Le azioni Air Berlin non valgono più nulla. Lo stato di insolvenza dichiarato da Air Berlin merita una riflessione molto ampia sul mercato aeronautico in Europa e sullo stato complessivo di un settore che si è trasformato radicalmente nel corso dell’ultimo decennio.
Proprio il 2017 potrebbe essere, numeri alla mano, l’anno in cui Ryanair completerà la sua lunga scalata alla vetta del traffico aereo europeo: nei primi sette mesi del 2017 la compagnia irlandese ha trasportato 73 milioni e 900 mila passeggeri, quasi 1 milione in più del gruppo Lufthansa, che dal 2008 in avanti è ininterrottamente in testa a questa speciale classifica e che è ad oggi la quarta compagnia al mondo per fatturato e assets (dietro i giganti statunitensi American Airlines, Delta e Continental) e la prima per numero di lavoratori impiegati, ben 120.000.
Il successo di Ryanair nasce da una politica molto aggressiva sui prezzi, da una proposta ai passeggeri particolarmente diversificata e da un piano commerciale che sfrutta al massimo le risorse a disposizione. Di nuovo, sono i numeri a rappresentare meglio di qualsiasi altra cosa dove Ryanair riesce ad essere più competitiva rispetto alle vecchie compagnie europee: a fronte dei quasi 74 milioni di passeggeri trasportati sinora nel 2017, Ryanair dispone di una flotta di 398 aerei, che decollano verso 186 differenti destinazioni. Decisamente meno rispetto ai 650 velivoli a disposizione di Lufthansa (321 destinazioni), ai 520 di International Air Group (la sigla commerciale di Iberia e British Airways, consorziate ormai dal 2011, conta 248 destinazioni) o ai 574 di Air France – KLM.
Ragionare sul successo di Ryanair permette di analizzare lo stato di crisi di Air Berlin, che ha chiuso il 2016 con un passivo da quasi 800 milioni di euro e che negli ultimi sei anni ha registrato, complessivamente, perdite per 2,7 miliardi e debiti per 1,2 miliardi di euro. Per garantire i voli già venduti e sostenere un’azienda che conta 8.500 lavoratori, Brigitte Zypries, ministro dell’economia tedesco, ha annunciato la concessione da parte del governo di un prestito ponte da 150 milioni di euro, nell’attesa che la compagnia venga rilevata.
Andando a spulciare fra i conti di Air Berlin si scopre come ad affossare la seconda compagnia aerea tedesca sia stato un piano industriale di acquisizioni e quotazione pubblica in Borsa completamente disastroso, partito nel 2006: le azioni Air Berlin valevano allora 12 euro, mentre oggi si attestano intorno agli 0.40 centesimi di euro.
Da lì in avanti Air Berlin decise di insistere su una serie di acquisizioni che ne decreteranno un lento ma progressivo indebitamento. Nel marzo 2007 verrà assorbita la LTU di Dusseldorf, nell’agosto dello stesso anno i tedeschi entreranno poi con il 49% nella svizzera Belair, mentre nei successivi tre anni, sino al 2010, fioriranno collaborazioni e partecipazioni che andranno dalla turca Pegasus Airlines sino alla cinese Hainan Airlines, una strategia implementata di pari passo con l’acquisizione di sempre più aerei e sempre più personale: fra il 2006 e il 2007 gli impiegati di Air Berlin passano da 4.000 a 8.000 e vengono acquistati 60 nuovi velivoli.
È così che dal 2008 in avanti la compagnia berlinese sprofonda, con perdite nette sempre più ampie: 75 milioni nel 2008, 10 milioni nel 2009, 106 milioni nel 2010, 420 milioni nel 2011.
L’arrivo di Etihad, che nel dicembre del 2011 sbarca con il 29% dentro la compagnia, permette di chiudere il 2012 con un attivo di 7 milioni, frutto però della ricapitalizzazione del colosso di Abu Dhabi e non di una ripresa operativa. I numeri, anzi, peggiorano: – 315 milioni nel 2013, -376 milioni nel 2014, -446 milioni nel 2015, -781 milioni nel 2016.
I piani di ristrutturazione, che prevedono di ridurre a 70 le destinazioni, concentrandosi su clienti business e rotte interne, non funzionano e soprattutto non hanno ancora capito dove sta andando il comparto. Il gap è ormai incolmabile ed enorme è la concorrenza per uno spazio ridottissimo come quello europeo.
Alla base della crisi vissuta da quasi tutte le compagnie aeree “tradizionali” a partire dal 2005 in avanti risiede infatti, fondamentalmente, un panorama concorrenziale che ha pochi paragoni sul mercato mondiale. Secondo i dati IATA, la International Air Transport Association, il 61% dei ricavi netti, a livello globale, nel settore, arriva dal Nord America, che conta circa 20 compagnie di alto livello, mentre solo il 25% dall’Europa, con un numero di circa 50 compagnie. Una proporzione che spiega l’altissimo grado di concorrenza in atto su un’area territorialmente ridotta, quella del continente europeo (ma con più destinazioni) e con un numero di passeggeri decisamente minore rispetto a Stati Uniti e Canada (circa 900 milioni di passeggeri l’anno in Nord America contro i 700 in Europa).
In pratica le compagnie aeree europee si scannano per una fetta di mercato risicata, a colpi di tariffe stracciate e stipendi ai lavoratori sempre più bassi. Risulta così vincente la scelta di chi riesce ad ottimizzare al massimo i costi operativi complessivi (torniamo a Ryanair, ma anche ad Easyjet), con costi limitati per il personale di terra, che costituisce invece una zavorra gigantesca per le compagnie “tradizionali”, piani di volo che sfruttano al massimo aerei e crew nel corso di una giornata e una strategia complessiva che punta, innanzitutto, a riempire tutti gli aerei in partenza, anche a costo di praticare prezzi inferiori ai 10 euro a biglietto.
Si tratta di una politica aggressiva, certo, ma rispetto a cui era possibile trovare delle contromisure, come accaduto per Lufthansa, Iberia, Air France, Klm e tanti altri gruppi che, unendosi in joint venture o potenziando la flotta low-cost, sono riuscite a sostenere il colpo iniziale e stanno adesso via via ripartendo. Air Berlin, al contrario, non ha saputo leggere il cambiamento in arrivo, in parte anche perché colpevolmente sostenuta dagli investimenti a vuoto di Etihad, che ha continuato a pompare milioni di euro nella compagnia con continue ricapitalizzazioni, senza però sviluppare un piano industriale di prospettiva.
Il futuro di Air Berlin prevede adesso due possibilità. La prima, fortemente caldeggiata dal governo tedesco, garantirebbe l’acquisizione di tutti gli assets da parte di Lufthansa, che da mesi attende di poter recitare il ruolo di salvatore della patria, diventando in pratica il dominatore incontrastato del mercato tedesco e tagliando le gambe ai progetti di crescita di altri operatori. D’altronde è stato già annunciato che oltre al prestito ponte da 150 milioni di euro il governo lavorerà proprio insieme a Lufthansa per la ristrutturazione della compagnia.
Questa soluzione è ovviamente osteggiata da Ryanair ed Easyjet, interessate ad AirBerlin e che da tempo hanno incrementato la loro presenza in Germania, soprattutto su Berlino e Francoforte.
La società irlandese ha pubblicato una durissima nota in cui accusa il governo tedesco di cospirazione e di star ignorando le regole europee sulla competizione e sugli aiuti di stato. “Questa insolvenza manovrata di Air Berlin – recita il comunicato di Ryanair – è stata chiaramente organizzata così da permettere a Lufthansa di acquisire Air Berlin senza debiti, contro tutte le legislazioni in vigore in Germania ed in Unione Europea”.
Comunque vada a finire, la questione Air Berlin è molto diversa da quella di Alitalia. Pare importante sottolinearlo visto che negli ultimi giorni i destini delle due compagnie vengono spesso affiancati, soprattutto in virtù della condivisa leadership di Etihad, azionista di riferimento per entrambi i gruppi. Air Berlin è una compagnia aerea privata, che sta pagando oggi a causa di un piano industriale sbagliato in un momento storico nel quale il panorama di mercato stava subendo uno stravolgimento epocale. Nonostante questo, continua ad essere comunque una compagnia con 30 milioni di passeggeri l’anno e che gestisce il 28% dei voli in partenza e in arrivo dalla capitale tedesca, Berlino: anche per questo motivo risulta una società molto appetibile per compagnie come Ryanair ed Easyjet, che attraverso la sua acquisizione potrebbero entrare con forza in un mercato, quello tedesco, che è ancora di difficile permeazione.
Alitalia, al contrario, è una vecchia compagnia di bandiera statale, passata sotto numerose acquisizioni e che già da diversi anni non è leader nemmeno nel traffico aereo nazionale, scavalcata da Ryanair ed Easyjet, che insieme ad altre low-cost, come ad esempio Vueling, coprono quasi il 60% dei voli domestici in Italia. Alitalia, al contrario di Air Berlin, ha usufruito di aiuti di Stato per miliardi e miliardi di euro nel corso di tutta la sua storia e le responsabilità del suo fallimento industriale sono solo e soltanto politiche, a partire dall’affare “Malpensa contro Fiumicino e Linate”, che fece tramontare nel 2001 un accordo di fusione con KLM e che, a ben vedere adesso, avrebbe potuto portare grandi risultati e in anticipo rispetto a tutti i più importanti gruppi del continente, sino alle sfinenti lotte di sindacati i quali, nel tempo, hanno preferito proteggere sino alle estreme conseguenze e contro la realtà del mercato posizioni completamente fuori contesto, considerati gli equilibri finanziari attuali.
I numeri, per chiudere, raccontano sempre meglio di qualsiasi commento od opinione. Negli ultimi 30 anni, dunque fra il 1987 e il 2017, Alitalia e le differenti proprietà succedutesi a partire dal 2008 in avanti, hanno chiuso i conti in attivo soltanto due volte: nel 1998, con un dividendo di 408 miliardi di lire, e nel 2002, con un profitto risicatissimo e raggiunto non grazie a meriti operativi, ma in virtù di una penale da 250 milioni di euro dovuta da KLM per il ritiro unilaterale dall’accordo di collaborazione di cui si scriveva poco sopra.
E non è ancora finita.
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