Le immagini che risucchiano la tua attenzione sono di solito verso la fine del libro. Dagli anni ’50 – ’60 inizi a sfogliare le pagine più lentamente, ti si blocca la digestione e i sensi si amplificano senza il tuo consenso. Il fatto è che quella fotografia di qualità pessima sul bordo destro di pagina 475 non la guardi, la percepisci. Percepisci il Blue Klein, una cannuccia dal diametro largo; se succhi troppo forte ti arriva il ghiaccio al cervello. Percepisci un Action Painting di un qualunque Number, una giornata di pioggia nel tuo appartamento; ti scatta l’impeto – alla “Shortbus” – di contribuire organicamente al toc della materia sulla tela. Percepisci l’odore acre delle ossa che l’Abramovic strofina con cura nella sala più cupa della Biennale di Venezia del ’97: le narici sono prese d’assalto e procedi a conati, finché non tiri oltre.
Quando mi è comparso sotto gli occhi Joseph Beuys in bianco e nero, con una pala in mano, ho sentito i grani di terra infilarsi sotto le unghie. Mentre l’indice sinistro spulciava distrattamente il pollice destro per ripulire la sporcizia fantasticata, scivolavo piano all’indietro, fino a toccare il 1982. La Documenta di Kassel era alla sua settima edizione e il progetto che l’artista tedesco si proponeva di realizzare era impegnativo, maestoso, gigantesco, ma decisamente poco fruibile nell’immediato. Se fossi stata una visitatrice della mostra, però, l’interazione mi sarebbe stata concessa. Passeggiando per Friedrichsplatz avrei inclinato il capo, perplessa alla vista di una montagna di settemila blocchi di basalto accatastati. Informandomi, avrei scoperto che adottandone uno avrei contribuito alla nascita di una quercia, e che il mio pesante parallelepipedo irregolare avrebbe badato alla sua crescita nel corso degli anni.
Nel giro di un lustro settemila semi erano stati piantati in tutta Kassel, ma Beuys non visse abbastanza a lungo per ricevere una stretta di mano.
Mi sono vista poggiare la schiena su una delle querce di Kassel, sfogliando il catalogo della Documenta in corso. Ne avevo fiutato tracce qua e là, tra saggi, riviste e interviste, ma probabilmente quando scoprii cosa rappresentasse per il mondo dell’arte la quinquennale rassegna tedesca era già il 2012 inoltrato, anno della penultima edizione, e improvvisare un viaggio in Germania non rientrava nel mio budget. Adesso ci risiamo. Dal 10 di giugno al 17 di settembre, Kassel si agghinda a festa per la quattordicesima edizione di Documenta.
Potrò bearmi del rinverdire beuysiano e i miei sensi esperiranno i prodotti di moltissimi artisti, ma concretamente vedrò solo la metà delle opere. Per incastrare ogni farfalla nel mio retino, quest’anno dovrei infatti procurarmi un biglietto aereo con destinazione Atene, dal momento che il curatore polacco Adam Szymczyk ha optato per una doppia sede. Ho un’amica che collabora in Grecia proprio presso l’organizzazione ateniese della mostra, e allora le chiedo com’è la situazione, ché lì Documenta è già partita l’8 aprile. Mi risponde che “in generale la presenza di Documenta in città si nota poco per i non addetti ai lavori. Si è discusso di che apporto possa dare e si è detto che grandi eventi come questo – temporanei e non – legati al territorio, non lasciano molto nella città che li ospita”. Aggiungendo che agli ateniesi nun je ne pò frega’ de meno, mi linka un articolo de Il Sole 24 Ore dal titolo “Documenta ad Atene non convince”.
“Learning from Athens” è il filo conduttore di questa edizione, che annoda la gemella più ricca alla gemella più povera, aggrovigliandosi, tappa per tappa, intorno ai concetti dei pesanti faldoni “discriminazione” e “politica”. Atene, annunciata come lo specchio d’acqua che bagna le realtà oltremare confinanti, è un bacino di spunti sull’immigrazione e il simulacro del destino economico greco su cui l’UE, ogni tanto, torna a beccare.
Più che dai libri ho imparato questa lezione dai miei sopralluoghi veneziani a botte di anni dispari: la politica s’avvinghia all’arte più di un parassita, e la tramuta in mezzo spolpandosi il fine e leccandosi le dita.
La mia è una constatazione più che una critica. No dai, non è vero, è una critica. In alcuni contesti l’arte è diventata incapace di scegliere l’espressione individuale, si dedica al collettivo e all’impersonale, si scioglie nel fascino della risonanza mediatica e si inchioda da sola le palle a terra, come Pyotr Pavlensky.
Rileggo la frase. Ho sbagliato, la riformulo. In alcuni contesti gli artisti sono diventati incapaci di scegliere l’espressione individuale, si dedicano al collettivo e all’impersonale, si sciolgono nel fascino della risonanza mediatica e via dicendo. Quando gli artisti diventano l’arte, l’arte scelta dai curatori è solo una lunga lista di nomi di battesimo.
La strumentalizzazione dell’arte è un’oscenità non concepibile. È l’arte che promuove il sentimento a guidare l’idea ad avere il diritto di chiamarsi arte. Così, ad esempio, la performance delle Femen in Vaticano, per quanto mi riguarda – a prescindere dal fatto che io possa o meno essere d’accordo con l’iniziativa – si è guadagnata la pagina 475 del manuale-di-storia-dell’arte-che-vorrei, molto più del Woytila sotto il meteorite Cattelan.
Per ciò che concerne Documenta, quel che mi disturba non è l’arte che viene proposta, ma come se ne discuta. L’arte non può diventare un pretesto per puntarsi il dito contro, né tra critico e critico, né tra nazione e nazione. C’è un tema da rispettare, che in questa edizione ha come interpretazione possibile l’aspetto sociale e politico della contemporaneità – oltre che il doppio gioco storico. Di certo non lo trovo strano e neanche fuori luogo: il nostro ambiente non è tanto lontano dal nostro manifestarci al mondo, e l’arte non può che trasudare questa consapevolezza.
Forse c’è che vorrei sentir parlare un po’ più di arte e non solo di quello che l’arte racconta.
Documenta è di per sé una reazione artistica sensata ad un evento politico importante. I suoi natali risalgono a dieci anni dopo la fine della seconda grande guerra, e il merito è di un determinato Arnold Bode, pittore e designer, oltre che curatore delle prime quattro edizioni della rassegna di Kassel. Bode, che rimboccatosi le maniche, nel 1955 appese, un chiodo alla volta, quel repertorio di opere che il nazismo aveva bollato come “arte degenerata”.
Scorro un po’ le informazioni della sezione “About” e trovo un paragrafo che parzialmente mi rincuora: “Each documenta takes its character from the ideas and concept of its Artistic Director, and is therefore not only a forum for current trends in contemporary art, but a place where innovative and standars-setting exhibition concepts are trialed”. Un po’ di individualità allora è rimasta, almeno ai curatori intendo – per quanto mi debba chiedere se non ci siano delle gallerie dietro queste scelte, come d’altronde accade per i padiglioni nazionali della Biennale di Venezia.
Comunque andranno questi giorni di rassegna stampa pre-apertura dell’ala tedesca, io il biglietto del treno per Kassel lo prenoto. Perché quando parlo di arte riesco sempre a ricascarci nell’amore e nel desiderio che ho nei suoi confronti. Ho voglia di abbracciarla quando la incontro, incondizionatamente, anche se spesso non ho più le palpitazioni di quando l’ho conosciuta.
Andrò a Kassel per studiare, per capire, per confrontare, per afferrare una nuova esperienza che incanali le mie congetture, come ogni volta, in un nuovo sentiero.
Andrò a Kassel perché in cuor mio credo ancora che il fuoco della passione, dopo più o meno venticinque anni di travagliato matrimonio, possa continuare ad ardere, girando per caso lo sguardo. È già capitato, e io lo so, capiterà ancora.
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Immagine di copertina: © Mathias Voelzke
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