“Se chiudi gli occhi, che cosa vedi?”
“Una via semplice che costeggia un piccolo campo. Al di là del campo, i caseggiati che danno sulla via principale. Era bello soprattutto in primavera, quando il campo diventava tutto verde e l’immondizia non si vedeva più. Era bello quando splendeva il sole.”
Stiamo sorvolando le Alpi, di ritorno dai Colloqui di Pace Intra-Siriani tenutisi a Ginevra dal 10 al 15 luglio scorso, quando Majid mi descrive la sua strada preferita a Homs, la sua città natale. In quella via c’è la casa dove viveva, ma la sua famiglia si è spostata da anni a Damasco. Majid ha lasciato la Siria ormai da 5 anni, a seguito della sua incarcerazione legata alla partecipazione alle proteste studentesche di Homs, culla della rivoluzione. Fu segnalato alle forze di sicurezza da un “amico” in quanto oppositore del regime e subito portato in un centro di detenzione, “da non confondersi con la prigione, che a confronto è un hotel” ci tiene a sottolineare Majid.
Torturato per due interminabili giorni, è stato costretto a letto per i due mesi successivi ed ha riacquistato l’uso della gamba sinistra solo grazie ad un’operazione. È stato comunque fortunato: ne è uscito vivo. Ma a quel punto la via era chiara: sarebbe scappato non appena terminato il corso di laurea in Scienze Politiche. Nell’aprile 2012 raggiungerà suo fratello in Cina, dove però non gli verrà concesso il visto. Andrà quindi in Malesia e poi a Istanbul, dove comincerà a collaborare con la radio siriana in esilio Baladna FM. Nel 2013 continuerà la sua collaborazione da Berlino, dove tuttora vive e lavora.
Quando gli chiedo se avesse mai pensato di stare via così a lungo, mi risponde ironico “Avevo sempre sognato di girare il mondo” per poi aggiungere, più seriamente “…ma non così. Non in modo forzato”.
Mi confida che Berlino è una di quelle città in cui torna volentieri e, quando gli chiedo se si senta a casa, mi risponde “casa è dove c’è qualcuno ad aspettarti all’aeroporto. Ci potrebbero essere più luoghi in cui sentirsi a casa. È uno “state of mind”.
Proprio mentre Majid mi racconta la sua storia, Staffan De Mistura, inviato speciale del segretario generale dell’ONU per la Siria, sta tenendo a Ginevra la conferenza stampa di chiusura dei colloqui. Siamo ormai a chilometri di distanza, ma sappiamo entrambi che non verrà detto nulla di diverso dall’ultima volta. Molto probabilmente, niente di diverso neppure dalla prossima volta, vale a dire in occasione dei negoziati previsti per inizio novembre.
Dal 2012 ad oggi sono state 21 le risoluzioni ONU (oltre a varie dichiarazioni della Presidenza delle Nazioni Unite) riguardanti la Siria. Vale la pena ricordare almeno quella del dicembre 2015, in cui il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adotta all’unanimità la risoluzione 2254 (la quattordicesima) che approva il piano transitorio del gruppo internazionale di sostegno della Siria (ISSG). Con tale piano si stabilisce un calendario per i colloqui formali ed un governo di unità nazionale da mettere in piedi entro i successivi sei mesi.
È inutile notare come quel termine sia ormai scaduto da tempo, senza che si sia formato alcun governo di unità nazionale.
Diventa allora fondamentale capire almeno come e dove si prendono le decisioni per il futuro della Siria.
Sì, perché di colloqui di pace non ce ne sono soltanto a Ginevra e non sono organizzati solo dalle Nazioni Unite. E se è vero che il fronte che rappresenta il governo è chiaro a tutti, i gruppi ufficiali dell’opposizione sono almeno tre e le differenze tra questi ultimi non sono da poco.
Il “gruppo del Cairo” politicamente si propone come mediatore tra l’Alto Comitato per i Negoziati, la Russia ed Assad, ed è rappresentato da Jamal Sulaiman (ex attore siriano) e Jihad Makdissi (ex portavoce del Ministero degli Esteri siriano).
Il “gruppo di Mosca” come dice il nome stesso, è il prodotto degli interessi russi ed è rappresentato da Qadri Jamil, identificato in passato da molti come l’uomo di Putin in Siria. Fu segretario del primo ministro siriano per gli affari economici dal giugno 2012 all’ottobre 2013.
Infine c’è l’Alto Comitato per i Negoziati (HNC) che riunisce differenti gruppi di opposizione sul territorio e rappresenta, senza dubbio, la piattaforma più inclusiva rispetto alle varie realtà emerse sul terreno della rivoluzione siriana.
Fondato nel dicembre 2015 a Riad, in Arabia Saudita, l’HNC è incaricato di negoziare a Ginevra.
L’Hotel Royal, in cui alloggia e tiene le riunioni interne l’HNC a Ginevra, si trova sulla rue de Lousanne e, per l’occasione, si presenta blindatissimo. Appena passata l’entrata, si è catapultati in quella che sembra un’enorme meeting room. Ai vari angoli della Hall si tengono colloqui tra consulenti internazionali, rappresentanti dei vari governi, personale di organizzazioni internazionali ed i membri della delegazione.
Formata da 20 negoziatori selezionati tra i 60 membri che fanno parte dell’Alto Comitato per i Negoziati, la delegazione dei negoziatori è composta per il 30% dalla coalizione nazionale Siriana (SOC), per il 10% da rappresentanti del comitato di coordinamento nazionale (NCC), per il 50% da rappresentanti di varie fazioni militari di opposizione (e sono veramente tante) ed infine, per il 10%, da rappresentanti indipendenti.
L’immenso sforzo per trovare una posizione comune, anche semplicemente all’interno dell’HNC, è enorme e sorprendente, allo stesso tempo.
“Ci odiamo tutti, non lo vedi?” mi dice Majid con un sarcasmo a cui è difficile rimanere indifferenti. “È necessario unirsi, altrimenti si è come il vento.”
Unire le opposizioni è stato, del resto, l’obiettivo degli ultimi colloqui e molto probabilmente segnerà anche l’agenda del prossimo novembre.
L’intenzione di De Mistura è di portare al tavolo negoziale col governo un fronte che unisca i tre maggiori gruppi di opposizione (Cairo, Mosca ed HNC). Tutto sembra ruotare intorno a questo punto, nonostante, in aggiunta alla difficoltà intrinseca di arrivare ad un accordo (le distanze politiche tra HNC ed il gruppo di Mosca sono profondissime), vada considerato che, anche in presenza di un eventuale punto d’incontro, si tratterebbe, comunque, di un piccolo tassello su una scacchiera molto più grande, in cui la comunità internazionale sembra incapace di schierarsi unita e con forza.
Come si spiegava poco sopra, le negoziazioni non si fermano a Ginevra, ma si moltiplicano in relazione ad equilibri geopolitici che, di fatto, non producono alcun risultato concreto per la pacificazione siriana. A parte i colloqui di pace che si sono tenuti ad Ankara, in Turchia, nel 2016, vengono ad esempio in mente le negoziazioni organizzate ad Astana, capitale del Kazakistan da Russia, Iran e Turchia, il cui prossimo appuntamento è già stato fissato per il 30 e 31 ottobre: sarà molto interessante vedere come, e se, la liberazione di Raqqa ne influenzerà lo svolgimento. L’intenzione di base di questi incontri collaterali all’impegno ONU è quella di operare soprattutto sul fronte militare, con l’obiettivo di arrivare ad un cessate il fuoco generale. Il punto chiave è però che qualsiasi risultato proveniente dagli incontri non viene rispettato.
“È impossibile risolvere la guerra tramite i colloqui di pace” si lascia andare Majid. “È impossibile moralizzare il potere. Semplificando all’estremo, ci sono due fronti opposti che si stanno ammazzando, ma la verità è che da una parte c’è un regime criminale, che fa uso di armi immorali: Assad non farà mai nessuna concessione sulla base di colloqui. Non ora che sta vincendo con il supporto della Russia e dell’Iran. Abbiamo un grande deficit nella comunità internazionale. C’è bisogno di un potere razionale, che consideri l’uso della forza. Ci deve essere un’intenzione concreta.”
Le intenzioni concrete che segnano la strada verso i negoziati del prossimo novembre si possono leggere nelle dichiarazioni pubbliche di vari esponenti della comunità internazionale, non ultime quelle fatte dal presidente francese Macron, che sostanzialmente rinunciano di fatto a mettere in questione la presenza di Assad nel futuro della Siria. Negli ultimi mesi le pressioni politiche esercitate dalla comunità internazionale sul gruppo di opposizione siriano vertevano essenzialmente sulla richiesta di un maggior “realismo”, il che, tradotto, vuol dire far passare un messaggio molto chiaro: smetterla di richiedere la rimozione di Assad. Probabilmente è proprio a queste pressioni che il presidente dell’HNC, Riyad Farid Hijab, intendeva replicare quando, a fine settembre, in un’intervista ad Al Jazeera, sosteneva che “non é realistico tollerare un regime che ha perso la sua legittimità uccidendo centinaia di migliaia di siriani e obbligandone milioni a fuggire. Realismo dovrebbe significare che la comunità internazionale prenda una posizione ferma, renda effettive le risoluzioni e si impegni per il loro rispetto. […]Questo è il realismo che noi (HNC) cerchiamo. Realismo significa che ci deve essere un processo per tutti i crimini commessi da Bashar al-Assad contro il popolo siriano.”
Secondo i dati del UNHCR, il conflitto siriano ha provocato fino ad oggi più di cinque milioni di rifugiati, dei quali quasi un milione si trova oggi in Europa (più della metà tra Germania e Svezia): questi sono i numeri dei “fortunati” che ce l’hanno fatta.
Ci sono poi i 470.000 morti, secondo le stime di Luglio 2017 del Syrian Observatory for Human Rights, che rendono quella siriana uno dei conflitti più sanguinosi della Storia.
Consegnando, nell’agosto 2017, le proprie dimissioni da membro della Commissione d’inchiesta dell’ONU incaricata di indagare sulla guerra e sulle violazioni dei diritti umani in Siria, Carla Del Ponte ha dichiarato di non avere mai visto un conflitto così violento, nel quale siano stati uccisi, torturati, decapitati, così tanti bambini.
Parole pesanti, se pensiamo che la Del Ponte è l’ex procuratrice generale del Tribunale dell’Aja per l’ex Jugoslavia e il Ruanda, e dunque di conflitti duri se ne intende.
Contando che l’opposizione siriana sul terreno sta combattendo una guerra su due fronti (Regime ed ISIS) ed è una realtà frammentatissima, ci vorrà sicuramente una buona dose di capacità ed impegno per tirarsi fuori da una guerra divenuta una matassa inestricabile. Per farsi un’idea del caos militare, nella sola regione di Damasco ci sono almeno 12 diversi gruppi armati che combattono per l’opposizione. Sullo sfondo, resta poi il problema della giustizia: quella su cui si baserà il futuro della Siria.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è bloccato in nome della difesa di interessi di parte. A poco sono servite le dimissioni di Carla del Ponte, che denuncia l’ostruzionismo russo in Consiglio di Sicurezza, nonostante l’esistenza di prove certe sull’uso di armi chimiche da parte di Assad.
Qualunque idea di “pace” su cui si prova a lavorare in questi mesi, viene portata avanti sulla base di interessi politici, e non a partire dalla necessità di tornare a fare giustizia. Senza capire che, come ha spiegato la Del Ponte “senza giustizia in Siria non ci sarà mai la pace e quindi non vi potrà essere nessun futuro”.
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