Trovarsi al posto giusto nel momento giusto: un talento, una fortuna, forse semplicemente un incastro di entrambi. Sta di fatto che poche persone possono affermare più a pieno titolo di David Michael Hasselhoff, professione attore, cantante e produttore cinematografico, di esserci passati, per questa condizione benedetta dal fato. Ma andiamo con ordine e facciamo un salto indietro nel tempo, perché magari il nome di battesimo di questo personaggio non dice granché, ma si sta pur sempre parlando di uno dei volti più noti della televisione e del cinema.
È il 1989, e “The Hoff”, come Hasselhoff si fa vezzosamente chiamare oggi che ha quasi settant’anni, si trova in un momento particolarmente fortunato della sua carriera. È reduce infatti dal successo planetario di “Knight Rider”, serie tv, o semplicemente telefilm, come venivano chiamati allora, che in Italia fu rinominata “Supercar” e in cui impersonava Michael Knight, una sorta di improbabile giustiziere della notte, belloccio e un po’ tontolone, che lottava contro le ingiustizie grazie all’aiuto di KITT, una fiammante Pontiac Firebird nera, completamente automatizzata e in grado di parlare, nonché di esprimere visivamente i propri sentimenti attraverso una striscia di Led posizionati sul cofano (ah, gli anni ’80…).
Da qualche mese, inoltre, David si è imbarcato nella registrazione di quella che risulterà essere la serie tv più vista al mondo, di cui sarà anche produttore. Un serial che renderà la sua mascella volitiva un panorama familiare ai telespettatori di tutto il globo, anche se molti detrattori sostengono che il merito del successo non sia da ascrivere tanto a lui, quanto a una delle esuberanti coprotagoniste femminili, una fin lì sconosciuta canadese di nome Pamela Anderson. Si tratta di “Baywatch”. Quali che siano le ragioni di tale successo, comunque, nel 2006 Hasselhoff entrerà addirittura nel Guinness dei Primati, quale “Most watched TV star in history” e sarà celebrato come detentore del nome e cognome più cliccati sui motori di ricerca di Internet. Insomma, dal punto di vista professionale, l’onda lunga del successo che sboccia alla fine degli anni ’80, per il nostro si protrarrà per molto tempo.
C’è un altro lato della carriera di Hasselhoff che in Italia non abbiamo avuto la fortuna, se così possiamo dire, di apprezzare. Questo ragazzone nato a Baltimora ma, come suggerisce il cognome, di evidenti origini tedesche, raggiungerà proprio nel 1989 il suo momento d’oro nel mondo della musica. David infatti è anche un cantante: si inquadra in quel genere di rocker aitanti, anch’esso tipico di certi anni ’80, con quell’aria un po’ alla James Dean e un po’ alla ribelle-dal-cuore-d’oro, che esordiscono con il brano energico e coinvolgente ma hanno già prontissima la ballata strappalacrime, per metà randagi a bordo di una Kawasaki e per metà rassicuranti eroi della porta accanto. Di fatto una specie di estensione del personaggio di Michael Knight, ma anche del futuro bagnino Mitch Buchannon, che ha caratterizzato The Hoff per tutta la sua carriera.
Il Nostro ha pubblicato, a partire dal 1985, due LP di canzoncine di innocuo pop-rock, che però hanno avuto, negli Stati Uniti ma anche nell’Europa germanofona – e soprattutto grazie a “Supercar” – un buon successo. È questo terzo capitolo, però, quello del 1989, che pare poter essere la svolta vera: David ha infatti scelto di collaborare con Jack White (non il fondatore dei White Stripes: quello all’epoca era in terza media). Costui è un produttore di Colonia con una solida esperienza nello sfornare hit di musica Schlager, l’ineffabile pop tedesco che prima o poi meriterà di essere oggetto di un serissimo studio alla Simon Reynolds, ma soprattutto nel confezionamento delle versioni in inglese di due autentici successi mondiali, peraltro di italianissima ascendenza, come Gloria e Self Control. Da Umberto Tozzi e Raf a Supercar, il salto non sarà poi così improbabile.
A ogni buon conto, la collaborazione tra i due partorisce un album che esce il 21 giugno e porta il tonitruante titolo di Looking for freedom, anticipato dal singolo omonimo. E qui torniamo al famoso trovarsi al posto giusto nel momento giusto.
Per anni è circolata addirittura una specie di teoria cospirazionista secondo la quale Hasselhoff era in qualche modo invischiato nella caduta del Muro
Senza che sia necessario essere esperti di musica né tantomeno di questioni socio-politiche, si può facilmente immaginare quanto sia una mossa azzeccata l’uscita sul mercato discografico tedesco di un vivace e accattivante brano che si intitola “Inseguendo la libertà” interpretato da un personaggio nel pieno del successo, statunitense ma di mai celate e anzi sempre rivendicate radici teutoniche. Oltretutto a pochi mesi dalla caduta del Muro di Berlino.
Fortuna? Fiuto? Una fantomatica dritta proveniente dalle alte sfere? Una buona dose di quella che a Roma si definirebbe serenamente paraculaggine?
Un cocktail di tutte e di nessuna, probabilmente: è l’apoteosi e Looking for freedom balza in testa alle classifiche, prima in Svizzera e in Austria e poi, un po’ più lentamente, perché i tedeschi mica si fanno prendere da entusiasmi improvvisi, anche in Germania, diventando una specie di colonna sonora, almeno presso il pubblico più mainstream, di quei mesi storici che videro la caduta del Muro di Berlino e l’inizio del processo di Wiedervereinigung, la Riunificazione tedesca.
Non finisce qui. Il 9 novembre il Muro cade. Poco importa che in quei convulsi mesi siano parecchi i musicisti che vanno a fare concerti improvvisati a ridosso delle sue macerie. Ci sono anche i Sonic Youth e dei giovanissimi Nirvana, per esempio, eppure ciò che tutti, in Germania, si ricorderanno per sempre è quel Capodanno del 1989, in cui, in mondovisione, davanti alla Porta di Brandeburgo, issato su una specie di trabattello, David Hasselhoff, Mitch di Baywatch, Micheal di Supercar, capello cotonato d’ordinanza e con indosso un kitchissimo giubbotto di pelle contornato di lucine lampeggianti, accompagnato a un vezzoso foulard con disegnata la tastiera di un pianoforte, canta Looking for freedom – che poi altro non è che una simpatica marcetta in pieno stile Schlager, a metà tra i Boney M di Rivers of Babylon e Felicità di Al Bano – davanti a 500.000 tedeschi giubilanti e verosimilmente con parecchia birra e Sekt in corpo. David è talmente preso bene e in trance agonistica da non accorgersi che, verso la fine del brano, si vede letteralmente sfiorare il viso da un petardo che di lì a poco sarebbe esploso alle sue spalle.
Da questo momento in avanti, David Hasselhoff è davvero una superstar di quelle che oggi si fanno quasi fatica a immaginare. Per tutti gli anni ’90 l’attore batterà felicemente cassa al botteghino, scalando le montagne di dollari generate da quel Mitch Buchannon sulle spiagge di Los Angeles, in Baywatch.
Poi, dal 2000, arriveranno anni divisi tra una permanente autocelebrazione pubblica e non pochi guai con la bottiglia, fino all’umiliazione, nel 2007, della pubblicazione su YouTube, da parte della figlia Hayley, di un video girato in casa, in cui un Hasselhoff ubriaco fradicio tenta disperatamente di mangiare un hamburger caduto sul pavimento.
La ragazza spiegò che si era trattato di una specie di terapia d’urto ideata per cercare di mettere di fronte al proprio tracollo il padre. Non c’è trionfo senza caduta e viceversa, del resto: il nostro Mitch, da bravo eroe americano dal tenace DNA germanico, risale la china fino a ripulirsi del tutto e ad arrivare, un po’ imbolsito ma sempre in forma accettabile, ai giorni nostri, con la Germania costellata di manifesti che promuovono il tour “David Hasselhoff: 30 years looking for freedom”. Decine e decine di interviste e servizi al telegiornale, in cui un The Hoff con qualche eccesso di botox in viso parla di sé in terza persona, ma non rinuncia ad aprirsi sui momenti più bui legati alla dipendenza alcolica e al turbolento divorzio dalla seconda moglie, Pamela Bach.
Fin qui si è trattato di mera biografia. Ciò che però è interessante provare a capire è come mai David Michael Hasselhoff sia, ancora oggi che l’anagrafe lo spinge lentamente verso un tranquillo e malinconico crepuscolo da ospite nei programmi dedicati alle meteore, un vero e proprio mito per una fetta, magari non più giovanissima ma comunque rilevante, della popolazione tedesca. Ci sono molteplici ragioni, ovviamente, per fenomeni di questo tipo: alcune specifiche e altre contingenti, alcune facilmente perimetrabili e altre più sfumate.
Nel caso del fu Mitch di Baywatch ci sono diversi fattori di cui non si può non tenere conto. Il primo è che Hasselhof è pur sempre un homeboy: quella di origine tedesca è una delle comunità più numerose negli Stati Uniti e ha sempre mantenuto un legame solido e non solo affettivo con la madrepatria. David è nato a Baltimora, nel Maryland, ma la sua bisnonna Meta Hasselhoff vi arrivò nel 1865 da Völkersen, un paesino alle porte di Brema. Lui stesso, dopo gli studi e l’inizio della carriera, ha sempre tenuto stretto il cordone sentimentale con la terra d’origine, come dimostrato anche dai suoi successi musicali e dalla scelta di attorniarsi spesso di collaboratori tedeschi. Dal canto suo, la madrepatria non ha mai smesso di coccolarlo, tributandogli affetto e fama e considerandolo a tutti gli effetti uno dei suoi figli di maggiore successo. In questo atteggiamento c’è un carattere tipico, del popolo tedesco, che manifesta sempre grande orgoglio per i propri concittadini, anche se lo sono solo di ascendenza e anche se non sono contraddistinti da evidenti meriti artistici: diciamo la verità, nessuno, nemmeno lui probabilmente, si offenderà se si afferma che Hasselhoff non è né Robert De Niro né David Bowie, però è innegabile che da Monaco a Kiel, da Dortmund a Dresda, sia una figura quasi di famiglia, soprattutto per gli over 50. Un fenomeno analogo a quello che succede anche con altri profili pubblici, che si tratti di sportivi come Michael Schumacher o Steffi Graf o di personaggi dello star-system come Claudia Schiffer, che finiscono per rappresentare quasi l’idea stessa di Germania nel mondo, in maniera molto maggiore rispetto a quanto accade con le nostre celebrità, ad eccezione forse di alcuni cantanti come Al Bano, o Zucchero e Laura Pausini (alla sensibilità di ciascuno decidere se si tratti di rappresentanti di cui essere orgogliosi o meno).
Insomma, per qualcuno la riunificazione tedesca ancora oggi è in fondo merito di una canzonetta
Poi c’è quella incredibile coincidenza, o mossa strategica: quel brano, in quel momento storico in Germania non poteva che essere la più classica delle ciliegine sulla torta. Soprattutto per gli occhi meno smaliziati dei tedeschi dell’Est, desiderosi di assimilare qualsiasi icona simboleggiasse l’Occidente, tanto più se sotto forma di Deutschamerikaner, Looking for freedom era il paradigma stesso di un mondo che avevano fin lì solo immaginato e idealizzato.
Tutto merito di una canzone che calzava a pennello per quei mesi, come raccontò lo stesso The Hoff, qualche anno fa, in una intervista: “Nel luglio del 1989 ero a Berlino Est, e domandai ad alcuni ragazzi se mi conoscevano, visto che ero l’attore che parlava con una automobile. Mi guardarono pensando che fossi pazzo e mi risposero che no, mi conoscevano perché ero l’uomo che cantava della libertà”.
Mettiamoci poi anche la nostalgia. Non c’è bisogno di adoperare il concetto di Retromania, quella tendenza alla musealizzazione che sta toccando praticamente ogni aspetto del nostro recente passato, ma è innegabile che Hasselhoff sia un archetipo, per quanto commerciale e costruito, di uno dei lati, quello più popolare, di un decennio che non cessa di far sentire i suoi echi ancora oggi. Un effetto-nostalgia e di amarcord della giovinezza, che è in Germania forse ancora più presente che in Italia, se si presta attenzione alla programmazione musicale di numerose radio FM, ampiamente cariche di brani degli anni ’70-’80 più musicalmente facili.
Si può aggiungere un altro dato, pure connesso a forme di nostalgia e retromania: quello del gusto per il trash, coltivato da un punto di vista consapevole e intellettuale alla Tommaso Labranca, ma anche da uno più naif. Un sentimento che anche in Germania, come del resto in gran parte del mondo occidentale, è ben presente e consente di sparigliare le carte mischiando alto e basso, talvolta facendosi un po’ prendere la mano e mettendo insieme mondi che in realtà non si parlano poi molto. Proprio in Pariser Platz, per esempio, dove troneggia la Porta di Brandeburgo, per qualche tempo, nel 2014, per festeggiare il quarto di secolo dalla caduta del Muro, fu alloggiata una statua a grandezza naturale di Hasselhoff nei panni di Michael Knight. Sempre a Berlino, nel quartiere di Mitte, invece, ancora oggi, nel seminterrato di un famoso ostello cittadino, il Circus, si trova un vero e proprio museo dedicato alla star tedesco-americana. Di nuovo nel 2014, National Geographic Channel realizzò un documentario, dal didascalico titolo “Il Muro di Berlino con David Hasselhoff”, in cui il buon David faceva da Caronte, accompagnando gli spettatori nei luoghi dove era avvenuta die Wende, la svolta che chiuse l’epoca della Germania divisa in due. Con buona pace di politici come Adenauer o Willy Brandt e Gorbaciov, oppure dei dissidenti della DDR. Insomma, per qualcuno la riunificazione tedesca ancora oggi è in fondo merito di una canzonetta.
Ma soprattutto c’è la storia personale di David Hasselhoff, al di là degli onori e delle disavventure provocate dalla fama. Abbiamo già detto del legame mai reciso con la Germania. Quello che, soprattutto in Italia, non si percepisce è che David, a partire da quel famoso capodanno del 1989, divenne realmente un feticcio per i tedeschi, nonostante il look trash e plasticoso e una carriera segnata dalla popolarità, ma non certo dalla qualità. Anzi, forse proprio grazie a una carriera di questo tipo, dal tono molto popolare e per nulla intellettuale, perfetta quindi per generare nel pubblico un processo di immedesimazione.
Una faccia pulita, con gli occhioni blu e il fisico prestante, di grande successo, di origine tedesca ma nipote di emigranti e che canta canzoni sulla libertà: cosa si poteva desiderare di più per simboleggiare la Deutsche Renaissance coincidente con la fine delle due Germanie? Insieme alla Nazionale di calcio che avrebbe trionfato a Italia ’90, formalmente ancora Germania Ovest ma già simbolo di unità nazionale, sarebbe stato difficile trovare di meglio. Per dare un’idea del livello di hype che quella canzone e quell’esibizione alla Porta di Brandeburgo rappresentarono, bisogna pensare che per anni è circolata addirittura una specie di teoria cospirazionista secondo la quale Hasselhoff era in qualche modo invischiato, a causa delle solite oscure trame ordite dalla CIA e dai servizi segreti statunitensi, nella caduta del Muro, e che il suo brano avesse costituito una sorta di incitazione alla rivolta, oltre che un’arma di propaganda mascherata da innocuo 45 giri. Risale al febbraio 2018, nel corso di una intervista a Der Spiegel, l’ultima volta, l’ennesima, in cui a David è toccato ribadire di nuovo che lui, con la caduta del Muro, invece naturalmente non c’entrava proprio niente, e che si considera quasi una vittima di questa coincidenza: “Ho cantato una canzone sulla libertà e per puro caso si trovava al numero 1 della classifica quando il Muro cadde, tutto qua”. Ma si sa che i complottisti non si arrendono di fronte a niente.
In ogni caso, Hasselhoff si è invece più volte speso in pubblico, negli ultimi anni, per la causa della salvaguardia della memoria nazionale, proprio a proposito del Muro di Berlino, reinventandosi così, al crepuscolo della sua carriera artistica, come esempio di star che non perde contatto con la realtà e le problematiche del mondo contemporaneo.
Nel 2013 partecipò infatti a una manifestazione di protesta contro la speculazione immobiliare e la gentrificazione nei pressi della East Side Gallery, l’area del Muro a ridosso della Sprea che è stata conservata a mo’ di museo a cielo aperto. Si radunarono quasi 10.000 persone, anche se la maggior parte di loro era formata da semplici turisti e curiosi che volevano vedere da vicino la star Mitch di “Baywatch”. A fine 2017, invece, registrò addirittura un videomessaggio destinato al sindaco della città, Michael Müller, per chiedergli di bloccare un progetto edilizio legato alla costruzione di un nuovo albergo di lusso, sempre nella zona della East Side Gallery, a supporto di una associazione di club e discoteche della città che lottano per non sperdere l’anima popolare della città.
Forse, però, la vera ragione per cui David Michael Hasselhoff è tuttora un mito per i tedeschi, è in quella mistura tutta loro di autocompiacimento e autoironia verso i propri simboli più pop, che gli abitanti di questa nazione possiedono in quantità, anche se non sempre sono propensi ad esplicitarla. Come spiegare altrimenti il tweet ufficiale pubblicato dal Ministero degli Esteri tedesco, in occasione del 65′ compleanno di The Hoff, nel 2017, in cui una sua foto giovanile è accompagnata dalla frase “In tempi in cui nuovi muri vengono edificati, è più bello pensare a chi li ha abbattuti”? Lo scrisse del resto anche Oliver Trenkamp, in un editoriale, di nuovo sullo Spiegel: “David Hasselhoff ha contribuito davvero alla riunificazione tedesca. Ma non perché la sua musica ha abbattuto il Muro, quella è una stupidata. Il vero motivo è che David Hasselhoff ha dimostrato al mondo che non è più necessario avere paura dei tedeschi: un popolo che fa il tifo per uno strano ragazzone che indossa occhiali a led e giubbotti di strass, oppure che diventa celebre facendo il bagnino non lo si può prendere sul serio. Dovremmo solo smettere di prenderci troppo sul serio anche noi!”.
A corredo delle parole di Trenkamp, si potrebbe chiosare dicendo che lo si può prendere ancora meno sul serio, un popolo che venera un essere umano che ha dato il nome a una nuova specie di granchio scoperta nel 2010. Il Granchio Hoff, così denominato proprio in virtù della somiglianza tra l’addome setoso del simpatico crostaceo e il petto villoso dell’interprete di Michael Nitte di “Supercar”: come passare insomma da Looking for freedom a “looking for Crab Hoff” in un colpo solo.
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