L’italiano lo hanno imparato guardando di nascosto i programmi storici della nostra televisione anni ’60. Raffaella Carrà, Pippo Baudo, Mike Bongiorno, erano gli ambasciatori di un sogno, di una terra così vicina e così lontana che, per decenni, è stata considerata l’unica speranza per milioni di uomini e donne, chiuse nell’oltranzismo sociale e culturale del regime comunista di Enver Hoxha.
I barconi che raggiungevano le coste della Puglia e soprattutto la mitica Vlora, la nave mercantile che fu presa d’assalto al porto di Durazzo da ventisettemila albanesi, raccontavano di un paese in fuga, di un popolo deciso a chiudere con il passato.
“Tu mi vedi così ben sistemata oggi, ma io lavoravo in fabbrica ogni santo giorno. Partivamo alle 8, a piedi, con le mie compagne, e rientravamo a casa la sera che mia madre stava già preparando la cena – ci racconta Klodiana, 53 anni, compagna di un imprenditore edile italiano – Mio padre saliva sul tetto e poi cominciava a trafficare con l’antenna. Noi aspettavamo sul divano che dallo schermo le onde in bianco e nero cominciassero a proiettare le immagini della Rai. Non puoi immaginare come eravamo contenti. Io a lavoro iniziavo a pensare già dalla mattina al momento in cui mi sarei seduta a guardare i programmi della televisione italiana. Se restavi in silenzio, appena calava un po’ il sole, nel quartiere potevi sentire un brusio di sottofondo provenire uguale, identico, da ogni casa: erano i programmi della Rai che ogni famiglia a Tirana guardava, andando contro le regole del regime. Così l’abbiamo imparata la vostra lingua, grazie ai programmi di Corrado e agli sketch di Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi. Non c’è un albanese della mia età che non sappia parlare l’italiano grazie a questo. Per noi era come vedere un mondo bellissimo, qualcosa che non riuscivamo nemmeno a immaginare: era così diverso dalla nostra Albania. Ma oggi le cose sono cambiate, questo è un paese che sta provando a diventare moderno”.
Non si sbaglia Klodiana, quando dice che l’Albania sta crescendo. Non è più quella nazione di disperati per cui l’approdo in Italia sembrava l’unica chance di un futuro migliore, l’Albania è ormai un paese proiettato su prospettive di sviluppo industriale sempre più ampie, anche se i problemi restano tanti.
Dei grandi complessi abitativi costruiti dal regime comunista ad esempio è ancora piena la periferia di Tirana, in quartieri in cui, a dispetto della crescita economica, si continuano a soffrire la povertà ed il distacco sociale, luoghi nei quali, soprattutto, nasce la grande distanza fra la parte ricca della città e le comunità costrette a combattere per un sussidio mensile da 40 euro al mese.
Nel quartiere di Universitat, fiore all’occhiello della dittatura che ha dominato il paese dagli anni’40 in avanti, i palazzi sembrano rovine sopravvissute ad un bombardamento. Panni stesi fra mura cadenti, strade di fango e scale costruite con assi di legno malmesse. Anche raggiungere le scuole diventa difficile, i mezzi di collegamento costano e l’assistenza sociale alle famiglie in situazioni di alta povertà, a dispetto della propaganda politica, resta soltanto un sogno lontano.
L’Albania è ancora un paese pieno di contrasti e bellezze sconosciute, un luogo che ha radici culturali profondissime, ma che spesso, soprattutto dagli italiani, viene giudicato a colpi di stereotipi ignoranti ed ottusi. In pochi sanno, ad esempio, che dal punto di vista commerciale oggi l’Albania è un serio competitor dei paesi asiatici, Cina su tutti, per quel che riguarda il mercato europeo delle importazioni, specie per il settore tessile e calzaturiero.
“Noi siamo arrivati qui nel 1992 e abbiamo superato anche il difficile momento della guerra civile. Ormai l’azienda è diventata un patrimonio del territorio e siamo orgogliosi delle nostre radici albanesi, anche perché siamo stati fra i primi a scommettere su questo paese ed abbiamo fatto da apripista a tantissime altre imprese che poi hanno deciso di investire in Albania”. A parlare è Elio Ferrè, titolare della Valcuvia, un’azienda tessile del bergamasco che ormai da oltre 20 anni sviluppa l’80% del suo processo produttivo in un complesso industriale costruito nel sud del paese, precisamente nella splendida cittadina di Berat, “la città delle mille finestre”, uno dei centri più antichi di tutta la nazione, con le sue piccole stradine di ciottoli che s’inerpicano verso la fortezza di Kala e il fiume Osum a tagliare in due i quartieri di Mangalem e Gorica, nei quali convivono pacificamente, da secoli, cristiani e musulmani.
Valcuvia produce intimo per alcune delle firme più prestigiose dell’abbigliamento internazionale, da Victoria’s Secret a Gas, sino a Versace e Valentino. “In Cina ci lavoravamo, ma poi abbiamo dovuto smettere, perché non sono flessibili, ti obbligano a lavorare su ritmi e con numeri che alla fine non riescono a farti gestire il business in maniera equilibrata. Oggi l’Albania è diventato un paese in cui a certe condizioni puoi considerarti competitivo anche rispetto a chi lavora in quei mercati lì. D’altronde si tratta di un processo inevitabile: togliendo la Cina, tutti in Europa hanno cominciato a guardare ad Est già dalla fine degli anni’90, ed adesso che il mercato si è saturato ci si sta spostando verso i Balcani. Di certo posso dire che io un’azienda così in Italia non potrei mai tenerla. Non è una questione legata al rispettare o meno le regole, perché noi le leggi albanesi le seguiamo tutte, quanto di costo del lavoro e di flessibilità generale. Noi qui riusciamo a produrre a delle condizioni impensabili per l’imprenditoria italiana, con lo stipendio di un operaio a Bergamo ne paghiamo tre o quattro qui, senza contare tutte le questioni normative, che ripeto, rispettiamo perfettamente, ma che, è ovvio, sono molto meno stringenti in Albania. Poi si può venire qui e parlare di etica, ma la verità è che un’azienda deve ragionare seguendo le logiche di mercato, altrimenti chiude, e noi in questo momento non stiamo facendo nulla di male, se non sfruttare le possibilità di un comparto in cui tutto è globalizzato, soprattutto il sistema lavoro”.
Certo non è possibile incolpare Ferrè delle anomalie morali prodotte dal capitalismo, anche se le evidenze etiche restano sotto gli occhi di tutti e non hanno bisogno di commenti. Come non ne ha bisogno il pensiero di Giergjj Leqeiza, che in Albania, nella città di Scutari, a due ore dalla capitale Tirana, rappresenta un altro dei giganti dell’intimo made in Italy, Cotonella, che nel 2016, spiega Leqeiza, ha prodotto nelle fabbriche albanesi più di quattordici milioni di capi destinati al mercato internazionale, sia per il brand Cotonella che per alcune altre importanti aziende di grande distribuzione, come per esempio l’intimo realizzato per il marchio Coop . “Qui non ci si deve chiedere per quale motivo un’impresa italiana decide di investire in Albania – spiega Leqeiza – ma il contrario, e cioè per quale motivo non dovrebbe farlo. Pensa che a Scutari noi un’operaia, perché sono quasi tutte donne, non la paghiamo più di 300 euro al mese, e ti lavorano molto meglio di un’italiana, che in Italia dovresti pagare almeno 1000 euro, ammesso che la trovi una brava come le albanesi, che per questa cifra stanno in fabbrica otto, nove, dieci ore al giorno, a ritmi altissimi, sempre concentrate sulla macchine da cucire. No – continua Leqeiza – sarebbe impossibile in Italia: qui se ti serve un lavoratore lo tieni, altrimenti lo mandi a casa senza troppi problemi, e non è un fatto di umanità, ma di mercato. Se le aziende vogliono sopravvivere, non possono essere etiche, quello che devono fare è rispettare le regole, e guardi che noi lo facciamo perfettamente, ma poi devono ragionare sui numeri. La realtà è che i numeri in Italia, con le vostre leggi e le vostre tasse, non tornerebbero mai, si resterebbe immediatamente strangolati. Mi rendo conto che chi arriva qui e vede questa situazione può essere portato a giudicare con occhi diversi, ma bisogna cercare di andare oltre gli stereotipi culturali e capire il contesto. In Albania noi diamo un’opportunità a queste persone e c’è la fila per lavorare da noi. Prova a chiedere in giro, chiedi alle ragazze cosa pensano del lavoro qui: ti risponderanno che si sentono fortunate. Alla fine sono tutti contenti, a cominciare dai nostri clienti”. Cotonella è impegnata in Albania con decine di laboratori ed una struttura che impiega, complessivamente, piú di trecento persone: è stata una delle prime aziende a sbarcare nel Paese.
Per gli albanesi di oggi il sogno di raggiungere un giorno l’Italia, la Germania, non è più così forte. Certo il mito dei grandi Paesi resiste, ma da terra promessa è ormai stato ridimensionato a semplice curiosità turistica.
“Io voglio andare a vedere Milano, a comprare i vestiti firmati per fare invidia a tutte le ragazze che lavorano con me, ma la mia famiglia me la voglio costruire qui in Albania. Questo è il mio paese, il posto in cui sono nato, e oggi che finalmente è possibile restarci, oggi che non siamo obbligati ad andarcene per cercare il lavoro, non vedo perché dovrei lasciarlo. Mio padre se ne è andato a Bari che io avevo cinque anni, era il 1991. Ci mandava i soldi e tornava a casa una volta ogni 9 mesi. Io non voglio che i miei figli vivano la stessa situazione. Sono riconoscente all’Italia per quello che ha significato per tutti noi albanesi, ma adesso è il momento di tornare e costruire qui la nostra vita”. La riflessione di Ismail, un ragazzo di 22 anni che lavora in uno dei call center più grandi di tutta l´Albania, non é diversa da quella di gran parte dei giovani albanesi di oggi, per i quali la vita non è più lontana, ma nei locali alla moda di una città, Tirana, che somiglia sempre più ad una grande capitale europea.
Le società albanesi che offrono servizi telefonici alle aziende italiane costituiscono in qualche modo la rappresentazione perfetta di cosa è diventata l’Albania di oggi. Decine di giovani imprenditori si lanciano in un’avventura, quella dei call center, redditizia ed a basso rischio, sfruttando per 200 euro al mese giovani che con un impiego part time riescono a portare avanti i loro studi universitari ed a migliorare il loro italiano. Non sono molti in Italia a saperlo, ma spesso chiamare il numero verde di un servizio clienti significa mettersi in contatto con una delle tante strutture di call center operative in Albania. Si tratta di un fenomeno commerciale sempre più imponente, con una media di chiamate in entrata ed in uscita fra Italia ed Albania che sfiora il milione ogni mese, secondo le stime forniteci da Agron Shehaj, proprietario di IDS, il più grande network di call center in italiano presente sul territorio albanese, con 15 sedi, 20 milioni di euro di fatturato annuali e 3.000 dipendenti. “Quello dei call center è un mercato gigantesco – ci dice Shehaj, arrivato in Italia, a Bolzano, nel 1991, dopo essere sbarcato a Brindisi, e rientrato in Albania, dopo aver conseguito una laurea in economica e commercio all’università di Firenze, nel 2005– e sono sicuro che non potrà che crescere nei prossimi anni. Noi continuiamo ad aprire nuove sedi e sono costretto a dire no a tante aziende italiane che vorrebbero gestissi il loro servizio di call center. Il segreto, come sempre nel mercato, è legato ai costi. Noi qui diamo delle prestazioni di altissimo livello con un risparmio, per un’impresa, di almeno il 40% rispetto a quanto costerebbe un call center in Italia”. Dalle compagnie telefoniche Wind e Vodafone sino ai giganti dell’elettricità Terna ed Edison, oggi la battaglia per accaparrarsi nuovi clienti al consumo si gioca da Durazzo, da Valona, da Tirana, con un giro d´affari annuale vicino ai 70 milioni di euro ed oltre trenta società di call center a combattere per un fetta di mercato destinata a crescere esponenzialmente.
Un’altra fetta sconosciuta di Albania italiana è quella dell’Università Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio, una struttura nata nel 2004 e che rilascia, unica nel suo genere, lauree italiane in Albania. Sono tantissimi i professori che da alcuni prestigiosi atenei d’Italia (l’Università Tor Vergata di Roma, la Cattolica di Milano, le università di Bari e di Palermo, per citarne alcuni) fanno la spola con Tirana, in turni semestrali, per insegnare nei corsi di laurea in Medicina, Odontoiatria, Infermieristica, Farmacia. Si parla rigorosamente italiano ed a studenti in buona parte provenienti dall’Italia. I percorsi accademici sono regolamentati da stringenti test di ingresso, con la differenza, ovviamente, che a Tirana la competizione per assicurarsi un posto nelle facoltà è molto meno agguerrita che in Italia. “Il test a Roma per entrare a Farmacia l’ho fatto addirittura tre volte, ma non l’ho mai superato – ci racconta Vanessa, una ragazza di ventidue anni originaria di Ancona – Poi ho visto un programma in tv in cui parlavano di questa università, così mi sono informata e ho scoperto che qui rilasciavano un laurea in collaborazione con l’università di Tor Vergata, identica ad una laurea italiana, perfettamente riconosciuta, come se l’avessi presa a Roma: era un’occasione irripetibile. Ho fatto il test e l’ho passato. Adesso sono qui da un anno, Tirana mi piace e non so se rifarò il test a Roma in settembre, ci sto pensando ma potrei anche decidere di fermarmi e concludere i miei studi.” Per Vanessa, come per tantissimi altri studenti italiani, la Nostra Signora del Buon Consiglio è una sorta di seconda possibilità, una chance di accedere a corsi di laurea che nel nostro paese sono rigidamente gestiti secondo numeri molto inferiori alle richieste degli studenti e che a Tirana invece si mantengono ancora dentro la norma. Certo una seconda chance non a buon mercato, se è vero che la retta annuale dell’Università Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio ammonta a 10.000 euro e che le borse di studio messe a disposizione per l’esonero dalle tasse universitarie non sono molte. Di certo si tratta di una possibilità che rappresenta simbolicamente il rapporto odierno che lega Albania ed Italia. Decine di studenti provenienti da ogni parte d’Italia che compiono il viaggio verso Tirana con l’obiettivo di costruirsi un’opportunità di futuro che a casa loro non potrebbero avere: delle navi in partenza da Durazzo e dirette verso il porto di Bari, stracolme di uomini e donne disperati, resta soltanto il ricordo.
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