Mi sono messa in testa che voglio tradurre libri dall’inglese. Faccio, disfo, brigo, capisco come cominciare e via. Tutta la fase iniziale di analisi e contatti mi diverte, chiedo se qualcuno ha già acquistato i diritti, penso a quale casa editrice in Italia sarebbe adatta. Mi entusiasmo, l’idea che un libro che ho amato possa venir letto anche da chi non ha dimestichezza con l’inglese mi rende felice. Scelgo “Against Everything” di Mark Greif. Il passo successivo sarebbe inviare una prova di traduzione: decido per il saggio “Learning to Rap” perché quando l’ho letto mi ha fatto ridere molto. Ho già tradotto in vita mia e non mi è mai piaciuto particolarmente. Ho voluto illudermi che trattandosi di saggistica contemporanea piuttosto che di descrizioni di portfolio, biografie personali e presentazioni di progetti artistici, questa volta sarebbe stato diverso.
L’introduzione scorre, anche se mi accorgo in fretta di essere infastidita dalla quantità di parentetiche ed incisi che usa l’autore: posso sfoltirne un po’? Rimani fedele, rimani fedele, mi dico. Vado avanti, sto per arrivare al pezzo che fa ridere, sento l’eccitazione crescere, chi sa se riuscirò a renderlo divertente anche in un’altra lingua. L’autore nell’incipit ha confessato di aver fatto la scelta sbagliata ai tempi, quando tra il post-punk e l’hip-hop ha deciso di votarsi al primo — come hanno fatto tanti altri americani bianchi della medio-borghesia— non riconoscendo affatto la portata storico-culturale dell’ultimo. Quest’errore ha comportato, continua Greif, il non aver imparato a rappare quando la sua mente era ancora duttile e in grado di assorbire linguaggi nuovi senza sforzo. A questa mancanza ha voluto porre rimedio a quarant’anni.
Nel passaggio successivo l’autore cita il testo di Nas, “New York State of Mind” , e i suoi tentativi di riprodurlo verbalmente. In lingua originale è facile, la canzone è in inglese, il saggio è in inglese, i lettori sanno l’inglese. Ma io come faccio? Non ha senso tradurre il testo rap, non ha senso tradurre solo gli sforzi di Greif nell’imitarlo. Allo stesso tempo il linguaggio hip-hop è così ricco di ironia, inventiva, slang e licenze poetiche, che non sempre è di facile fruizione. Mi pizzica il collo. Inizio a capire che non riuscirò mai a rendere lo stesso sentimento che ho provato io mentre leggevo. Decido di lasciare l’inglese originale, ci penserò meglio dopo. Fortunatamente lo scrittore mi viene inconsapevolmente incontro parafrasando il verso lui stesso. Dopo un breve excursus metrico- prosodico che probabilmente solo a) linguisti, b) filologi, c) musicisti sono in grado di seguire con passione, in cui spiega sillabe, metri e battute, mette a confronto la performance ad alta velocità di Nas con quella decisamente più posata di Elvis in “That’s All Right”.
Well, that’s all right, Mama: sei sillabe rallentate da una cesura, enunciate nella stessa durata di tempo delle diciassette del rapper. Lo fa citando l’intro del re del rock, ed io mi trovo davanti allo stesso problema di prima. Il collo mi prude da morire. Continua a fare paragoni portando come esempi i versi in cui Elvis addirittura strascica l’ultima sillaba o aggiunge una vocale “eufonica” alle parole che finiscono con consonante. La mia frustrazione cresce insieme alla consapevolezza che molto, molto, molto difficilmente riuscirò a far passare l’ironia linguisticamente nerd dello scritto e farla arrivare anche a chi non ha conoscenze nell’ambito della prosodia e dell’inglese.
Anche se riuscissi a fare una buona traduzione tante sottigliezze andrebbero perse, la precisione e l’acume dello scritto scivolerebbero nel gap linguistico che intercorre tra i due idiomi. Mollo il colpo, non sono all’altezza. Penso che l’arte della traduzione non si sposi bene con pretese di perfezionismo da cui non sono ancora riuscita a liberarmi del tutto. Non la vivo come un’amara sconfitta solo perché fare la traduttrice non è la mia ambizione personale, ma mi chiedo come facciano quelli che per mestiere traducono.
Questo è il motivo per cui ho voluto chiedere a qualcuno del settore, qualcuno che si occupa di traduzioni dall’inglese all’italiano da circa vent’anni.
Matteo Colombo l’ho conosciuto a una festa lungo un canale in una zona industriale di Berlino.
Dopo aver notato che tutti i miei amici chiedevano a lui chiarimenti di tipo linguistico-letterario, una volta in disparte, ho chiesto ad una di loro perché lo trattassero a mo’ di enciclopedia.
“Sa un sacco di cose, è un traduttore importante, infatti dovresti parlarci.”
Quando ci siamo incontrati nel suo ufficio a Neukölln, quelle che gli ho posto sono forse le domande più classiche che potevo scegliere, ma allo stesso tempo quelle di cui più mi premeva avere una risposta da lui.
Che la traduzione è un gioco a perdere è tra le prime cose che mi dice.
“È la lezione numero uno che impara il traduttore, la vecchia storia di tradurre uguale tradire. Devi mettere in conto le perdite, ma tenere a mente che la cosa importante è che la gente possa leggere quel libro. Nonostante nel passaggio da una lingua all’altra alcune cose non rendano, si riesce comunque a veicolare lo spirito profondo di un libro, e questo è quello che conta.”
Veicolare è la parola chiave, la traduzione è il processo attraverso il quale un romanzo, saggio, poema vengono resi fruibili in un lingua diversa da quella di origine, ma ciò che il traduttore crea è a tutti gli effetti una nuova opera?
“Mi pare evidente. È un libro scritto ex novo da un’altra persona, di un’altra cultura, che cerca di trasmettere ciò che ha scritto un altro individuo.” Evidente adesso mi sembra anche quanto questo lavoro sia delicato: si ha a che fare con il lavoro di qualcuno che ha impiegato anni della sua vita, che a volte ha riversato esperienze, emozioni e traumi in ciò che ha composto, che si è impegnato in varie misure, a rendere il suo mondo interiore intellegibile per il mondo esteriore. Far sì che ciò venga compreso anche da chi ragiona e si esprime secondo altri parametri e altre regole ha bisogno di sensibilità e dedizione.
“Per carità, non voglio parlare del mio lavoro come se fossi un chirurgo che opera a cuore aperto. Però è il mio mestiere, è anche naturale che rifletta a riguardo.”
Matteo mi racconta che a volte capita di poter parlare direttamente con l’autore per sciogliere alcuni dubbi, per esempio con Michael Chabon si sentiva sulla chat Gmail, mentre De Lillo, che usciva tradotto in contemporanea mondiale, aveva preposto una persona a cui i traduttori potevano porre domande e a cui lei, facendo da tramite con l’autore, cercava di rispondere. Quando lo scrittore, per un motivo o per un altro, non è disponibile, la parte sociale del lavoro è comunque uno degli aspetti più piacevoli del mestiere. Dal contatto con l’editor di quando gli si fa la proposta, alla revisione con i colleghi.
“Ho sempre lavorato con revisori che hanno arricchito la mia traduzione, ho sempre imparato. Poi ho avuto la fortuna di cominciare con Martina Testa con la quale si è creata un’ottima sinergia. È fondamentale per me che qualcuno migliori il mio lavoro.”
Gli chiedo che ruolo giochi l’ego in quello che fa, gli faccio l’esempio dei laboratori di scrittura creativa dove capita che un compagno di corso ti suggerisca di tagliare un aggettivo di cui eri particolarmente fiero, di rivedere la sintassi di una frase che per te suonava particolarmente bene, e la reazione a questi suggerimenti può essere spropositata. C’é chi si inalbera, chi si offende, chi fa il borioso. Mi spiega che la traduzione oggettivamente è meno personale della scrittura. Poi, una volta che si prende dimestichezza con la pratica, si impara a non affezionarsi troppo alle decisioni, bisogna essere in grado di adattarsi in fretta ai cambiamenti, non si può pensare di passare venti minuti su ogni aggettivo. Parliamo dei vari modus operandi, mi racconta del suo nuovo approccio alla traduzione. Dopo due decenni di professione aveva bisogno di ritrovare lo slancio. Da allora, da dopo la traduzione de Il Giovane Holden, ha accantonato la “prima scuola” — cioè il metodo secondo il quale si cerca di rimanere più fedeli possibile al testo, sia a livello lessicale che a livello sintattico— per dedicarsi ad una modalità più creativa.
“Quando leggo cerco di entrare nel testo, assorbirlo, capirlo anche prelinguisticamente, interiorizzo le atmosfere e le sensazioni che l’autore trasmette, per poi restituire quello che ho percepito con le mie capacità.” Aggiunge che però l’obiettivo astratto ed irraggiungibile di ogni traduttore, o sicuramente il suo, è quello di nascondersi il più possibile tra le righe.
“Cerco di non far emergere la mia voce, di mimetizzarmi così da non distrarre il lettore, di modo che passi meglio quello che ha scritto l’autore. Poi all’atto pratico, è inevitabile, soprattutto con gli scrittori più pop come Palahniuk, che escano fuori dei modi di dire tipicamente miei. È capitato che alcuni amici mi riconoscessero quando leggevano certe traduzioni.”
Mi parla di un libro che ha tradotto qualche tempo fa, “George”, di Alex Gino.
“Solitamente non traduco letteratura per ragazzi, ma questo libro mi interessava particolarmente perché la protagonista è una bambina transessuale. È stata un’esperienza interessante. L’autore del libro inoltre è non-binary, (n.d.r. cioè qualcuno che non accetta il binomio uomo/donna e si identifica in un genere altro) in inglese la questione di come rivolgersi a qualcuno che non è né “lui”, né “lei” si risolve usando il pronome “they”, ma l’italiano è una lingua meno aggiornata in questo ambito. ”
La componente sessuale del linguaggio, continua Matteo, è un lato che esplora da diversi anni traducendo per riviste italiane. Da cinque anni infatti si occupa della rubrica di Dan Savage su Internazionale. Mi dice questo mentre ci infiliamo i cappotti, con le sigarette del dopo caffè tra le labbra.
“Si parla di sesso in tempo reale, su una rivista connotata politicamente, le scelte di come traduci un po’ di peso ce l’hanno. Almeno, io dei problemi me li pongo. Per esempio la parola kink, che ultimamente compare molto spesso, non ha una traduzione perfettamente corrispondente in italiano. Anzi, ce l’ha ed è perversione, che nel suo etimo originario ha una valenza del tutto neutra, ma che con il passare degli anni ha acquisito un’accezione negativa. Io scelgo attivamente di non usarla per contrastare la sex-negativity imperante, come d’altronde cerca di fare la rubrica che traduco.” Ci chiudiamo la porta del co-working alle spalle. Matteo si alza il colletto della giacca jeans, io incasso la testa nelle spalle. Ci incamminiamo verso Tempelhof ed è come se stessimo camminando in direzione mare. Solo cielo all’orizzonte.
“E poi ti dirò, mi dà soddisfazione: scegliere le parole, nel piccolissimo che posso fare, è anche una scelta politica.”
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Immagine di copertina: Matteo Colombo, © Tulasi Da Prato
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