizzato, l’ho annoverato tra le mie prerogative perché uscire dal silenzio a volte é solo troppo difficile e a nessuno piace ammettere di fallire.
Il silenzio l’ho sempre preso in considerazione in relazione a me persona, ma mai in relazione a me donna.
La letteratura femminista si occupa, sin dai suoi inizi, di investigare i silenzi del genere femminile, le loro cause, le loro conseguenze. Allora ho pensato anche alle mie di cause e di conseguenze.
Non parlo di timidezza, insicurezza o pigrizia. Non parlo di risultare snob, fredda o poco interessante. Queste sono cause e conseguenze di poca rilevanza. Penso ai perché che ho interiorizzato dall’esterno e ai quindi che mi definiscono come individuo femmina all’interno di una collettività.
Che la donna ‘muta deve stare’ è una concezione antica. “La dignità della donna è il silenzio,” diceva Aiace alla sposa. “Alla donna il silenzio reca grazia,” scriveva Sofocle.
Nell’antica Roma si venerava Tacita Muta, punita da Giove con il taglio della lingua perché aveva parlato troppo e a sproposito. “Per i romani,” scrive la classicista Eva Cantarella, “come per i greci, la parola non rientrava tra gli strumenti di cui le donne sapevano fare buon uso, non apparteneva al genere femminile, non era di sua competenza.”
Penso alle veline di Striscia La Notizia, alle letterine di Passaparola, tutte acca, tutte mute.
Recentemente è diventato virale un video sulla mia bacheca Facebook in cui una madre ed una figlia davanti ad una libreria piena di pubblicazioni per l’infanzia tolgono libri in cui i personaggi femminili non parlano (ma non solo, in altri passaggi tolgono libri in cui personaggi femminili non compaiono affatto, o in cui non hanno sogni ed aspirazioni, eccetera, eccetera.) Rimuovono 141 libri e sotto le immagini compare una didascalia con scritto che nella lista del New York Times dei 100 migliori libri per l’infanzia, solo 53 hanno personaggi femminili che parlano.
Nel 2010 il Geena Davis Institute for Gender and Media ha riportato le statistiche di tre anni di film per famiglie prodotti ad Hollywood. Solo il 32,4% dei personaggi parlanti sono donne.
Qui è forse utile ricordare che il 51% della popolazione mondiale è di sesso femminile.
Quando un concetto è penetrato così a fondo nella cultura, cioè che le donne farebbero meglio a stare zitte, persino chi ne è oppresso fa fatica a sradicarlo. Quando un’ingiustizia è perpetrata così a lungo e così capillarmente da diventare norma, le stesse vittime fanno sì che essa venga rispettata. ‘Taci!’ è un imperativo che viene tanto da fuori quanto da dentro.
E se proprio una non riesce a stare zitta per lo meno che non infastidisca, che non metta in discussione, non crei conflitti inutilmente.
Non c’é esempio migliore del saggio di Virginia Woolf, ‘Professions for women’, per spiegare quella vocina che tutte le donne hanno sentito almeno una volta nella loro vita.
Lei la chiama l’Angelo del Focolare, la descrive come infinitamente comprensiva, intensamente affascinante, completamente altruista. Una casalinga modello che si sacrifica per gli altri quotidianamente. Così modesta da non avere mai un desiderio o un’ opinione propria, ma simpatizzante sempre dei desideri e delle opinioni altrui. Ebbene questo angelo si presentava a Virginia ogni qualvolta lei si mettesse al tavolino a scrivere. In una specifica occasione stava recensendo un libro di un autore di sesso maschile, quando l’Angelo del Focolare le iniziò a dire: “ Mia cara, sei una giovane donna, stai parlando di un libro scritto da un uomo. Sii comprensiva, si gentile, lusinga, maschera, usa tutte le arti e gli inganni del nostro sesso. Non lasciar mai sospettare a nessuno che tu abbia una testa tua. E soprattutto sii pura.”
“Se non l’avessi uccisa io, mi avrebbe uccisa lei,” confessa Woolf. E con questo scritto esorta tutte noi a fare lo stesso.
I tempi sono leggermente cambiati da allora, eppure a tutt’oggi non è raro che se una donna provi a far sentire le sue ragioni venga etichettata come ‘rompiballe’. Se vuole fare a modo suo è una ‘comandina’. Se si rifiuta di partecipare alla conversazione ‘è una figa di legno’. Perché essere donna corrisponde ancora così spesso ad essere in fallo?
Il silenzio ci converrebbe perché parliamo troppo.
Non so da dove arrivi questa convinzione che le donne parlino un sacco. Nel libro ‘The Female Brain’, fortemente screditato dalla comunità scientifica, della neuropsichiatra Louann Brizendine, l’autrice sostiene che le donne direbbero 20.000 parole al giorno contro le 7.000 degli uomini. Secondo uno studio effettuato su roditori dall’università del Maryland e condotto dalla dottoressa Margaret McCarty, il cervello femminile produrrebbe più proteina Foxp2, che è responsabile di una tendenza più pronunciata alla vocalizzazione. Che ci sia un fondamento biologico o meno, la credenza popolare rimane. Ed è supportata dallo stereotipo dell’uomo taciturno. Bisognerebbe scriverne un articolo a parte, ma non dico niente di nuovo quando parlo dell’uomo ‘che non deve chiedere mai’,o dei ‘veri’ uomini che non parlano dei propri sentimenti. Quella é roba da femminucce. Forse è anche per questo che le donne parlano di più, perché sono spesso portavoce di quello che l’uomo non dice. Quante volte è capitato che fosse mia madre a dovermi dire come si sentisse mio padre e cosa intendeva con quella frase brusca. E sono sicura che questa scena non sia tipica solo della mia famiglia. O quante volte ho sentito la frase ‘Chiama la mamma ogni tanto, che se no si preoccupa,’ come se questo tipo di sensibilità ed interesse per gli altri fosse tipicamente femminile. Non può preoccuparsi anche mio padre, non si può dire che anche un uomo grande e grosso stia in pensiero per i propri cari?
L’emotività e la vulnerabilità sembrano essere relegati esclusivamente nell’essere di sesso femminile, per cui forse peggio di una donna che esprime la propria opinione è una donna che parla dei propri sentimenti. E non sia mai che ascoltandola si possa venir infettati da questa sua intrinseca debolezza. Credo che per alcune ci siano poche parole più difficili da pronunciare del famigerato: “ti devo parlare.”
Verbalizzare quello che si prova é complicato per tutti indipendentemente dal sesso. Come dice Audre Lorde, la trasformazione del silenzio in linguaggio e azione è un atto di auto-rivelazione, per questo terrorizza. Ma dice anche, “ la cosa di cui mi sono pentita maggiormente sono i miei silenzi. Di cosa avevo paura? Credevo che il domandare ed il parlare mi avrebbero causato dolore o morte. Ma tutti soffriamo in così tanti modi differenti, tutto il tempo, ed il dolore non cambierà, né finirà.” Silenziare quello che si sente è auto-screditarsi. È non dare abbastanza peso alle proprie sensazioni da pensare che valga la pena condividerle, renderle note ai diretti interessati. È non considerarsi degni di riconoscimento ed empatia altrui. È molto triste, se ci si pensa, e pericoloso.
Mi ricordo un tempo in cui persino io quando qualcuna delle mie amiche cercava di raccontarmi della sua ultima disavventura amorosa pensavo al perché non potessimo parlare di progetti ed ambizioni piuttosto. Come se sesso e amore non fossero altrettanto importanti nella vita di una persona.
Le nostre mamme ci hanno messo anni per arrivare a poter parlare dei propri corpi, del proprio piacere e dei propri desideri, del proprio dolore. Con le proteste, con i gruppi di autocoscienza e noi, figlie ingrate, alziamo agli occhi al cielo.
Credo infatti che ci sia un pregiudizio ancora più radicato quando le donne parlano della propria sofferenza.
Io per guarirmi dai miei noiosi amori
ascolto i noiosissimi racconti
di altri amori. Pur nella noia
il dolore è vero, ma per un po’ lo vedo
in queste storie simili irreale
e mi sottraggo al mio perché è uguale.
Pensando a questo mi pento e mi vergogno
di aver forzato con parole e pianti
i cuori calmi di chi mi stava intorno
Ora capisco che è una presunzione
con abitanti di climi temperati
parlare di ghiacciai e di amazzonie.
Questa poesia di Patrizia Cavalli ne è un esempio. Rivela nei versi ‘Pensando a questo mi pento e mi vergogno/ di aver forzato con parole e pianti/ i cuori calmi di chi mi stava intorno,’ un comune senso di colpa un bisogno quasi di scusarsi per vessare gli altri nell’esprimere le proprie insoddisfazioni. Credo che questa reazione sia alimentata in parte dalla pretesa della cultura contemporanea di relazionarsi al dolore in maniera stoica e riservata. Come se soffrire fosse la prova di una mancanza di spirito da non mostrare apertamente. Come se parlarne fosse motivo di riprovazione.
A lungo la femminilità è stata associata all’idea di patimento. Si pensi ai ritratti di Madonne tristi, alle Marie Maddalene piangenti, alle bellezze tisiche di fine ottocento, alle nobildonne dai nervi fragili. Le donne sofferenti sono state talmente tanto idealizzate che la sofferenza è diventata una caratteristica della femminilità. “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli,” disse qualcuno di molto famoso. Eppure la fascinazione per questo penare tutto femminile non ha esentato nessuna da costanti accuse di vittimismo e autocommiserazione. Una donna che si lamenta è la peggiore della specie parlante.
Alle giovani di oggi è stato insegnato a rifiutare il ruolo di damigella in pericolo, di vittima. Mai essere melodrammatiche. La fragilità che si evoca ammettendo di essere state ferite cozza con la donna forte ed indipendente che è il modello a cui ambire in quest’epoca.
Ciò non significa però che non si soffra lo stesso.
È cambiato il modo in cui se ne parla, spiega Leslie Jamison nel saggio ‘Grand Unifed Theory of Female Pain’. L’autrice prende in esame la serie televisiva ‘Girls’ e affibbia alle protagoniste la denominazione di post-wounded, cioè donne che riconosco che ‘l’essere ferite’ è venuto a nausea.
Loro trattano la propria sofferenza con sarcasmo, con autoironia, con consapevolezza, con apatia, con distacco; quella delle altre donne con poca pazienza. Minimizzare sempre.
Ma chi è che ci dà il diritto di sminuire il dolore, proprio o altrui, perché espresso, espresso male, espresso troppo, con frasi trite e ritrite.
“Non dovremmo trasformare ogni cicatrice in una barzelletta,” sostiene Jamison.
Non dovremmo rimettere in discussione la nostra forza e la nostra indipendenza ogni volta che ci viene da pensare: “mi fa stare male.”
Sia l’essere restia a parlare che l’ironia sono forme, parziali, di silenzio. Il dissimulare e il trivializzare ciò che si sente ed è reale è una forma di silenzio, sosteneva Michelle Cliff.
Si fa fatica a parlare per davvero, c’é sempre qualcosa che rimane inespresso, c’é sempre chi non riesce a tirare fuori le parole, o per lo meno quelle giuste.
L’autrice ed attivista Rebecca Solnit differenzia nel saggio ‘Silence is broken’ tra silenzio e quiete. Dove il primo è assenza di voce e il secondo assenza di rumore. “Il silenzio sta all’isolamento come la quiete sta alla solitudine.”
Spiega che la violenza contro le donne è spesso una violenza contro le nostre voci e le nostre storie. È un rifiuto di cosa esse significano: il diritto all’auto-determinazione, al consenso, al dissenso, alla vita e alla partecipazione, all’interpretazione e alla narrazione.
Sono probabilmente una di quelle donne che per inclinazione naturale preferirebbe star zitta, ma anche scrivere è avere una voce. E facendo parte di una categoria che fin dall’alba dei tempi è stata silenziata in qualsiasi modo possibile, parlare diventa quasi un dovere morale.
Voglio anche io fornire la mia versione della storia, voglio avere voce in capitolo.
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