Con la circolare del gennaio 2014 il Ministero dell’Interno, per far fronte al continuo “afflusso di cittadini stranieri a seguito di ulteriori sbarchi sulle coste italiane” e presa in esame “l’avvenuta saturazione di tutti i centri governativi e di quelli garantiti da alcuni enti locali nell’ambito del sistema SPRAR”, incaricava tutte le prefetture di attivare Centri di Accoglienza Straordinari (CAS), una misura messa in atto per soddisfare il numero eccezionale di arrivi, coinvolgendo l’intero territorio nazionale. I CAS a fine 2016 offrivano il 78% dei posti disponibili in Italia e accolgono ancora oggi gran parte dei richiedenti asilo in attesa di una risposta dalle Commissioni Territoriali e dai Tribunali. La parte restante è suddivisa tra SPRAR, Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, al 13%, e Centri di prima accoglienza, al 9%, secondo quanto emerge dai dati forniti dal Ministero dell’Interno.
Ogni CAS è diverso e tutto cambia, per il richiedente asilo, in relazione all’associazione, alla cooperativa, all’ONG, alla struttura alberghiera, all’ente, che si aggiudica il bando della Prefettura per la gestione del Centro. Cambia, ad esempio, la tipologia di abitazione, che varia da appartamenti in città per 6/8 persone, a case lontane dai centri abitati per 30/35 migranti, fino anche alle sistemazioni con 150/200 persone. Allo stesso modo, sono differenti la qualità e la costanza delle lezioni di italiano, dell’offerta di assistenza psicologica, delle attività di volontariato e sociali, di formazione e lavorative, dell’assistenza legale e quindi le possibilità di ottenere l’asilo stesso.
Lavoro come facilitatore linguistico in alcuni CAS e vorrei riportare alcune frasi e storie dei ragazzi che ci vivono, aggiungendo qualche mia impressione personale.
“No woman, no money, no work”.
È uno dei motivi che ripetono i ragazzi che vivono in un Centro di Accoglienza Straordinaria. È lo spettro dell’eterna attesa senza occasioni di distrazioni, di uscita, di lavoro. La campagna dove abitano i ragazzi di questo CAS resta bellissima, ma solo per qualche partita a calcio nei campi. Mi fermo con l’auto un attimo a guardarla, prima di raggiungere la casa colonica che ospita 35 richiedenti asilo. Penso a quanto ritornerà l’inverno e arriveranno velocemente il buio e il freddo e gli autobus saranno lontani, la sera non passeranno affatto. Al rientro dopo una settimana di ferie, alcuni ragazzi mi accolgono con un abbraccio, sono curiosi perché oggi ritorno dalle vacanze, ed è strana l’idea di vacanza in questo contesto.
“Vedi, questa è la foto della mia famiglia. E questa è mia moglie, spero che mi possa raggiungere presto, nel mio paese è pericoloso restare”.
Ci sono soprattutto ragazzi intorno ai vent’anni. Poco più grandi ci sono i padri di famiglia. Mentre in numero minore sono le donne, molte sono madri. I minorenni invece vivono in un centro a loro dedicato. Tutti con storie diverse, che le hanno spinti ad affrontare un viaggio d’inferno (questa è una certezza) culminato nel caos militare della Libia. Alcune delle ragioni della loro migrazione: guerra civile, persecuzione politica, religiosa o sessuale, violenze familiari, conflitti con la legge, motivi economici.
“In Africa almeno ti farebbero provare”.
Il lavoro diventa presto la questione principale: qui vengono richieste certificazioni della loro esperienza, anche se spesso hanno storie professionali pluriennali – hanno fatto il meccanico, il muratore, il sarto, il carpentiere: che cosa posso rispondere?
I corsi di formazione professionale convenzionati sarebbero l’opportunità per ottenere una certificazione. Ma entrare è molto difficile, la concorrenza è italiana e quasi nessuno riesce ad accedere, anche perché il livello richiesto di conoscenza della lingua italiana è molto alto.
Così aumenta la probabilità di finire a lavorare al nero, anche 13 ore al giorno, nelle pelletterie della periferie della città, a 2 euro l’ora. Alcuni alla fine accettano, soprattutto quelli che hanno una famiglia da mantenere nei loro paesi d’origine
Si tratta di una questione difficile, anche dal punto di vista normativo. Il richiedente asilo, infatti, in attesa della risposta della Commissione sulla sua domanda, potrebbe lavorare e essere assunto con un regolare contratto, ma questo avviene molto raramente.
“Che cosa abbiamo fatto in queste due settimane di vacanza da scuola?
Niente. Abbiamo mangiato e dormito. Io non avrei mai pensato di stare a casa, a letto, di pomeriggio. Nel mio paese pensano che nascondi qualcosa, o che sei un ladro, se resti nella tua camera di pomeriggio, invece di essere a lavorare”.
Soprattutto per quelli arrivati da più tempo, l’attesa porta sconforto. Molti attraversano vere fasi depressive e restano a letto durante tutto il giorno. Una reazione comprensibile, per una persona disoccupata in un paese straniero e con incertezze assolute sul futuro.
“Siate più veloci a dirmi che in Italia non ci sono né documenti né lavoro per me”.
Continuano a stupirmi i tempi di attesa: può passare più di anno per la prima audizione in Commissione e più di due anni per la risposta definitiva, comprensiva dei ricorsi. La speranza è che cambi qualcosa con il nuovo decreto approvato lo scorso aprile.
Ci sarebbero poi anche dei programmi per il rimpatrio, con volo pagato e assistenza nel percorso di rientro, anche con un sussidio economico. Per qualcuno potrebbe essere un’occasione per tornare dalla sua famiglia e rifarsi una vita.
“Perché devo imparare l’italiano? Pensavo che in Europa si parlasse inglese”.
Le possibilità di successo nell’italiano sembrano dipendere da più fattori: anni di scolarizzazione e conoscenza di una seconda lingua europea nel paese di origine (inglese, francese, portoghese), età, esperienze di volontariato e capacità di stabilire contatti sociali.
L’ostacolo della lingua sembra una tortura per la maggior parte dei migranti, ma senza un buon livello di conoscenza non ci sono speranze di integrazione. Sei ore a settimana però sono poche, sommate alle difficoltà di praticare la lingua in contesti extra-scolastici.
Alcuni richiedenti asilo non sanno né leggere né scrivere perché non sono mai stati in una scuola, ma tra questi ragazzi ce ne sono molti con energia e determinazione, che parlano bene l’italiano anche se faticano ancora nella lettura e nella scrittura; la loro energia e determinazione potranno consentire delle possibilità d’integrazione.
“Non voglio ricordare, preferisco non parlarne. Non facevi in tempo a ricevere uno stipendio per un lavoro, che ti assalivano”.
La Libia è stato un inferno, questo è il racconto di tutti e tutti sono passati dalla Libia. Un caos di violenze e criminalità. I libici erano sempre armati e li derubavano in continuazione. Spesso nei campi sono rimasti anche un anno o due, in attesa di partire, facendo lavori occasionali.
“È stato un giorno terribile, tante persone che erano sulla barca con me sono morte. Non so come ho fatto”.
Raramente in classe affrontiamo il tema del viaggio e dell’ultimo tragitto, quello in mare, ma quando alcuni ricordi affiorano sono squarci improvvisi e drammatici. A volte mi raccontano anche dell’altro inferno del viaggio, quello nel deserto fra Niger e Libia, tra il rischio di abusi o di morire per disidratazione.
“Gli italiani hanno sempre fretta. Pensano che vogliamo vendere qualcosa. Ma sono anche generosi, guarda i nostri vestiti”.
Tranne che per il rapporto con gli operatori, le relazioni con gli italiani sono per lo più limitate e circoscritte ai servizi o alla burocrazia: in questura, all’Asl, al Centro per l’Impiego, nei lavori sociali, in classe.
Mi raccontano però che a Lampedusa sono stati tutti gentilissimi.
“E’ stato faticoso, ma anche bello costruire i palchi per gli spettacoli. Le persone erano simpatiche. Poi sono stato all’ingresso a vendere i biglietti”.
Un altro ragazzo viene in classe con la felpa dell’associazione di volontariato presso cui presta servizio. Da quando fa il volontario il suo italiano è migliorato molto, ora parla bene, anche se ha ancora difficoltà con la scrittura. Ci sono molte opportunità di lavori sociali, alcuni rispondono con entusiasmo, altri colgono semplicemente le occasioni, per avere qualcosa da fare e, nei casi fortunati, stringere contatti e parlare italiano.
“Vorrei iscrivermi all’università, sai quali documenti sono necessari?” .
È l’unico che vorrebbe iscriversi all’università fra i ragazzi delle mie classi, ha frequentato il primo anno prima del viaggio. Dopo aver lavorato qualche tempo in Italia, la sua idea sarebbe di tornare a lavorare nel suo paese. Sta cercando un lavoro per pagare le tasse universitarie, se la documentazione si rivelasse idonea. Dopo pochi mesi parla già bene italiano ma durante le lezioni spesso lo vedo assente, in classe si annoia perché è più veloce degli altri. Partecipa però con entusiasmo alle attività teatrali e a fine lezione mi chiede se voglio andare a vedere il suo spettacolo.
“Ma ci sono ragazzi giovani in città? Dove possiamo conoscerli?”. “Ieri sera la cena è stata molto bella”.
L’ente gestore si impegna molto nel tentativo di organizzare momenti di incontro tra ragazzi migranti e italiani. Hanno fatto una passeggiata con un gruppo scout e poi preparato una cena insieme. Vengono organizzate anche corse di allenamento tra italiani e migranti. In diversi hanno partecipato alla maratona della città e uno dei ragazzi è arrivato in classe con la medaglia.
Infine i dati sull’esito delle richieste d’asilo. La percentuale di diniego nel 2016 è stata del 61%. Il 6% ha ottenuto lo status di rifugiato con permesso per asilo di 5 anni, rinnovabile. Il 12% la protezione sussidiaria con permesso per 5 anni rinnovabile previa verifica. Il 21% la protezione umanitaria, con permesso di soggiorno per 2 anni rinnovabile previa verifica.
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