foto di Cesare Zomparelli
Oggi la conosco alla perfezione. Come tutto quello che col tempo diventa familiare, non mi stupisce. Passa inosservata. Il primo giorno che l’ho incontrata, invece, l’ho guardata bene.
Un lunedì di marzo, siamo nel 2012, arrivo a Berlino per la seconda volta. Il mercoledì successivo, sono invitata a trovarmi, alle quattro del pomeriggio, a casa dell’amica di un’amica. Vuole mostrarmi una stanza che per un certo tempo resterà vuota, e io sono in cerca di un’abitazione. Non sono pratica della città, annoto tutto su un’agenda. Raggiungo la stazione più vicina e interrogo la mappa. Dal punto in cui mi trovo prendo un mezzo di superficie, la linea S41, e scendo alla fermata indicata: Neukölln.
Metto piede fuori dal treno con la calma e l’appagamento di aver raggiunto l’obiettivo del momento. Poi la linea riparte e lascia spazio alla vista.
Il cielo è immenso, mosso da nuvole dense che si propagano e si impadroniscono dei palazzi. Dalla piattaforma della stazione ho lo sguardo rivolto su Saalestraße e la scena mi impressiona. Dove sono? Quello che vedo è diverso da ciò che ho visto altrove. Abbandono. Poche auto, poche persone, quasi nulla. Dei graffiti colorati svettano in cima alle pareti tagliate e piattissime dei palazzi di fronte. L’unica nota acuta. Intorno, alcune anime perse vagano in cerca di qualcosa e di riempire il tempo. Sembrano arredamento. È come se da dietro mi si aggrappasse al collo un mantello pesante che mi rallenta. Lungo, me lo trascino appresso gradino dopo gradino, giù per le scale che portano in strada.
È questo il posto. Credo che mi piaccia.
Oggi corre l’anno 2017 e io vivo ancora lì. Dopo quasi sei anni, cerco di ritrovare quegli stessi occhi ed esco di casa. Ho una certa fame, è primo pomeriggio e non ho ancora pranzato. Arrivo all’angolo tra Karl-Marx Straße e Saalestraße ed entro nel supermercato turco di fiducia. Al bancone del forno, prendo un Börek che mangerò fuori. Ferma dall’altro lato della strada, di fronte alla stazione, mi metto ad osservare. Sono ore tranquille, lo leggi nei gesti. L’Imbiss sul lato destro dell’entrata ha un cliente che attende il suo kebab e un altro che ci sta pensando. L’uomo turco a lavoro muove dall’alto verso il basso un coltello lungo, svogliatamente: in fondo non c’è fretta. Di fronte, il chiosco dei Noodle-box thailandesi. Nessun cliente. A servire una giovane donna, occhi a mandorla, capelli raccolti in una coda e divisa brandizzata adatta alla mansione, il volto che le arriva all’altezza del bancone.
Ad angolo c’è un piccolo McDonald’s, che vuoto non lo è mai. Accanto, tra biciclette parcheggiate, vedo un anziano signore piuttosto smarrito. Le mani, unite davanti a sé, stringono una busta di plastica chiusa, che gli penzola sulle gambe reclinate. Resta fermo a lungo, rivolto verso il niente. Capo chino. Te lo dimentichi.
Passanti assorti transitano a piccoli sciami; vanno e vengono, dentro e fuori dalla stazione. Quello di Neukölln è un crocevia ferroviario di rilievo a Berlino: linea metropolitana U7, e poi la circolare Ringbahn, che abbraccia la città; più diverse corse del trasporto urbano di superficie, la S-bahn, che viaggiano verso sud. In precise fasce orarie, i corpi sono fiumi in piena con correnti opposte, che si riversano dalla piattaforma della S-bahn a quella della U-bahn, e viceversa risalgono. Una fatica non scontrarsi.
Prima di attraversare la strada, mi soffermo ancora qualche minuto. Un ragazzo africano sulla trentina siede appoggiando le ginocchia a terra, sul marciapiedi, la schiena alla colonna di mattoni rossi che segna l’uscita della metro. In testa ha un cappello nero cilindrico, in grembo uno strumento a percussioni di metallo, suono soave e ritmo caraibico, che non individuo. Trovo che l’immagine stoni un po’ con il resto. Almeno oggi.
È una giornata fredda dell’inverno che avanza, quindi porto il Börek rimasto dentro la stazione con me, e mi fermo all’angolo tra il muro a destra e il casotto del bar.
Mangio. Intanto scruto l’ambiente.
Come sempre, a guardia della porta di entrata ci sono i filippini. Almeno, credo sia questa la loro nazionalità. Questa volta, due ragazzi giovani e mingherlini posizionati alle estremità delle porte di accesso, lato interno. Vigilano, mantengono il controllo visivo dello spazio. Di tanto in tanto qualcuno si avvicina a loro, scambiano due parole, transitano pacchetti di sigarette. A volte stecche. Per lo più a servirsi sono uomini adulti, tra loro qualche anziano. Uno dei due tipi, quello più vicino a me, sta di continuo al telefono, gomito alto e passo saltellante. Capisco che vorrebbero sapere chi sono e cosa faccio lì. Passa un po’ di tempo. Poi, in una delle sue telefonate, il tipo si incammina nella mia direzione e mi guarda. Rimango fuori dal gioco. Quando mi raggiunge, mi gira intorno. Circumnaviga la mia persona a brevissima distanza, poi torna indietro. Credo sia un avvertimento. Quindi decido di incamminarmi verso il piano inferiore che dà accesso alla U-bahn.
Mi trovo di fronte il negozio di tabacchi ed entro. Compro una bibita, pago, prendo il resto, mentre la ragazza che lavora lì mi dice qualcosa in dialetto locale, che involontariamente ignoro. Esco e mi fermo fuori, a un paio di metri dal negozio. C’è una lunga fila mono persona disposta in corrispondenza del Geldautomat, lo sportello per il prelievo di denaro della banca Sparkasse. Il più bello è un ragazzo molto giovane, alto e magro, carnagione scura, forse pakistano. Indossa un vestito tipico: camicione lungo oltre le ginocchia e sotto pantaloni ampi, colletto alla coreana, color bianco candido. Da sopra, una grossa giacca militare a dissacrare il tutto. Bevo la mia cola e improvviso tricks comportamentali che mi facciano apparire logica. Di fronte il breve tunnel che sormonta le scale per risalire su, rannicchiato sul pavimento al lato sinistro, un uomo che spera in qualche moneta. Mi accorgo che non ha le scarpe. Quando sposta le mani scopre la punta dei suoi piedi, senza dita: penso che il freddo non sarà il primo dei suoi problemi.
Scendo ancora una rampa di scale e sono alla fermata della metropolitana, mi siedo sulla prima delle panchine di attesa in ferro. In coda all’ascensore, il solito allineamento di madri con passeggino, per lo più di origine turca. Il prossimo treno sta per arrivare e nel frattempo l’aria si colma di individui. Ho intorno a me almeno dieci nazionalità diverse e altrettanti strati sociali. Arriva il convoglio. A quanto pare la notte scorsa il primo vagone del treno è stato attaccato dai writers. Un freschissimo Throw-Up sfila e si ferma davanti a me, out-line viola e riempimento celeste. Mi viene in mente che domani a quest’ora sarà già stato cancellato e che almeno io l’ho visto in tempo.
La piattaforma si svuota di nuovo, mi alzo e mi muovo più in fondo. Siedo altrove. Accanto a me, una donna anziana poggiata sul suo stesso corpo. Un fazzoletto nero le copre il capo, tra le mani una busta rossa di plastica con dentro un Fladenbrot, la forma di pane turca rotonda e piatta. Va in direzione Rudow. Quando si accorge di me, si gira mostrandomi il suo volto addolorato, poi mi sorride con occhi verdi bellissimi e io le rispondo.
Da un po’ di tempo, le colonne in ferro che cuciono la banchina della Ubahn sono circondate da lamiere metalliche a celare ristrutturazioni. Intorno ad alcuni pilastri sono state realizzate costruzioni in legno che coprono la base e danno vita a grosse panche multiuso.
Su una di queste si è accampato un uomo, tutti i suoi averi sono ben riposti negli spazi disponibili intorno a lui. La roba da mangiare in un angolo, il sacco a pelo come base. Un altro tipo se la dorme due colonne più in là, mentre il traffico si fa sempre più intenso e il pubblico più indifferente.
Seguo la massa e risalgo al piano superiore. La fila al Geldautomat si è dissolta, ora vedo il negozio di fiori. Al suo interno, matura e smagrita, un’altra donna asiatica dietro al bancone attende paziente. Mi fermo a guardare le piante che fanno capolino dalla vetrina e i mazzolini a tre euro, esposti fuori in secchi di plastica bianchi.
Ancora un piano più su e torno nella hall principale della stazione. Terminate le scale incontro il negozio della catena BackWerk. Ho letto che è stato il primo panificio self-service tedesco, e che in Germania lo ritengono il brand precursore di questo tipo di attività. Alla cassa, ancora, una ragazza di origine orientale. Sulla destra si illumina l’ampio negozio del giornalaio, a un tratto mi rendo conto che in tutti questi anni non ci sono mai entrata.
Inizia ad essere sera, fuori e dentro. Nelle ore che seguono le cinque circola un sacco di gente, una giornata d’inverno sta per terminare, per qualcun altro invece inizia. Se questo testo fosse uno schizzo, includerei molteplici voci, clacson, etnie, buste della spesa in mano a sconosciuti, pioggia sottile, semafori a ritmi alterni, loe. Neukölln certe volte può brulicare di vita. Faccio un giro nei paraggi.
Quando ritorno alla stazione ormai è sera, salgo sopra a dare un’occhiata. Sulla banchina della Sbahn trovo una donna anziana, cammina zoppicante. Controlla ovunque, alla ricerca di bottiglie abbandonate, da cui guadagnare il prezzo del vuoto a rendere. Stipato dentro un vecchio trolley per la spesa, si trascina dietro un bottino giornaliero di tutto rispetto. La giornata non sembra andata male.
Per un po’ non accade nulla. Riprendo le scale e vado sottoterra, alla fermata metropolitana della U7. Mi incammino sulla banchina, anche qui siamo rimasti in pochi. Con la coda dell’occhio percepisco qualcosa di insolito. Mi volto: un uomo sta in piedi, attaccato al cestino dei rifiuti, con la testa china che guarda al suo interno e la mano sinistra infilata nei pantaloni della tuta.
Cerco con gli occhi l’altra mano e vedo che l’appoggia sul bordo del cestino. Con due dita regge un tubicino di plastica fuoriuscito dalla tasca. Dal tubicino viene fuori un liquido che si riversa nel sacco nero di plastica. D’improvviso m’illumino, sta usando una sorta di congegno nascosto nei pantaloni, che straordinariamente gli consente di trasferire il suo piscio dall’organo al cestino, senza spogliarsi. Forse è il momento di ritornare a casa.
Otto e trenta di mattina: sono di nuovo qui, aspetto la metro per andare a lavoro. Il pubblico che mi circonda è vasto e stretto dentro sciarpe e cappotti. A volte vorrei non dover incontrare così tanta gente appena sveglia. Quando mi sono trasferita nella stanza che ho visitato quel mercoledì, ho iniziato a frequentare la stazione tutti i giorni e non era come adesso. Non c’erano così tanti negozi, i locali all’interno erano vuoti e scassati. Non importava a nessuno. Non c’era il chiosco dei Noodle, mancava il BackWerk. L’aria era più dura, più autentica.
Rifletto su quanto un luogo come questo riesca a mettere in mostra la società che cambia, sottoponendosi alle tendenze che mutano, si susseguono e si insinuano dappertutto. Pensandoci, mi rendo conto che la mia visione della fermata di Neukoelln non ha nulla a che vedere con il presente. Nella mia psiche questo è rimasto sempre lo stesso luogo oscuro e pesante che ho visto la prima volta: lo porto ancora addosso. Ormai mi sono abituata.
REDAZIONE
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